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PREFAZIONE
Defilato, un poco scialbo, quasi sorniosamente estraneo al gioco di tante
superbe crode circostanti, il Rite appartiene alla strana categoria dei monti
fortificati cadorini.
Disceso dai magnanimi lombi di Monte Ricco e Col Vaccher, fratello minore
del Tudaio e del Vidal, sconta con essi un singolare destino, fatto di impeccabilità
teorica e di storica inanità, tanto che non capisci mai se sulla cima quel ce-
mento sventrato, e pur vergine ancora, espii la catarsi ultima di un fallimento
meritato e annunciato, o gridi invece vendetta al cielo e ai posteri per
un'impotenza coatta e sofferta, dovuta a uomini lenti e lontani.
Sali dolcemente per la bella carrabile che dipana i suoi tornanti da Forcella
Cibiana e giunto ormai in alto, per il buio propileo di una galleria scavata ad
arco nella roccia, accedi al forte e alle sue membra sparse per ogni dove sulle
balze petrose della vetta.
Caserme, trincee, magazzini, fondamenta di ricoveri e baracche, ruderi di
telefenche e cannoniere, postazioni ed osservatori scandiscono ogni passo della
tua finale ascesa e cingono in ideale corte la possente batteria arroccata al
vertice, vera arce di una città fortificata. nesso unico di roccia e cemento.
Penetri nei lunghi corridoi fermati per sempre nel rantolo dell'esplosione
intestina, t'arrampichi per quei pozzi sbrecciati nati per il fuoco e l'acciaio, e
sbuchi a contatto del cielo, al cospetto dell'Antelao e del Pelmo. I tuoi passi
risuonano sulla liscia e bianca piattaforma, ultimo degli altari innalzati alla
guerra e alle sue vane ipotesi, mentre il tuo sguardo ha la gittata di mille granate
lanciate su un orizzonte senza ritegno.
Gli occhi puntano le agili cuspidi delle chiesette disseminate nel meandro
della valle, serpeggiano lungo i nastri del Boite e dell'Alemagna, s'insinuano
negli agglomerati imbuti di paesi e frazioni, per perdersi infine nella nebbia del
sempre più remoto ed evanescente.
Ma prima che la tua vista ceda, cogli l'aprirsi della valle nella conca di
Cortina e in quel chiarore disteso percepisci per un attimo l'attesa antica del
nemico, senti che la pietra che ti sorregge è nata protesa in tutto e per tutto a quella
volta, e tu stesso diventi vigile scolta, spettatore plagiato di un avvento tradito...
Solo dopo quella rincorsa a perdita d'occhio a ritroso del Boite e del tempo,
guardi allo Zoldano, allo Sfornioi, al Dubiea, alle falde dell'Antelao che stende
al di là della Chiusa le sue estreme e verdi propaggini.
Quasi ai tuoi piedi, sotto lo spigolo acuto della Croce di Monte Rite, giace
l'appendice complementare dell'opera di Pian dell'Antro, e in sinergia con essa ti
pare veramente di stendere una catena attraverso la valle, di divenire arbitro e
signore del formicolante trapasso di uomini e cose laggiù.
Dietro di te il monte precipita in orrido baratro rivolto a Cibiana e al Centro
Cadore, a quella rete di strade, forti e postazioni che fu il campo trincerato di
Pieve e che guarda ancora a questa verde roccia come a sua estrema torre di
guardia verso occidente.
La tua vista spazia libera e tu ti accorgi che questo monte, eccentrico e scabro
visto dal basso, si confronta in alto a tu per tu con i pilastri del Cadore e sembra
dirigere un ideale coro di guglie dal centro di un anfiteatro disteso a gradoni
attorno al suo propugnacolo di guerra.
Strano e curioso il destino di questo Cadore fortificato a tutti i costi, dal 1866
in cima ai pensieri d'ogni presunto stratega, fucina e crogiuolo dei novelli reparti
alpini! Qui la patria impegnò davvero tutta se stessa in uno sforzo finanche
velleitario, curò in queste pietre disposte ad arte la propria immagine di potenza
emergente, persegui ed ottenne anche così la degnazione e il rispetto di un alleato
che la Triplice non bastava a far sentir tale.
La teoria dei "forti corazzati" sognava sulle
pallide Dolomiti quella difesa ad
oltranza dei confini che gli occhi stanchi di Garibaldi avevano faticato a
scorgere, e il suo parto fu travagliato e lungo, non scevro di pentimenti e di cadute,
di buone intenzioni tradite e di rivisitazioni modernistiche. Ecco, l'intera
"Fortezza Cadore-Maé" rispecchia il frutto ultimo, e pur immaturo, di uno
sforzo durato cinquant'anni, essa rappresenta uno spaccato di vita italiana e
cadorina, attraverso cui filtrare i progressi, le ansie, le aspirazioni della patria
grande come di quella piccola. Anzi, quella pietra incastonata che ti sta davanti
rappresenta l'istantanea finale di una proiezione sospesa, il culmine di un
divenire tecnico interrotto dal conflitto stesso, presentatosi sotto spoglie mentite
e perciò inopinate. I forti di Monte Rite e Pian dell'Antro sono i figli ultimi e
legittimi di una strategia non priva di una sua logica e di una sua intima coerenza, ma
sconfessata dal gioco perverso di una guerra finalmente apparsa, che
nella sua ineffabile commedia volle dal primo giorno spostare il palco un poco
più in là, invertendo maschere e ruoli.
Essa ha preteso però di lasciare comunque sul nostro monte l'estrema ed
indelebile impronta, sovrapposta senza alternative ormai alle memorie di una
civiltà pacifica, fatta di armenti e casere, lontana da compiacimenti arcadici ma
certo più sapiente e sincera. Quanto mai effimera e volubile, la diana militare ha
voluto anticìare senza pietà i tempi di una decadenza già scritta e insediarsi coi
suoi vanitosi manufatti al posto delle umili testimonianze di una millenaria
tradizione silvo-pastorale.
Eppure quel cemento deflagrato, coi suoi paradossi e coi suoi evirati aneliti di
sicurtà e gloria, serve in definitiva la causa della ragione e della pace. Se gli
uomini tendevano ad un'opera "aere perennius", ci sono riusciti, e ne hanno
fatto
vero, grande monumento. Di che cosa, sii tu a dirlo, amico escursionista salito
con noi fin quassù.
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