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PREFAZIONE
A differenza dei forti di M. Rite e di M.Tudaio, ideati e costruiti su cime aspre
ed aggettanti e perciò già di primo acchito maestosi ed appariscenti, quello di
Col Vidal, leggermente più basso, certo non catalizza subito sguardo ed
attenzione, immerso com'è nel verde trionfante di boschi e pascoli senza fine.
Tutto il Pian dei Buoi si presenta infatti come un`ampia ed ondulata distesa,
caratterizzata da colli ed avvallamenti in armonica scansione, digradanti
dolcemente verso nord, fino a spegnersi nel più sfumato e dissolto scenario della
Val Ansiei.
Ed indubbiamente il fascino di queste balze dai ceppi antichi riposa proprio
sull'atmosfera appartata che le pervade, sull'equilibrio di proporzioni e colori tra
la marea di pascoli sottesa alla base e il ventaglio soprastante di creste e
pinnacoli, mai invadenti e prevaricatori, pur nella loro fedeltà alla bellezza e alla
fama delle Marmarole.
Ciarido e Ciastelin nutrono con le loro vene sorgive un terreno grasso e
fecondo, fin dall'evo antico ambito pascolo per le mandrie di Lozzo, il paese che
più di ogni altro ha qui impiantato i segnacoli di un'antica civiltà pastorale,
austera sempre, ma certo nobilissima. Ancor oggi il trascolorare del verde appare
contrappuntato qua e là dalle chiazze degli armenti peregrinanti al ritmo blando
dei campanacci, ben povero retaggio peraltro di quella fiorente attività silvo-
pastorale che quassù nei secoli volle casere e fienili e che regnò indisturbata fino
ad un secolo fa, affidando ai toponimi l'impronta prima del lavoro e del sacrificio
dell'uomo. Ecco, quello che forse colpisce di più qui è il singolare contrasto tra la
pacata flemma del contesto naturale ed umano, asservito alla dura ma
trasparente legge della fatica, e l'involuta ed agitata determinazione dello
stratega che su di esso ha voluto innestare la sua teoria e la sua prassi
fortificatoria.
Il Pian dei Buoi, dopo secoli di cadenze ancestrali e pacifiche, vide
improvvisamente lievitare, a partire dal 1880, interessi e realizzazioni militari,
sull'onda della valorizzazione delle truppe alpine prima e sull'inseguimento di
quel vano sogno che fu la Fortezza Cadore-Maè poi.
Quale singolare connubio dovette consumarsi, specialmente dopo il 1910, tra
l'improvvisato tugurio del pastore e l'altezzosa esuberanza del forte e delle
caserme, costruiti ad immagine e somiglianza di quell'Italia giolittiana che con
siffatto ostentare coltivava inusitate ambizioni ed esigeva rinnovato rispetto
dentro e fuori la Triplice!
Con quale occhio i lozzesi abbiano guatato tale singolare coniugazione di
bosco e cemento, di acciaio e di greggi, è facilmente intuibile.
Non fu certamente facile la convivenza coi militari, giacché gli interessi
nazionali, sempre astratti e dilatati, raramente coincisero con quelli locali e
troppo diversa apparve continuamente la logica di chi preparava la guerra da
quella di chi solo mungeva e tosava.
Strade e sentieri, trincee e baracche, scavi e terrapieni, di ogni tipo e per ogni
scopo, finirono collo stendere sull'intero altopiano una pesante cappa di servitù e
danneggiamenti, sgranando intorno al forte un rosario di difese tortuoso ed
incredibile, che ancor oggi non pare del tutto assorbito e dimenticato.
Ma è anzitutto la batteria del Vidal, con la sua impressionante catasta di
lastre cementizie deflagrate, a sottolineare l'ennesima inanità umana e storica,
proprio di fronte a quel Monte Tudaio che, negli stessi anni e coi medesimi
presupposti, celebrò identici miti di resistenza ad oltranza e condivise poi da
conforme germano, l'agra sorte del fallimento assoluto, dei soldati come dei mezzi.
"Ovunque lo sguardo io giro, immenso Dio ti vedo" recita una preghiera ai
piedi di una modesta croce, innalzata là dove la rovina dell'opera umana appare
più avvilente e lo scenario dolomitico sa dispensare per contro uno dei suoi scorci
più grandiosi.
Proprio per penetrare meglio le ragioni del crollo inopinato, dell'esiziale
sconfessione del dogma fortificatorio per mano di una guerra paradossale e pur
vera, abbiamo voluto affondare ogni pretesa strategica e tattica nella terra
cadorina, nella sua gente, nei suoi problemi di ieri e di oggi. Abbiamo cercato di
sposare sempre calcoli e diatribe tecniche con speranze e disillusioni di Lozzo e
dintorni, di far affiorare in ogni modo la personalità e la vita dei capi e dei gregari
impegnati nei lavori, convinti che il forte del Vidal è entrato comunque, nel bene e
nel male, nella storia del Cadore e che ad essa appartiene a pieno diritto, senza
remore o complessi di sorta.
Solo su questa base - noi crediamo - sarà possibile formulare un giudizio
sereno sul passato e soprattutto proiettarsi con cognizione di causa verso un
futuro fatto di valorizzazione culturale e turistica. E se il futuro prossimo davvero
si paleserà tale, si potrà dire almeno che tanto costruire non fu invano, e pure il
nostro lavoro avrà, di riflesso, servito una causa e raggiunto uno scopo.
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