Non c’è strada vuota in cui non si possa incontrare qualcuno, così si ripeteva Corsi mentre attraversava la strada senza guardare a sinistra, senza guardare a destra. Ah, davvero non se ne curava, tant’è vero che più di una volta aveva rischiato di essere investito da quei bolidi senza volti che corrono velocissimi proprio da sinistra verso destra. Una volta sì, guardava bene, prima da una parte poi dall’altra, e passava solo quando poteva essere sicuro che non arrivava nessuno, ma adesso non lo faceva più. Non che fosse scemato il suo amor proprio, questo no, ma era come se sentisse che non ce n’era più bisogno. Era così ormai da molto tempo, si direbbe dal giorno del suo abbandono, ma non se ne potrebbe esser certi, visto che ormai era passato un lasso di tempo abbastanza grande da far sì che la memoria avesse compresso quell’informazione in uno spazio troppo lontano dalla coscienza, nella mente di Corsi. Non c’è strada vuota in cui non si possa incontrare qualcuno, aveva pensato per giorni e giorni, e questo pensiero continuava a offuscare qualsiasi altra direzione potesse prendere la sua prospettiva. Camminava a quattro zampe. Un giorno che doveva essere lontanissimo aveva cominciato ad andare in giro così, e qualche volta si chiedeva se c’era stato un momento nella sua vita in cui era stato eretto, come le altre persone che gli era capitato di vedere. Eh sì, si diceva in momenti di lucidità, la mia memoria è davvero breve, non ricordo più nemmeno se io… Passò del tempo e non si pose più la domanda. Ormai camminava a quattro zampe e basta. Capitava anche, perché la giornata è lunga, che gli venisse il dubbio che forse avrebbe potuto usare qualche altra parte del corpo come arto: questo avrebbe facilitato il suo passo e pigro com’era gli avrebbe risparmiato un po’ di energie, ma già gli sembrava strano che tutti ne usassero due e lui quattro, così per pigrizia come gli era venuto quel pensiero allo stesso modo giunse il momento in cui smise di porselo. Ora, sebbene procedesse a quattro zampe da un tempo che gli risultava immemorabile, chiunque lo incontrasse non poteva fare a meno di pensare che fosse estremamente goffo. È ovvio che per lui ogni movimento risultava perfettamente naturale, ma un occhio esterno poteva cogliere la fondamentale mancanza di logica che animava tutti i suoi gesti. Lui faceva avanzare prima la mano destra, poi il piede sinistro, poi il piede destro, poi la mano sinistra, poi la mano destra, poi il piede sinistro, poi il piede destro, poi la mano sinistra. Purtroppo ad ogni movimento non corrispondeva un’eguale velocità di esecuzione ed è proprio per questo motivo che Corsi risultava sgraziato alla vista per non dire sgradevole. Mentre procedeva Corsi rimaneva con la testa immobile davanti a sé. Muoveva però incessantemente le pupille degli occhi in ogni direzione. In questa maniera era aggredito da una quantità innumerevole di indefinite informazioni, che venivano tutte velocemente elaborate dalla sua mente e ributtate in modo altrettanto lesto fuori dalla bocca che aveva sempre spalancata. Nel far questo non si può dire che emettesse suoni di alcun genere, perché Corsi non parlava, tuttavia qualcosa doveva pur uscirgli dal petto! Certo è che la sua andatura e il suo pensiero gli venivano non poco in aiuto nel prendere in considerazione aspetti della realtà (salvo poi abbandonarli nel loro luogo originario) a cui tutte, dico tutte le persone di questo mondo mai si degnerebbero di porre la benché minima attenzione. In verità il motivo principe per cui parliamo di Corsi è proprio il suo modo transitorio di sentire, tuttavia, e mi dispiace dirlo, non ci soffermeremo mai ad analizzare queste percezioni del reale perché solamente lui sarebbe in grado di dirne qualcosa, e purtroppo Corsi ha smesso di parlare da un tempo ampio abbastanza da aver dimenticato il fatto stesso di avere un giorno, forse, parlato. La sua mente era un grande scolapasta, i cui fori potevano sì permettere l’entrata di informazioni, ma anche postulavano l’impossibilità oggettiva a tenerle con sé. C’erano pensieri che lo accompagnavano per giorni e poi lo abbandonavano definitivamente, ed in questo momento l’unico pensiero che gli sembrava appartenere era che non c’è strada vuota in cui non si possa incontrare qualcuno. D’altra parte ad ogni incontro non poteva dire o raccontare nulla dei suoi incontri precedenti, perché non era in grado di parlare e perché non ne ricordava nulla; in verità non poteva nemmeno essere sicuro di averne avuti, tuttavia è innegabile, e anche lui stesso si guarderebbe bene dal porre in discussione questa affermazione, che abbia avuto degli incontri. In questi casi Corsi aveva un comportamento standard. Non aveva dimestichezza, e comunque non rispondeva mai agli Scusi o ai Senta, e non voltava nemmeno gli occhi quando lo chiamavano Maschio o Giovane o Giovanotto o Aoh o Bello o Piccolotto o Pss o Ciccio o Coso o Tizio o Uomo o Capo o Stronzo o Nonno o Maestro o Cagnaccio o Pezzo di merda. In tutti gli altri casi alzava lo sguardo con occhi interrogativi, o almeno questa era la sua impressione. I saluti gli piacevano più di ogni altra cosa, e diventava quasi implorante di altre parole davanti a Buongiorno o Salve o Ciao o Buona giornata o Buonasera o Hello o Benvenuto o Buondì, ma era sempre indeciso quando qualcuno esordiva con Buongiorno, scusi o Ciao, senti o Coso, senta o Buonasera giovanotto o Ciao maschio o Salve capo e a questo punto è arrivato il momento in cui si può dire eccetera eccetera. Corsi non potrebbe giurarlo ma il vigile urbano di solito esordiva con Senta ed è sostanzialmente per questo che non aveva mai avuto un buon rapporto con lui. Beh, non era certo che sarebbe stato sempre così. Lui né giudicava a priori né si permetteva di esprimere giudizi su alcuno a posteriori, anche se era stato avvicinato con un Senti o Scusi o Aoh o Giovane da un vigile urbano. E nemmeno gli andava mai di arrampicarsi sui muretti, anche se qualche volta decideva di investire una certa quantità di energie per raggiungere una nuova postazione.
Il vigile urbano gli si avvicinò quando era salito da appena qualche minuto e gli disse qualcosa che Corsi non sentì essendosi da poco addormentato. La voce gli era arrivata perché il sonno era ancora debole, ma il significato delle parole di certo no. Comunque ormai era sveglio quando il vigile urbano gli andò più vicino e disse Buongiorno, sono un vigile urbano, lei non può stare qui. Aveva capito bene, non poteva avere dubbi che avesse esordito con buongiorno. Aveva anche capito che qualcuno lo stava cacciando, ma ormai non poteva più fermare il riflesso che era scattato dopo la parola buongiorno; alzò lo sguardo e nei suoi occhi si creò il significato di un punto interrogativo. Il vigile urbano, che era una donna, ripeté: Mi capisce? Sono un vigile urbano. Corsi avrebbe voluto domandarle perché, se era una donna, il suo nome era Urbano e non, per esempio, Urbana, come sarebbe stato logico, ma non poté che porre questa domanda a se stesso e poiché non ebbe risposta alcuna prese la decisione che da quel momento in poi ogni volta che la donna avesse detto il suo nome al maschile lui avrebbe capito, com’è giusto, al femminile. Il vigile Urbana gli chiese Si sente bene? Ha qualche problema? Vuole che chiami un’ambulanza? Per tutta risposta Corsi tentò di scendere dal muretto, ma poiché non era abituato a movimenti bruschi crollò rovinosamente a terra rimanendo per alcuni minuti steso su un fianco. Il vigile Urbana tentò di soccorrerlo ma Corsi La scalciò con tutta la sua forza. Urbana provò un dolore lancinante alla bocca dello stomaco e non disse nulla, solo rimase a distanza. Davanti a loro c’era una grande piazza completamente vuota e sopra di loro un sole giallo e grande che mandava un tiepido venticello. Era tutto bello, ma Corsi aspettava il momento in cui sarebbe successo qualcosa. Non sapeva cosa perché non aveva memoria, ma il corpo, che non aveva ricevuto nessun ordine dalla ragione, si rattrappì fino a chiudersi completamente. Poi le sue gambe, le mani, i gomiti, lo sterno, i fianchi, le tibie, lo stomaco, i coglioni, la faccia, le cosce, le ginocchia, gli occhi, i piedi, le dita, la testa, la schiena, i polmoni, il collo, il fegato, la bocca, il pene, i polsi, le anche, le orecchie, la gola, il culo cominciarono a dolergli come se in quell’istante venissero colpiti da calci di stivali a punta. Poteva anche ascoltare frasi e parole che non era sicuro di aver già sentito prima e le lacrime cominciarono a scendere dai suoi occhi, ora serrati e immobili, fino a formare una piccola pozzanghera salata accanto al suo volto. Il vigile Urbana era piegata su se stessa ad un metro da lui. Nessun altro era nella piazza. Nessun altro si avvicinava. Nessun altro. Nessuno. Nessun altro parlava.
Non sono una persona non so dare calci ho scarpe bucate e unghie recise che non crescono oggi e non crescono più. Ho una testa molle e muta che non è mai uguale e ha smesso di parlare. In compenso… Sì in compenso la mia bocca ha sì parole tutte belle e profonde e io non le capisco mai perché vengono fuori veloci più veloci anche delle macchine che mi passano accanto una sola volta in tutta la storia del mondo. Ma qui ora nessuno parla. Nessuno. Nessuno ci parla. Tu resti qui davanti in un silenzio rattrappito. E’ un’estate calda più calda del solito e io mi annoio con la mia famiglia. Non sono ancora come adesso. Più giovane e ancora sono fedele. Ma già comincio a parlare senza testa, solo con la bocca. Poi arriva il terremoto e muoiono tutti, anche io credo di morire in un primo momento, poi ci ripenso perché mi sembra tra le macerie di poter muovere le mani. Dormo a lungo: la scossa mi ha messo una grande stanchezza. Forse un giorno intero. Mi sveglio. Sto un po’ meglio e forse sto ancora vivendo, ma non è certo. Per ore non parlo e cerco di muovere gli occhi. Questa operazione va a buon esito, anche se non vedo nulla. Cecità? Già, ero in cucina: sono le prime parole che pronuncio. Continuo: è tutto crollato, ci deve essere stato un terremoto. Non sento niente, né dolore né voci, è strano, posso muovermi. E davanti a me c’è qualche centimetro prima della porta. Tocco su. Deve essere un tavolo rovesciato che si è appoggiato al termosifone e al frigorifero. E’ obliquo. Sono sotto una confortevole mansardina. Mi ci vuole un po’ per capire. Fa caldo e ho sete. Penso che forse morirò. Il frigorifero. E’ davvero incredibile: posso muovermi. A quattro zampe o strisciando provo ad aprire la porta, ma è bloccata dai detriti, dalla calce, dai mattoni, dai pezzi di ferro, da un peluche, da un pezzo di gamba, forse la coscia di mio nonno. Non riesco a provare sentimenti, devo pensare a me. Levo il peluche e quasi mi crolla tutto in testa. Capisco che devo procedere più cautamente. Scavo con le unghie che sono lunghe. In questo modo funziona. Non mi sembra di liberare spazio ma in compenso le unghie si accorciano. A un certo punto sanguinano, ma io non pensavo che le unghie sanguinassero. E invece sì. Poi capisco che sono le dita. Mi fanno male e comincio a leccare il cemento. Si ammorbidisce e posso portarlo via dolcemente col palmo della mano prima che il calore secchi l’umido della saliva. Scavo e arriva il momento in cui posso aprire la porta. Forse una fessura di cinque centimetri. Ficco la mano fino al polso. La prima cosa che mangio è uno yogurt. Grazie mamma per aver fatto provviste. Cerco di immaginare quanto tempo posso andare avanti. Sorge subito un problema. Non sono più in grado di chiudere il frigorifero è non c’è corrente elettrica. Per qualche ora la mansarda diventa gelata, poi i muri crollati restituiscono un calore prima piacevole e poi asfissiante e io capisco che alcuni cibi non dureranno a lungo. Frugo e trovo una bistecca di manzo. La mangio cruda. Poi tutto quello che posso tirare fuori lo metto a terra, davanti a me. Mi rassicura moltissimo. Dormo per alcune ore. Vivo così per il tempo che è sparito. Sia quello degli orologi che non avevo mai avuto sia quello del cielo che non mi era mai stato regalato da nessuno. Non ci sono più intermittenze nel mio esistere, non ci sono più curve ma solo una lunga linea di cui non mi curo di cercare la fine, e che si spezza da sola quando vedo improvvisamente entrare un filo di luce. E’ come una lama negli occhi. Grido. Sento delle urla di gente ma non capisco niente perché penso solo alla mia non cecità. Qualcuno dopo un po’ mi tira fuori e uno chiede Come sta e io rispondo Non lo so, forse ho mangiato troppo. Non si preoccupi signora, ora andrà tutto bene. E pensare che nessuno al mondo mi aveva mai chiamato signora. Neanche io. Ho sempre fatto di tutto per parlare di me in un modo completamente asessuato. Ed è difficile con questa lingua che mi è toccata. Quest’uomo invece mi ha chiamato signora. Non ci crederà ma questo fatto ha cambiato la mia vita. Mi ha fatto sentire una donna, mi ha dato fiducia, forza, una sicurezza che mai mi era appartenuta prima. Corsi era rimasto concentrato sui suoi dolori fino quasi alla fine del racconto, poi aveva sentito le parole da Uno chiede come sta e io rispondo non lo so, forse ho mangiato troppo. Non si preoccupi signora, ora andrà tutto bene. E pensare che nessuno al mondo mi aveva mai chiamato signora. Neanche io. Ho sempre fatto di tutto per parlare di me in un modo completamente asessuato. Ed è difficile con questa lingua che mi è toccata. Quest’uomo invece mi ha chiamato signora. Non ci crederà ma questo fatto ha cambiato la mia vita. Mi ha fatto sentire una donna, mi ha dato fiducia, forza, una sicurezza che mai mi era appartenuta prima. Corsi pensò due cose contemporaneamente. La prima era che sì, forse aveva mangiato troppo, se ora se ne stava raggomitolata con le mani conserte a proteggere lo stomaco, la seconda era che finché avesse continuato a farsi chiamare Urbano non avrebbe mai cominciato a sviluppare nemmeno un briciolo di autocoscienza sessuale.
La camminata di Corsi ricordava a Urbana il suo bel periodo del terremoto
sotto la mansarda e i suoi movimenti non le apparivano poi così
goffi e sgraziati. Le faceva anche piacere che lui desiderasse chiamarla
Urbana, anche se non poteva saperlo visto il fatto che Corsi, poiché
non parlava, non poté dirglielo. Da parte sua Corsi avrebbe voluto
dirle posso chiamarla solo Urbana? Ma non poté porre questa domanda
e poiché non ebbe risposta alcuna e chi tace acconsente prese la
decisione che da quel momento la avrebbe chiamata solamente, com’è
giusto, Urbana. Urbana non sapeva dire a Corsi cosa cattive, e poiché
non c’erano cose belle che potesse pronunciare riguardo a lui, rimaneva
in silenzio ogni volta che era in sua presenza, e visto il fatto che passava
tutto il tempo con lui, smise definitivamente di parlare e arrivò
il giorno che Corsi si domandò se Urbana fosse in grado di profferire
parola e addirittura se avesse mai profferito parola. Nel bar dove Urbana
volle andare a prendere un caffè c’era anche un uomo seduto da solo
ad un tavolo che fumava e beveva acqua. Guardava sempre davanti a sé
e ad intervalli estremamente irregolari tossiva. Corsi lo fissò
a lungo ma non riuscì a trovare una logica nei suoi movimenti. Sul
suo tavolino vi erano un pacchetto di MS, tre bottiglie di acqua vuote,
una a metà , Minerva, un posacenere pieno, un bicchiere sempre pieno
che teneva in mano per bere sorsi grandi e piccoli e medi senza un disegno
apparente. I baristi e tutti gli altri avventori parlavano molto e Corsi
pensò che tutte quelle parole erano davvero un ottimo metodo per
usare il proprio tempo. L’uomo, perché sicuramente era un uomo a
quel che Corsi poteva vedere, aveva avuto ordine da un medico di bere almeno
sei bottiglie di acqua al giorno per rallentare il procedere di una malattia
inguaribile che lo avrebbe portato alla morte nel giro di un tempo che
Corsi non commensurava. Urbana prendeva il suo caffè, e lui guardava
dritto la schiena dell’uomo, ne studiava tutti i movimenti, cercava di
capirne le ragioni. Urbana si ingelosì perché Corsi fino
a quell’istante la aveva coperta di attenzione, la aveva seguita e guardata
in ogni gesto in ogni movimento in ogni atto del suo corpo. Ma ora la curiosità
sfrenata di Corsi era tutta per quell’uomo silenzioso che beveva e fumava
e non avrebbe voluto dire a nessuno di essere condannato. Non avrebbe voluto
dire a nessuno che stava portando avanti una serie di esistenze parallele,
che aveva fatto in più parti uguali il suo conto alla rovescia,
dedicando istanti alla cura e istanti al piacere della vita, istanti all’acqua
e istanti al fumo. Il suo unico obbiettivo era che queste esistenze non
venissero a conoscenza l’una dell’altra, perché allora avrebbe dovuto
spiegare all’acqua e al fumo le ragioni delle sue scelte, avrebbe dovuto
giustificare l’irrazionalità delle proprie azioni. Così
in tutto quello che faceva poneva grande attenzione. Rispettava e amava
il suo piacere e rispettava e amava il suo dovere, per questo non poteva
fumare mentre aveva in mano il bicchiere e non poteva bere mentre aveva
una sigaretta accesa. Aveva anche i suoi spazi privati, in cui posava il
bicchiere o spegnava la sigaretta e con la voce roca tossiva e si guardava
un po’ intorno, ma senza attenzione, solo per sentirsi autonomo. Poi tornava
a bere o a fumare e a guardare davanti a sé, e che bevesse o che
fumasse nel suo cuore si accendevano passioni distinte che non si annullavano
l’un l’altra ma vivevano assieme nella gioia di colui che le provava. L’uomo
era felice, questo Corsi lo poteva sentire, e avrebbe voluto chiedergli
la ricetta della beatitudine, se solo avesse avuto la possibilità
di parlare, il coraggio di sedersi accanto a lui, la forza di abbandonare
Urbana, un più alto concetto di sé, un alito meno fetido,
un aspetto meno sgradevole, meno insicurezze, più leggerezze. Quando
Urbana uscì di corsa piangendo Corsi provò a scendere con
altrettanta celerità dalla sedia su cui si era con fatica appollaiato.
Ah, fu una scena davvero comica: la donna singhiozzando portò indietro
la sedia di ferro facendola cadere a terra, Corsi venne svegliato dalla
sua trance in modo violento e quasi si alzò in piedi sulla sua sedia,
che cominciò una danza prima su una zampa, poi su un’altra, poi
su un’altra, poi su un’altra, poi su un’altra, poi su due, poi sulle altre
due, poi ancora sulle due di prima, poi sulle altre due, fino a ristabilizzarsi
su tutte e quattro le zampe. Corsi non si rese conto che improvvisamente
si era fatto un silenzio sospeso nel bar, e tutti guardavano verso di lui,
un po’ sorpresi, un po’ divertiti, un po’ disgustati, un po’ non sapevano
neanche loro. Certo è che non doveva essere uno spettacolo usuale.
Fortunatamente Corsi non ebbe la concentrazione necessaria per rendersi
conto di quello che stava accadendo intorno a lui, tutto preso com’era
a cercare una soluzione per scendere senza danni da quell’aggeggio infernale
su cui era stato aiutato a salire dalle braccia forti di Urbana. Ora era
solo, e doveva trovare movimenti e coordinazione per fare qualcosa che
gli sembrava di non aver mai fatto, anche se a pensarci bene Corsi non
poteva giurare di non essere mai sceso, in tutto il suo passato, da una
sedia, ma questo ricordo non poteva essere recuperato, e così era
come se non esistesse per nulla. Nessuno dei presenti avrebbe potuto trovare
una ragione nel fatto che Corsi si mise a sporgere la testa per guardare
quanto spazio ci fosse sotto la sedia, eppure fece proprio così.
Poi afferrò con entrambe le mani una delle due zampe frontali, spostò
il culo in fuori fino a che una gamba sporse nel vuoto. La lanciò
alla ricerca di qualcosa: la parte inferiore della zampa che aveva afferrato.
Con un gesto repentino e non del tutto privo di grazia e coordinazione
le si abbarbicò come un koala al proprio ramo, prese tra i denti
il piano di ferro e lentamente cominciò a far calare il proprio
peso verso terra. Vi fu un momento di suspance generale quando il baricentro
dell’unico corpo che si era formato si spostò irrevocabilmente verso
la schiena di Corsi e sul fronte della sedia, che si alzò sulle
due zampe anteriori e sarebbe caduta a terra se lo schienale non si fosse
appoggiato al tavolino. Corsi si trovò, senza che lui potesse spiegare
come, gentilmente adagiato con le spalle al terreno, lasciò la presa
delle gambe delle mani e dei denti e rimase per alcuni secondi immobile
come una tartaruga rovesciata. Stava piuttosto comodo e in un primo momento
pensò di rimanere in quella posizione per un po’, ma non era passato
abbastanza tempo perché potesse dimenticarsi di Urbana, e quando
il ricordo della fuga della donna vigile gli tornò alla mente si
girò sulle sue quattro zampe e corse sulla strada. Era nervoso,
sentiva un gran prurito in zone del proprio corpo in cui sapeva non sarebbe
mai arrivato. Si sentiva a disagio, avrebbe voluto urlare Urbana, Urbanaa,
Urbanaaa, Urbanaaaa, Urbanaaaaa, Urbanaaaaaa, Urbanaaaaaaa, Urbanaaaaaaaa,
Urbanaaaaaaaaa, Urbanaaaaaaaaaa, Urbanaaaaaaaaaaa, Urbanaaaaaaaaaaaa, Urbanaaaaaaaaaaaaa,
Urbanaaaaaaaaaaaaa, Urbanaaaaaaaaaaaa, Urbanaaaaaaaaaaa, Urbanaaaaaaaaaa,
Urbanaaaaaaaaa, Urbanaaaaaaaa, Urbanaaaaaaa, Urbanaaaaaa, Urbanaaaaa, Urbanaaaa,
Urbanaaa, Urbanaa, Urbana. Quasi si convinse di farlo mentre si guardava
intorno e si stancò le corde vocali per le alte urla che credette
di lanciare. Si sedette a terra realizzando che Urbana era stata precipitosa
e se era stata precipitosa a questo punto, dopo averla cercata e chiamata,
non gli rimaneva altro che dimenticarla. Ma Corsi davvero non poteva scegliere
di dimenticare, qualcuno direbbe che era troppo stupido per prendere qualsiasi
decisione di questo genere. Ma altri non lo direbbero, sicuramente né
Urbana, né l’uomo dell’acqua e del fumo, né io.
Corsi riprese a camminare dal punto in cui aveva lasciato anche se
non aveva la minima idea di cosa avesse lasciato. Non sapeva dove stava
andando semplicemente perché non si poneva la domanda, l’unica cosa
che riprese a ripetersi era che non c’è strada vuota in cui non
si possa incontrare qualcuno.
Non gli rimaneva che tornare nel bar e cercare l’uomo seduto. Forse
sarebbe stato così gentile da offrirgli un bicchiere d’acqua o una
sigaretta o un bicchiere o almeno un fiammifero. La gola aveva cominciato
a bruciargli, se la sentiva rossa e infuocata, quasi gli sembrava di aver
perso le corde vocali, tanto era sicuro di aver urlato, così pensò
che avrebbe rifiutato, seppur gentilmente, sia la sigaretta che il bicchiere
vuoto che il fiammifero. Un buon bicchiere d’acqua invece era proprio quello
che gli ci voleva. Ruotò la sua posizione di 180° e si mise
in marcia con la mano destra…
L’uomo prese a parlare dicendo Ho ucciso un uomo, per questo bevo tanta
acqua, per purificarmi. Nello stesso tempo pensava Naturalmente lei non
può sapere che le sto mentendo. Da parte sua Corsi avrebbe voluto
domandare Perché non mi offre qualcosa, qualsiasi delle cose che
ha di fronte? Potrei rifiutare quello che non mi interessa ma mostrare
in qualche modo il mio desiderio di avere un po’ d’acqua. Ho la gola secca
e se continuo a non bere tra poco non sarò più in grado di
parlare. L’uomo mentre parlava fumava, poi beveva, poi fumava ancora, poi
di nuovo beveva, e così via. Corsi avrebbe voluto implorare l’uomo
La prego, mi dia un bicchiere della sua acqua, ho sete, la mia bocca sta
diventando arida e polverosa come un deserto si aprono crepe voragini
in cui io con tutto il mio corpo cado dentro e mi ci secco come un fiore
tenuto in un libro, sia buono ne sorseggerò solo lo stretto indispensabile
per non morire qui ai suoi piedi, la mia lingua si sta sgretolando e più
parlo più peggiora ma non posso stare zitto perché allora
come potrei muoverla a compassione, suvvia signore non sia indifferente
al mio grido si metta una mano sulla coscienza guardi come il mio corpo
tutto sta venendo in soccorso della bocca secca e tra poco avrò
anche la vescica sgombra vuotata dall’interno per recuperare liquidi che
possano intervenire in aiuto del mio organismo, non finga di non notare
la mia sofferenza io sono qui e non ho più la lingua e i miei occhi
sono caduti a terra, sono due biglie di vetro che rimbalzano rumorosamente
per tutta la sala e il mio moccico dal naso è stalattite e gli escrementi
sono terra sgretolata e il cerume nelle orecchie è il miele più
amaro e duro che essere umano potrebbe, se volesse, assaggiare. Forse lei
non riesce a vederlo ma tutti i pori della mia pelle si sono contratti
e chiusi ermeticamente a tentare vanamente di salvare quei liquidi che
avrebbero potuto salvare il resto del corpo e io adesso non posso più
muovermi perché se mi muovessi cadrei come cenere da una sigaretta.
Signore mi guardi, per lo meno muova gli occhi dal suo vuoto di fronte,
sono deserto e lei solo può salvarmi… per questo Corsi stava perdendo
tutto il discorso dell’uomo: non è che non gli interessasse ma la
sua condizione di assetato non gli permetteva di porre la benché
minima attenzione alle parole dell’uomo. Abbiamo peraltro già notato
come Corsi avesse un’indole incapace di togliere attenzione alla sua attenzione
per un qualsivoglia agente esterno che fosse venuto a carpire la sua attenzione.
La sua era una attenzione totale, assoluta, rispettosa di sé, attenta
in ogni istante a non avere disattenzioni, concentrata, raccolta. Non che
fosse conscia, questo no, ma non dobbiamo lasciarci ammaliare dalla tentazione
di privare Corsi di quello che, al contrario, è di Corsi. Questo
era il suo precipuo modo di sentire, suo e di nessun altro e come e per
quali ragioni lo abbia sviluppato non deve interessarci. Quando finalmente
l’uomo durante le sue elucubrazioni verbali si volse ad offrire a Corsi
un bicchiere d’acqua, questi rifiutò perché la realtà
era che non aveva affatto sete, non aveva per nulla la gola secca, i suoi
occhi non erano biglie di vetro e il suo sterco non era terra sgretolata
semplicemente per il fatto che non aveva mai gridato il nome di Urbana
fuori dal bar. Non vi fu sorpresa in Corsi nel rifiuto perché aveva
ottenuto quello che aveva con tanta forza richiesto e desiderato. Corsi
si pose anche il problema se fosse opportuno rifiutare l’offerta, ma poi
si disse che non avrebbe potuto esserci sorpresa nell’uomo perché
il rifiuto era una delle possibilità che qualunque uomo di intelligenza
media, alta o anche bassa prende in considerazione nel momento in cui si
trova ad offrire qualcosa ad un altro uomo di intelligenza media, alta
o anche bassa. E non era d’uopo ora per Corsi andare ad analizzare tutte
le concatenazioni possibili tra le intelligenze di questi due ipotetici
uomini, perché il risultato sarebbe sempre stato in medesimo: che
il rifiuto è da entrambi un’eventualità presa in considerazione
ed accettata senza traumi nel momento in cui avesse dovuto realizzarsi.
Improvvisamente e senza una ragione apparente l’uomo disse Mi scusi,
e ritirò il bicchiere che ancora teneva vicino al volto di Corsi
che stava rifiutando con un cenno del capo. Pensò Corsi che l’essere
umano è più articolato di come ogni logica possa spiegare,
e che se quell’uomo si era offeso al suo rifiuto di un bicchiere d’acqua
non apparteneva al genere delle persone di intelligenza media né
di intelligenza alta né di intelligenza bassa oppure apparteneva
ad uno dei tre generi ed allora significava che il suo calcolo sull’intelligenza
doveva essere fatto, o almeno sarebbe stato meglio farlo dal momento che
il suo sorvolare sull’argomento aveva creato un’incomprensione che lui
stesso avrebbe voluto evitare. Si disse comunque di essere stato ineducato
nel rifiutare e di non aver tenuto conto del difficile stato d’animo dell’uomo,
il quale stava senza dubbio portando avanti un comportamento non ortodosso
e tutti sanno – si diceva Corsi – che chi porta avanti un comportamento
non ortodosso ha qualche problema, ed è sempre meglio dimostrare
sensibilità con chi ha comportamenti poco ortodossi e quindi ha
qualche problema e puoi star sicuro che essere gentili con chi ha problemi
e quindi porta avanti comportamenti non ortodossi non può che pagare,
alla lunga. Era forse la prima volta che Corsi diceva a se stesso questa
locuzione: “Alla lunga”. Si diceva Adesso, o Attualmente, o Ora, o Per
adesso, o Oggi con le varianti Quest’oggi e Oggidì che gli piaceva
tanto per stupire alcune persone; si diceva Continuamente, Qualche volta,
Spesso; poteva spingersi a dire Ogni volta, Sempre, addirittura Eternamente,
ma davvero non gli era mai capitato di dirsi “Alla lunga”. Pensò
che se lo aveva detto una volta ora che quella espressione lo aveva toccato
la sua stessa essenza era mutata, ancora non sapeva se in peggio o in meglio,
ma era cambiato. Si imperò di ripetere quelle due parole per un
numero sufficiente di volte cosicché non le dimenticasse più,
come gli accadeva per la maggior parte delle parole nuove che imparava,
si staccò finalmente dai piedi dell’uomo seduto e si mise a camminare
avanti e indietro lungo tutte le direttrici degli spazi vuoti del bar ripetendo
a volumi diversi, con differenti intonazioni e variati accenti quelle due
parole. Doveva esser molto comico, perché la sua espressione era
così sicura di dire qualcosa di intelligente che se ne andava con
passo sicuro a quattro zampe e muso alto in giro per il bar senza profferire
parola, senza addirittura aprire bocca. Già, perché Corsi
non è che aveva movimenti labiali, lui quando pensava di stare in
silenzio se ne rimaneva a bocca spalancata come un ebete e quando invece
voleva parlare serrava le labbra e guardava davanti a sé come un
ebete. Da parte sua il padrone non doveva essere felice di avere questo
spettacolino nel suo bar, anzi, sicuramente non era felice e direi di più:
era furioso, tanto che chiamò la polizia per cacciare Corsi a pedate
dal locale.
L’udito di Corsi aveva una lunga memoria indipendente dalla ragione;
anche le sensazioni fisiche, tutte quelle che aveva provato nel corso della
sua vita, erano rimaste in qualche parte del suo corpo; ed ogni tanto,
per motivi che Corsi non comprendeva, il suo fisico metteva in relazione
le due cose e la miscela poteva essere esplosiva e così fu quando
stava nel bar a ripetere o a ripetersi “Alla lunga”. Si era già
rialzato il brusio delle conversazioni tra la gente e nel momento in cui
si aprì la porta scorrevole le voci ad una ad una si zittirono mentre
aumentava di volume il rumore degli stivali che avanzavano. Corsi era di
spalle a quei passi perentori ma il dolore allo sterno fu immediato.
E’ evidente che la posizione nella quale camminava Corsi rendeva di
estrema facilità a quelli che avevano deciso di picchiarlo sferrare
calci su tutta la parte che chiameremmo anteriore nel corpo di una persona
eretta e che risulta invece inferiore nel corpo di Corsi per via della
sua postura naturale. Tutti i picchiatori prendevano un gusto particolare
a scalciarlo dai coglioni fino alla faccia, e in verità non solo
perché stava a quattro zampe ma anche perché Corsi non opponeva
resistenza, si lasciava fare tutto e dopo il tutto se ne rimaneva ad aspettare
che i dolori gli passassero o che qualche anima pia lo portasse in qualche
ospedale. Ma i dolori non passavano mai e mai nessuna anima pia lo portava
in ospedale così più di una volta aveva dovuto andarsi a
procurare del cibo con una costola rotta o una gamba o un gomito e sempre
con gli occhi tumefatti. La cosa peggiore era quando lo portavano in questura,
dove lo picchiavano con metodo e tutti i motivi di calci pugni e mazzate
erano interne al fatto stesso che Corsi era Corsi: non si sedeva composto,
non si alzava in piedi, non rispondeva alle domande, non aveva documenti,
non aveva un buon odore né un bell’aspetto.
Bè, quella volta in cui se ne stava pacioso nel bar a ripetere
ad alta voce con mille intonazioni o a ripetere dentro di sé con
la faccia da ebete “Alla lunga” provò il dolore dei calci ancora
prima che arrivassero, e gliene dettero tanti al punto che senza toccarlo
con un dito e senza dirgli una parola lo fecero uscire dal locale e lo
lasciarono in strada appena fuori il marciapiede in un parcheggio che si
era da poco liberato.
Dimenticavo di scrivere che Corsi non è un essere senza passato.
Per un lungo periodo ha vissuto in un sotterraneo.
Questo Corsi non può ricordarlo perché ora la sua vita
è completamente nel presente, ma io sì, perché a quel
tempo siamo stati insieme a lungo. Ora, qui non si vuole dire dei ricordi
di Corsi, ma si vuole fare un quadro per quel che è possibile soggettivo
di quelli che furono i fatti. Come detto, Corsi viveva in un sotterraneo.
Aveva già assunto la sua tipica posizione a quattro zampe, tuttavia
possedeva ancora una discreta manualità, qualcosa di più
che un retaggio dei suoi tempi, se ci sono davvero stati, eretti.
Scriveva molto e di tutta la sua vasta produzione questo è tutto
quello che ho conservato:
.
Allora quando lo si incontrava si poteva anche avere la ventura
di sentirlo parlare. Non che fosse di una loquacità particolare,
ma il suo punto di vista era sempre scarno al punto da risultare interessante,
anzi, direi di più: disarmante. Mi rendo conto che la parola che
ho usato: “incontrare”, è un facile eufemismo dal momento che se
ci si voleva imbattere in Corsi lo si doveva andare a cercare con una lanterna
ad olio, o almeno così facevo io, anche se ho avuto notizia successivamente
di persone che sono andate alla sua ricerca con torce elettriche. Ma non
ho mai avuto conferma del fatto che lo abbiano trovato. Io con la mia lanterna
dovevo metterlo a suo agio perché ad ogni proposta di discussione
lui non si tirava mai indietro ma anzi si infervorava e si scaldava al
punto da diventare rosso paonazzo, violaceo direi. Fumava molto e masticava
tabacco, lo faceva con orgoglio, e le pareti della sua zona preferita erano
annerite dalle macchie che lasciava per spegnere le cicche e per appiccicare
i resti dei boli insapori.
La puzza era orribile. Anche perché all’odore acre e rancido
del tabacco vecchio si mescolava il puzzo di Bob, il suo maiale.
(…)
Allora arrivò il momento in cui mi sentii nel diritto di domandare
a Corsi perché se ne stava rintanato in quel posto triste e domandai
Scusi ma perché se ne sta rintanato in questo posto? Evitai per
cortesia l’aggettivo triste e forse fu una scelta felice perché
Corsi fu prodigo di parole nella sua risposta che non sembrava affatto
seccata dalla domanda. E’ naturale il fatto che ora nel riportare le parole
di Corsi siano potute nascere delle romanticherie, delle deformazioni che
del suo discorso ho fatto a mio piacimento rendendolo così in un
certo modo meno autentico e meno bello e un po’ più mio. Ma dal
momento che sono proprio io che sto scrivendo e non Corsi e che questi
fatti si sono svolti in un momento nel tempo così lontano da essere
stati dimenticati dalla mia debole memoria, allora bisognerà prendere
con le molle tutte le parole qui riportate.
Ma non il senso delle parole e non il senso degli atti.
Corsi rispose alla mia domanda semplicemente: “Perché sopra
questo sotterraneo non c’è niente”.
Provai ad interromperlo obbiettando che…, ma ero stato io a fare la
domanda e dovevo lasciargli tempo e diritto di rispondere. Continuò:
“Lei ha mai chiesto il sole? Io no.
Io non ho chiesto mai il sole e mai la notte. Io non ho chiesto i colori
e non ho mai chiesto di essere uomo.
Io non ho mai chiesto di essere quello che sono e non ho mai chiesto
di avere quello che ho:
ho cose tutte inutili, ho mani prensili e non le so usare, ho occhi
belli e grandi e non li uso mai e mai li ho usati.
Ho una testa per pensare
ah!
Ho gambe e piedi ho congegni perfetti e non ho posti dove sgranchirli
sì ho spazi infiniti infiniti nulla, vuoti infiniti di cui fare
un grande falò.
Ho tanto, tutto quello che non ho mai desiderato tutto quello che non
ho mai voluto tutto quello che non ho mai saputo usare, ho tutto quello
che non ho mai chiesto, tutto quello che non ho mai chiesto ce l’ho. Ho
da Abaco a Zuzzurullone. L’elenco di quello che sta dentro risulterebbe
un libro interessante.
E vede, mio caro amico, è andato tutto per il meglio fin quando
mi risolvevo a constatare a conoscere a vedere a esperire a esercitare.
Ah, che ingenuo e bel periodo che ho passato a imparare il modo di camminare,
di parlare, di scrivere, di ragionare, di pensare, di soffrire, di amare,
di morire. Non posso dire che sia durato troppo a lungo, forse venti, o
trenta, o quaranta o al più cinquant’anni. Ma sono pochi di fronti
all’immensità dello scibile umano, di tutto quello che una persona
può incamerare in sé, di ciò che un uomo, se se ne
rimanesse con la bocca e le orecchie e gli occhi spalancati e facendo attenzione
a chiudere tutte le altre aperture, e qui non mi dilungo, potrebbe con
facilità ricevere senza grande fatica nel suo corpo. Sono rimasto
così per tutto questo breve tempo, a mangiare e ascoltare e guardare
quello che avevo ricevuto gratuitamente, senza che io avessi avuto la più
piccola esigenza, senza che io avessi fatto alcuna misera richiesta. Sì,
lo devo ammettere, qualche volta ho anche ringraziato. Ora sono stupefatto
al pensiero che io possa averlo fatto un giorno. Eppure ho ringraziato
il nulla per il nulla che mi avrebbe donato senza che io lo chiedessi.
Poi è successo un fatto assolutamente imprevisto.
Sono stato abbandonato e tutto quello che avevo imparato e conosciuto
perse in un istante ogni importanza. Non mi serviva più, non lo
volevo più.
Ah, i sentimenti! Che stupidi! Ah ah ah! I sentimenti!! Ih ih ih !
Che coglioni!”.
Corsi cominciò a ridere a crepapelle e continuò e non
si fermava più cosicché io me ne andai e tornai il giorno
successivo e lo trovai ancora che rideva e allora me ne andai di
nuovo e tornai dopo tre giorni e lo trovai più stanco ma comunque
lo trovai che rideva e allora me ne andai subito e tornai dopo una settimana
e quando arrivai non rideva più ma non appena mi vide sbottò
in una risata irrefrenabile tanto che temetti il peggio ma comunque
me ne andai e decisi di non tornare prima di un mese e quando un mese dopo
tornai lo trovai che stava dando da mangiare a Bob. Avevo tante cose da
chiedergli, e sinceramente la mia curiosità su come si procurasse
il sostentamento per sé e per il maiale dovette passare in cavalleria.
Corsi aveva gesti compassati, che continuò ad adottare anche
in mia presenza. Domandai qualcosa ma non ebbi risposta e il silenzio fu
così lungo che sentii che la situazione mi metteva a disagio, un
disagio fisico. Poi si accostò al muro, si alzò sulle due
gambe, appiccicò in alto il tabacco che aveva masticato, estrasse
da una tasca dei pantaloni una scatolina, se ne mise in bocca un pizzico
del contenuto, tornò giù, si sedette. Questi due gesti, l’alzarsi
e il mettersi seduto, comprendenti l’alzare il braccio destro, l’estrarre
di bocca il tabacco, il rovistare tra i denti con le unghie della mano
sinistra, il fare con le due mani un’unica palletta di resti, l’attaccarla
con la mano destra al muro, il riportare in basso le braccia, l’accovacciarsi
con la schiena al muro, l’estrarre con la mano sinistra dalla tasca sinistra
dei pantaloni la scatolina, l’aprirla con la destra, l’estrarre il tabacco,
il portarlo con la mano sinistra alla bocca, il risistemare nella posizione
originaria la scatolina, il mettersi comodo, seduto… tutti questi gesti,
che ho riportato grossolanamente, smussati dalle priorità del ricordo,
un ricordo ingiusto che rende il tutto troppo approssimativo vago incerto
indeterminato e nello stesso tempo troppo chiaro netto normale definito
insomma in due parole poco interessante… tutti questi gesti, e scriverei
volentieri se solo ne avessi un lontano sentore di mani prensili, di gambe
sicure, di passi eretti, di sguardi ammiccanti, addirittura di sorrisi,
di mani tra i capelli o che grattano la pancia, di gambe incrociate, di
una lingua che lecca i baffi… tutti questi gesti, tutti quelli che ci furono
e tutti quelli della mia immaginazione, erano una sequenza non casuale
di movimenti che mettevano in evidenza improvvisamente e indiscutibilmente
l’appartenenza di Corsi al genere umano. Per quei dieci secondi Corsi mi
si presentò come un homo sapiens di questo secolo di sesso maschile.
Fu l’unica circostanza in cui potei vederlo in un simile atteggiamento.
Era una dimostrazione di forza, un braccio di ferro che mi aveva annientato.
Mi sedetti a terra posando la lampada ad olio tra i nostri corpi. Ero alla
sua mercé, impotente e dipendente dalla sua volontà, non
sapevo cosa aspettavo da lui, né perché ero tornato in quel
posto lugubre. Il disagio aveva lasciato il posto a… sì ora mi sento
di dirlo: alla paura.
Corsi masticava ed io guardavo il muro macchiato che, illuminato tenuamente
dalla luce della lampada, perdeva stranamente ogni essenza sinistra. Mi
sembrò per un attimo che vi fosse una logica con cui i resti di
tabacco erano appiccicati ma la mia attenzione cambiò definitivamente
direzione nel momento in cui Corsi cominciò a parlare.
“Le voglio raccontare una storia.
E’ molto strano che il suo protagonista non sia mai stato a vedere
un concerto all’Auditorium della sua città, sebbene sia una struttura
all’avanguardia, costruita da uno dei più affermati architetti
in circolazione, benché oltretutto i musicisti che ne compongono
l’orchestra siano i migliori che un amante della musica vorrebbe vedere
in azione e incredibilmente un suo caro amico sia riuscito ad entrarci
come violinista. Come se non bastasse un altro caro amico del nostro uomo
fa parte del personale dell’Auditorium e più volte lo ha invitato
ad andare in occasione di qualche concerto. Gratuitamente, s’intende. Nonostante
ciò, ed è un fatto forse inspiegabile, non ci è mai
andato.
Una sera i due amici vanno a trovarlo a casa e gli portano un biglietto
omaggio per il concerto della sera successiva. Lui accetta con piacere
e assicura la sua presenza. La notte fa questo sogno: è una giornata
assolata e lui sta andando a piedi a vedere questo concerto ma improvvisamente
a metà strada realizza di non essere mai stato prima di allora all’Auditorium
e si ferma alla ricerca in mezzo ad una piazza tra un gruppo di palazzi.
Ne studia l’aspetto alla ricerca di quello che potrebbe ospitare la sala
che sta cercando. Uno ha un ingresso molto imponente, un altro ha davanti
una carretta dei Carabinieri, uno ha una porta girevole, davanti c’è
un portiere in livrea, in uno molto elegante entrano uomini in smoking
e donne impellicciate, uno ha un’insegna luminosa che non può decifrare
per il sole, uno sembra una chiesa, ha un rosone ma non ci sono croci,
uno sta dietro un cancello che da su un giardino fiorito, uno è
in tutto simile al palazzo della sua casa, da uno escono ragazzi, uno ha
una lunga e ripida scalinata che da su un colonnato rialzato. Le larghe
piazze dei sogni… Per non sbagliare entra nell’edificio che è in
tutto simile al palazzo della sua casa; con le chiavi apre il portone.
Al di là si apre un grande atrio d’ingresso con molta gente in movimento.
La maggior parte sono uomini vestiti uguali con calzoni grigi, scarpe nere,
camicia celeste, cravatta blu a righe oblique rosse ed una giacca blu con
un piccolo stemmino sul taschino all’altezza del cuore. Deve passare per
un tavolo dove vede il suo amico che gli viene incontro per strappargli
il biglietto. Durante questa operazione cerca di capire cosa rappresenti
il piccolo stemmino sul taschino all’altezza del cuore, ma l’amico subito
si volta e lo precede all’interno di un secondo atrio in cui lo lascia
senza dirgli una parola. Qui ci sono delle porte, molte porte, tutte aperte,
che danno su stanze di cui si sente fortemente curioso. Si frena perché
davanti ad una di queste porte e di queste stanze c’è una distesa
di sedie che si allargano a raggiera all’interno dell’atrio. Sì,
il concerto si farà certamente qui, pensa l’uomo. Intravede una
pedana in fondo dietro la porta dentro la stanza. Si siede. Arrivano altre
persone. Poi molte altre. Si mettono sedute. Poi, quando ogni posto è
stato occupato, contemporaneamente si alzano tenendo la sedia sotto al
culo con le mani e entrano tutti attraverso la porta dentro la stanza
per sistemarsi in ordine sparso attorno al palco. Non sembra esserci una
ragione per questa azione, ma il nostro protagonista è la prima
volta che va a vedere un concerto all’Auditorium e ne accetta senza interrogarsi
le regole che gli si presentano. Si mischia agli altri. Tutti sono fermi.
Sul palco sale una donna. Parla. Fa una lezione di storia della musica.
L’uomo non conosce il compositore di cui la donna sta parlando. Dopo pochi
minuti esce disturbando e va ad appagare la sua curiosità. Guarda
nelle altre stanze appoggiando delicatamente la testa agli stipiti. Un
uomo in frac tiene una lezione individuale di violoncello ad un ragazzo
in jeans che non riesce a far uscire dallo strumento alcun suono. Un quartetto
d’archi suona un piccolo concerto informale per pochi intimi. Due donne
si baciano con struggente passione, forse per un addio. Un uomo aspetta
fuori e guarda. Un’altra conferenza, o lezione che dir si voglia. Niente.
Un uomo urla con violenza qualcosa ad un giovane con la divisa con il piccolo
stemmino sul taschino all’altezza del cuore; si azzittisce quando lui si
affaccia. I due lo guardano con occhi molto diversi. Ancora niente. Ancora
ancora niente. Un gruppo di giovani su pattini a rotelle girano tra sedie
in disordine, escono nel momento in cui la sua testa fa capolino, invadono
l’atrio. Uno di questi, solo uno, ha la divisa con il piccolo stemmino
sul taschino all’altezza del cuore. L’uomo non può frenarsi e quando
questo gli passa vicino lo placca con mossa da rugbista. Non sa se vuole
parlargli o scoprire il significato dello stemma quindi si risolve a formulare
una domanda concentrando tutta la sua attenzione sul simbolo della giacca.
Senta, io dovrei andare al concerto, domanda, ma è una frase troppo
breve e il giovane subito lo precede dicendo Mi segua. Comincia a correre
sui pattini e l’uomo deve seguirlo sui suoi piedi e andare veloce se vuole
stargli dietro. Attraversano tutta la grande sala e poi il grande atrio
e arrivano all’ingresso dove c’è il tavolino e il suo amico, proprio
davanti al portone di casa sua. Ora tutti gli uomini con la divisa blu
con il piccolo stemmino sul taschino all’altezza del cuore portano i pattini
ai piedi. Il suo amico gli va incontro e lui gli dice Ma dov’è il
concerto? Aspetta un attimo è la risposta. L’amico torna al tavolino,
apre cassetti, manda all’aria risme di fogli, poi urla Il concerto inizia
fra dieci minuti! Dov’è la sala? Ogni uomo con lo stemma indica
in una direzione diversa e poi rimane fermo. Uno per volta si immobilizzano
tutti e restano come in un museo delle cere. L’uomo pensa che sono belli,
che sono un’opera d’arte e che vorrebbe che non si muovessero mai più.
Ma il suo amico non sta lì a guardare, lo prende in braccio e si
invola come un Superman sui suoi pattini a rotelle tenendogli il volto
schiacciato sul petto. All’uomo sembra un viaggio di ore. Sente il vento
sulla nuca. Dopo pochi minuti, forse solo dopo pochi secondi arrivano in
un’ampia sala concerti. Tutti i posti sono occupati, tranne uno, il suo.
L’amico lo depone a terra e gli indica con benevolenza la sua poltrona.
Dice qualcosa ad alta voce, forse Possiamo cominciare, e poi esce.
Al suo risveglio il nostro protagonista non ricorda di aver sentito
alcun concerto, in sogno.
La sera va all’Auditorium e non c’è niente da raccontare per
la convenzionalità della serata.
Mi scusi - continuò Corsi senza pause - ma ora vorrei che se
ne andasse. Perdoni la mancanza di cortesia ma la luce della sua lampada,
per quanto gentile, comincia a farmi male alle pupille. Sa… ci ho messo
tanto per riabituarle al buio. E poi un’ultima cosa. La sua presenza sarà
sempre benvenuta qui. Ma sappia che domani macellerò Bob, ci farò
scorte a sufficienza per un futuro più o meno lungo, durante il
quale non prenderò altri maiali da allevare. In questo periodo mi
preparerò per uscire di nuovo fuori di qui. Sarò libero di
cominciare a vivere allora. Sarò libero dalle parole, dal pensiero,
dalle forme, dalla vista, dal sapere, dal desiderio, dalla volontà,
dai sentimenti, dai movimenti, dai gesti, dai colori, dai ricordi…”. Sì,
disse sicuramente “dai ricordi” e poi, dopo, una lunga sfilza di altre
parole. Me ne andai prima che avesse finito. Ero sicuro che fosse pazzo.
Tornato a casa mi presi la briga di scrivere:
Checché se ne possa pensare, c’è continuità tra
gli edifici che ospitano le case delle persone, e me, e il garage nel quale
alloggia, o sarebbe meglio dire vive, Corsi. Le vie della città
sono in massima parte disabitate per un lunghissimo periodo dell’anno e
si animano oltre la loro possibilità di capienza nei periodi festivi
durante i quali una gran folla di persone stanate si riversa, appunto,
nelle strade. Anche in questi giorni che non oserei a dire straordinari,
comunque, la sera i lampioni non illuminano che le zanzare e i pipistrelli.
Non le persone che non esistono né le macchine, perché sui
marciapiedi non ci sono vetture parcheggiate. Il nostro sindaco è
molto orgoglioso di aver risolto questo problema, anche se in verità
qui le macchine non disturberebbero nessuno perché le strade
sono deserte mentre al contrario nei periodi di superaffollamento la gente
non vede l’ora di sfoggiare la sua bella automobile e correre e guizzare
tra i pedoni terrorizzati. Comunque il fatto è che nella nostra
città è stato concepito e realizzato il miglior sistema di
parcheggi sotterranei del pianeta. Tutti i mezzi di trasporto, pesanti
e leggeri, nei periodi di inattività, che si avvicinano in verità
al sempre, restano stipati in questi pozzi che si estendono verticalmente
nel sottosuolo per centinaia di metri, con un sofisticatissimo sistema
di areazione che rende vivibile la zona scavata. Ogni famiglia ha un proprio
ascensore privato nel proprio giardino attraverso il quale si fa scendere
la propria vettura al proprio piano, da qui la si guida attraverso strade
sotterranee fino ad arrivare al proprio parcheggio. Le piazze e le
vie sotterranee sono quasi sempre deserte perché servono circa venti
minuti per uscire di casa, prendere il proprio ascensore privato che dal
salone o da qualsiasi altra stanza della propria casa porta direttamente
nel proprio box nel quale è la propria macchina, accendere il motore,
uscire, guidare nel sotterraneo, raggiungere la piazza del proprio ascensore,
chiamarlo, metterci sopra la propria macchina, risalire, uscire dal proprio
giardino, immettersi in strada. Credo che sia questo il motivo per
il quale non ci sono ladri nei parcheggi. La profondità, il buio,
la mancanza di movimento sono fattori determinanti di scoraggiamento per
ogni malvivente. Da un po’ di tempo peraltro non ci sono neanche più
le ronde della polizia. E’ dura convincere qualcuno a passare inutilmente
una giornata a sette, otto, novecento, mille metri sotto il livello del
suolo. Capita invece a volte che qualche barbone vada a finire i propri
giorni in qualche angolo dei piani più bassi (cioè più
profondi). Nessuno può farci caso, fino al momento in cui si sente
la puzza dei cadaveri e allora bisogna chiamare le autorità per
la rimozione.
Questi sono i parcheggi. Al mio piano non è mai accaduto nulla
di strano. Nessun ladro, nessun barbone, nessun morto. Per un periodo ho
pensato che Corsi fosse solo un eccentrico, ma ora non posso non dire che
sia pazzo, perché è chiaro che solo un pazzo andrebbe a vivere
lì giù insieme al proprio maiale da macellare. Voglio ripeterlo:
perché è chiaro che solo un pazzo andrebbe a vivere lì
giù insieme al proprio maiale da macellare.
Ora voglio che rimanga scritto per sempre quanto segue: sebbene ci
sia una continuità tra dove abito io e dive vive Corsi, e tra me
e lui (e questo sia il motivo principe del mio avvicinamento), Corsi è
un pazzo. E’ senz’altro un uomo, ma pazzo.
Perciò io farò meglio a non frequentarlo più,
almeno a non andarlo più a trovare.
Ancora: perciò io farò meglio a non frequentarlo più,
almeno a non andarlo più a trovare.
Beh, la moda dei parcheggi sotterranei ora è finita; credo che
siano rimasti per un po’ di tempo questi buchi nelle viscere della terra,
ma immagino che ora la natura se li sia ripresi, li abbia riempiti della
sua materia. La natura è così: se non ci stai attento si
riappropria di quello che le hai levato. Ora le macchine sono tornate a
popolare allegramente le strade e anche Corsi. Quella volta che fu preso
a calci dal bar al marciapiede e lasciato parcheggiato con lo sterno fracassato
vicino ad un cassonetto dell’immondizia se ne rimase svenuto tanto a lungo
che le persone che passavano di lì nemmeno lo notavano perché
tutto quello che vedevano era un sacco di rifiuti, una massa informe immobile
senza testa e senza gambe e senza braccia. Era Corsi. Quando si svegliò
era un altro giorno. Aprì l’occhio più sano, l’unico con
cui riusciva a scorgere qualcosa, e vide una pozza di sangue, ma non fu
questo a colpirlo. Nel sangue c’era il cielo sopra di lui. Guardava in
basso a pochi centimetri dal suo naso e poteva vedere i movimenti delle
nuvole e i raggi del sole andare e venire e un aereo passare e tracciare
una riga dritta e poi ancora le nuvole mangiarsi tra loro, cambiare colore,
passare dal rosso acceso al viola al grigio verso il bordeaux e poteva
vedere i raggi del sole bucare quell’oscurità e riportare il cielo
al suo colore consueto: il rosso che veniva dalla sua testa rotta.
Non c’era quasi più dolore perché aveva perso tanto sangue
da poter sentire solo il freddo. Poi da quel cielo cominciò a scendere
acqua, piccole gocce impercettibili che tornavano nel cielo che Corsi vedeva
coi suoi occhi e lo trasformavano in una pozzanghera di sangue annacquato
sempre più sbiadito. Corsi chiuse l’occhio e sentì il rumore
della pioggia. Prima acuto, esile di acqua fina, aspro e sottile su di
lui e poi d’improvviso profondo, scuro, cupo e torvo, sopra di lui. Era
il rumore dell’acqua che si infrangeva sulle falde dell’ombrello nero di
un uomo che si era fermato giusto vicino a Corsi e che ora lo riparava
dalla pioggia battente. Nero era l’ombrello e nera la strada e nero era
il cielo e il sangue e il vestito dell’uomo e neri erano tutti i panni
che indossava Corsi. Tanti e diversi neri. Corsi non li vedeva ma era uguale
perché quello che rimaneva della sua mente ascoltava il secondo
movimento del concerto per pianoforte e orchestra n. 1 in mi minore di
Frédéric Chopin. Il suo occhio vide in lontananza Urbana
che dirigeva il traffico.
Era lenta e malinconica come la musica…
e le sue braccia erano gentili e forti…
e suonavano il piano nell’aria umida senza mai essere nervose…
e tracciavano disegni che rimanevano sospesi e luminosi nell’aria buia
della pioggia…
e neanche le gocce li bagnavano…
e se l’acqua aveva coperto il cielo il cielo si era trasferito giù
sull’asfalto…
e illuminava il mondo dal basso verso l’alto con le luci delle automobili…
che correvano lente portate dai gesti di Urbana la pianista.
E Corsi se ne avesse avuto le forze avrebbe pensato che era bella…
e se fosse stato sano sarebbe corso ad abbracciarla …
e se avesse potuto parlare le avrebbe detto Oggi ho imparato una cosa
nuova della vita…
e questa cosa non so come chiamarla…
ma vorrei che anche tu la imparassi…
perché mi fa scoppiare lo stomaco dalla gioia quando ti vedo.
Poi si sarebbe messo in disparte…
e le avrebbe chiesto di continuare a suonare il piano dirigendo il
traffico…
e poi sarebbe rimasto in disparte a guardarla…
e avrebbe fatto attenzione a non sbattere le ciglia…
e non avrebbe perso neanche un attimo del suo muoversi…
e avrebbe in quel tempo pensato che avrebbe voluto lui fare nella sua
vita almeno una cosa così bene come Urbana adesso dirigeva il traffico.
Poi se ne sarebbe rimasto in disparte…
e avrebbe fatto attenzione ad ogni istante del tempo…
e poi se ne sarebbe rimasto in disparte a guardarla…
e poi ancora se ne sarebbe rimasto in disparte.
Se Corsi vide Urbana che dirigeva il traffico o immaginò di
vederla non è interessante saperlo, certo è che quando l’uomo
con l’ombrello nero lo protesse dalla pioggia lui non poté alzare
lo sguardo né riuscì a dire nulla. Si sentiva la bocca impastata
e insensibile e pensò Se non avessi i denti rotti le direi buongiorno
anche se sarebbe una ben curiosa ironia sotto una pioggia rossa in una
giornata dell’apocalisse. L’uomo nella mano libera dall’ombrello aveva
una bottiglia d’acqua limpida che svuotò dolcemente sulla testa
di Corsi. Poi si caricò sulle spalle quel sacco di carne e ossa
e se lo portò a casa.
Per quel che riguarda il primo periodo in cui Corsi rimase nella casa le notizie in mio possesso sono frammentarie. Quando si svegliò su un letto morbido aveva la testa fasciata e un braccio ingessato al collo. Una donna lo stava curando e gli parlava in una lingua che lui non poteva capire. Corsi non si interrogò per nulla su questo problema per via del piacere che gli dava il farsi accudire. Passarono così alcuni giorni. Poi la donna non si vide più e tornò l’uomo che lo aveva salvato. Corsi poté alzarsi dal letto ma camminava a tre zampe, con il braccio destro che gli barcollava giù dalla spalla ogni volta che doveva saltellare sulla mano sinistra per portarsi avanti. Era alquanto scomodo. L’uomo più di una volta si permise di dirgli nella stessa lingua che aveva parlato la donna ?????????????????????????????????????????????????????????????????????????????? ?ma Corsi non poteva capirlo e anche se avesse potuto chissà se avrebbe seguito il suo consiglio. Fatto sta che imparò così bene a muoversi su tre zampe che quando l’uomo gli tagliò il gesso che gli imprigionava il braccio per un lungo tempo rinunciò all’idea stessa di appoggiarlo, continuando a tenerlo pendulo come una inutile propaggine. Ce ne volle prima che tornasse alla normalità, e quando quel momento arrivò non mancò di affacciarsi la noia. Per settimane aveva rivolto la sua attenzione al suo corpo, al suo riprendersi, ricostituirsi, riamalgamarsi intorno a se stesso, al suo rifarsi, ritornare, riaccomodarsi, riannodarsi, ma quando questo si fu ormai incontestabilmente ripreso, ricostituito, riamalgamato intorno a se stesso, rifatto, ritornato, riaccomodato, riannodato, gli occhi di Corsi cominciarono sempre più a cercare nuove direzioni ma non era facile perché a forza di guardare il braccio rotto e le ferite al costato e le mani e le gambe escoriate e i piedi e a forza di guardarsi il naso e le labbra che dolorosamente si portava in fuori con le dita della mano sinistra, i suoi occhi avevano preso la brutta e irreversibile abitudine di mettere a fuoco solo a distanze minime cosicché nel momento in cui tutto ciò che c’era stato di malato nel suo corpo tornò alla banale normalità di un corpo sano e la curiosità e gli occhi di Corsi andarono alla ricerca di nuove emozioni, la porta, i disegni della carta da parati, la sedia con sopra i suoi vestiti, il quadro della madonna, il comodino, il bicchiere d’acqua e la stessa luce si rivelarono sfocati a tal punto che Corsi non era in grado di distinguerli gli uni dagli altri. Capitava così che tentava di bere il termometro o indossava la coperta o rigirava l’orologio come fosse un libro o si affannava a spegnere il bicchiere. Per giorni la sua vita fu così caotica che quando l’uomo entrava a portargli da mangiare si fingeva istintivamente ancora malato e si ficcava nel letto e si faceva imboccare e servire e riverire e quando l’uomo gli parlava con la sua voce suadente e incomprensibile e dolcemente gli toglieva la lampada dalla mano per dargli il bicchiere e lo aiutava a bere e lo imboccava col cucchiaio lui se ne rimaneva immobile come quando si gratta un cane sulla pancia. Per alcuni minuti erano entrambi felici. Quando l’uomo si allontanava per uscire Corsi lo perdeva nella nebbia dei suoi occhi prima ancora che aprisse la porta e capiva che se ne era andato dal suo odore che svaniva e che indiscutibilmente sanciva il ritorno della solitudine. Allora febbrilmente si rialzava e si guardava attorno ma niente di sicuro lo colpiva. Tutto era incerto, era la realtà che era diventata miope: riguardo a questo Corsi non aveva dubbi.
Cammina per la sua stanza. Ne deve toccare ogni millimetro del suolo.
Fa solo linee rette. Le curve mettono ancora più in difficoltà
i suoi sensi. Sta attento a non correre, d’altra parte non si ferma mai
perché i suoi occhi non trovano nulla di interessante su cui posarsi.
Gli angoli sono sempre uguali, i passi sono sempre uguali, le sue mani
sono sempre uguali, sempre uguale il letto il bicchiere il cucchiaio il
sapore del cibo è sempre uguale. Sempre uguali i suoi piedi le mattonelle
gli scarafaggi che ci camminano sopra le vie le linee tracciate sono sempre
uguali, il quadro della madonna è sempre uguale come il suo naso
la finestra il muro che c’è dietro la porta l’uomo che entrerà
è sempre uguale e la lingua che parlerà il vestito che porterà
la scodella che lascerà sono sempre uguali. Così si ferma
e vede col suo occhio sinistro tutto se stesso riflesso nel suo occhio
destro e senza esitare si fa una preghiera, la richiesta di una promessa
e si dice con una voce leggera: “dimmi tutte le immagini che sono scritte
nel tuo occhio stretto che mi rimangano impresse ma dritte però
e no sghembe dimmi tutte le storie frivole dimmi i cani e i sassi che io
possa ricordarli sempre che io possa tenerli tutti con me dimmi gli urli
e gli stridori dimmi gli umori che io possa riconoscerli tra miliardi dimmi
la luce e tutte le sue ombre dimmi con linee dritte e no non dirmi mai
con linee curve che io possa impararle e ripeterle senza guardare che io
possa ripeterle senza andare storto dimmi il tuo riso la riga che fa la
tua faccia nel riso dimmi subito che io possa stringere tutte le linee
dritte adesso e sentirle mie prima di cominciare a girarmi intorno prima
di fare tutto curvo prima di curvare tutte le tue linee dritte prima di
diventare di diventare io, curvo”.
Entra l’uomo ma Corsi è già ficcato nel suo letto con
in mano un termometro. Lo guarda come stesse leggendo un libro, poi lo
porta così vicino al volto che capisce di cosa si tratta e lo ripone
sul comodino. C’è solo una nebbia grigia davanti a lui adesso. L’uomo
ha le fattezze e la voce indistinguibili. Non solo Corsi non è in
grado di dire se ciò che vede davanti a lui sia l’uomo o la parete
o il quadro della madonna e non solo Corsi non può interpretare
il minimo significato dai suoni emessi dall’uomo, ma Corsi non è
in grado di capire se in un dato momento in cui si sta relazionando con
l’uomo sta ascoltando suoni sconclusionati provenienti da lui o sta guardando
forme confuse provenienti da lui. Corsi non sa dire se in un dato istante
sta ascoltando o sta guardando o sta facendo entrambe le cose o, al limite,
non ne sta facendo alcuna. Che sia in presenza dell’uomo non ci sono dubbi
in quanto è l’odorato che glielo conferma e poi poco dopo è
lo stesso odorato che gli dice che non è più in presenza
dell’uomo.
Non c’era altro lì dentro e non ci sarebbe altro da descrivere
se Corsi avesse continuato ad essere toccato da suoni usati e sgradevoli
e da immagini usate e sgradevoli nella stanza che lo ospitava.
Poi qualcosa venne da fuori, si infilò tra le pareti e invase
ogni spazio della stanza. Corsi salì sul letto e si appoggiò
con le mani al muro per restare in equilibrio sui piedi. Voleva mettere
la testa il più in alto possibile, distese il collo e alzò
le mani lungo la carta da parati fino a che i polpastrelli toccarono il
vetro freddo che proteggeva il ritratto della madonna. Saltò senza
troppi complimenti l’ostacolo. Anche lassù in alto sopra la Vergine
era la stessa cosa. Tornò a quattro zampe giù per terra ma
non cambiava nulla: continuava ad arrivare nello stesso modo dolce e lieve,
con piccole imprecisioni che Corsi non aveva intenzione di percepire. Ecco,
sì, pensò, questo è suono. La donna che l’aveva curato
nei primi giorni stava suonando il pianoforte in un’altra stanza, Corsi
prese a camminare con passo lievissimo verso la fonte, trovò la
porta aperta, la oltrepassò senza accorgersene, continuò
dritto senza mai curvare, giunse al pianoforte, la donna suonava, lui non
la vedeva e nemmeno immaginava alcuna scena, si alzò sulle gambe
quasi come un uomo e ricadde con le braccia e tutto il suo peso sulla tastiera.
Durante e dopo il tonfo la donna continuò a suonare, Corsi lentamente
scivolò giù e si chiuse attorno a se stesso fino a divenire
un fagotto sotto al pianoforte. Durante quel millimetrico spostamento del
corpo, Corsi credette di dire queste parole, anche se dopo nessuno poteva
ricordare di averle sentite: “Io se conoscessi la musica creerei una lingua
di note e la prima nota che farei sarebbe quella che dice Parola così
vedrei subito se il perché non voglio più dire dipende da
come è fatta, dall’alchimia delle lettere che la compongono. Creerei
una lingua con le note per dare un senso alle parole e alle forme e farei
parole stridule e parole dolci ma soprattutto farei parole stridule come
sono io e poi imparerei a suonarle e a cantarle per vedere chi mi capisce
lo stesso e creerei parole suoni da fare con le mani su uno strumento e
sarebbero amari quelli per dire il buio e lievi quelli per il giorno. E
piano imparerei a non capire il suono maldestro delle parole e a non dirle
sì a non dirle più davvero imparerei”.
Una volta trasformatosi in quello che aveva un giorno desiderato, cioè
in un fagotto, Corsi se ne rimase inerte ed informe nel suo posto senza
che nessuno lo disturbasse. La stanza era calda e poco illuminata. L’enorme
pianoforte a coda era situato al centro della grande sala che era per il
resto quasi completamente vuota. Una sedia in disparte ospitava l’uomo
vestito di scuro che rimase immobile ad ascoltare il pianoforte. Poi d’improvviso
la donna smise di suonare e prese a parlare: Vorrei prendermi cura di lui.
Tu morirai presto: te ne andresti felice se sapessi di lasciarmi accanto
a lui. Vorrei che divenisse la mia stessa vita e che se ne restasse sempre
così com’è adesso. Toccherebbe a me tenerlo in vita, svegliarlo,
imboccarlo, lavarlo. Gli parlerei ed interpreterei i suoi sguardi vuoti
a mio piacimento lo creerei ad immagine e somiglianza dei miei desideri.
Eh sarebbe bello, ci sarebbe un luogo pieno nel mondo e quel luogo sarei
io. Sarei perfino felice. Ed anche nel momento della tua morte che aspettiamo
da sempre ormai, sarei felice.
La desolazione della stanza del pianoforte era data forse dalla polvere
appoggiata su ogni superficie. La luce era elettrica perché l’unica
finestra aveva le gelosie abbassate. Il tempo si conservava immutato lì
dentro e solo pochi minuti di immobilità erano secoli e per questo
Corsi cominciò a ricoprirsi subito di un velo di polvere prima gentile
poi insistente e rozza che in un attimo creò su di lui uno spesso
strato protettivo. La donna riprese a suonare e la musica faceva alzare
una sottile nube che però non ce la faceva a decollare per più
di qualche centimetro. L’uomo non disse niente e non si mosse per niente
e tutto si fermò per qualche anno. In tutto questo periodo la donna
forse smise di suonare ma mai osò avvicinarsi a Corsi o a quello
che rimaneva di lui ma era felice proprio come aveva immaginato anche se
l’uomo che era seduto in disparte non morì mai. Anzi arrivò
il giorno o l’ora o l’istante in cui abbandonò il suo luogo e senza
essere visto dalla donna si diresse alla finestra e ne aprì le tende
e poi ne aprì le imposte e poi ne aprì i vetri.
Ah, lei è stato fortunato ad essere entrato qui da ospite. Io
ci sono arrivato da padrone anzi in verità ci sono sempre stato.
Di cosa vuole che le parli, di lei o di questo spettacolo che ho davanti.
Sa, c’è stato un tempo non molto lontano in cui ricordavo ancora
come era questo prato nei giorni in cui nessuna anima viva osava calpestarlo.
Quelle sporadiche figure che ci camminavano sopra o erano pazzi oppure
non esistevano affatto. Nella maggior parte dei casi erano solo qualche
idea di chi li vedeva, ma questi, che erano reali, ne avevano timore e
non li raggiungevano mai. A volte sì invece. Ora non so con certezza
nemmeno se c’è stato quel tempo anche se ricordo quando il prato
ha cominciato ad affollarsi. Era come se tutti fossero usciti da un incubo,
come se fosse finita la guerra e ognuno avesse avuto nuovamente il coraggio
di incontrare l’altro. I pazzi, le immagini, i sani e i reali andavano
passeggiando insieme e davvero calpestavano l’erba e lasciavano impronte.
Fu allora che pensai di aspettare. Aspettare che passasse l’euforia. Ma
l’euforia non passò e divenne isteria. Nel periodo tra l’euforia
e l’isteria andavo spesso a mischiarmi a quel brulicare di vita e lo facevo
senza pregiudizi con tanta ingenuità, almeno fin quando le parole,
che in principio erano rade che poi si infittirono fino a divenire il normale
sottofondo al movimento, cominciarono a sovrapporsi e a mescolarsi le une
alle altre al punto che le diverse modulazioni di ogni voce si andarono
tutte a ficcare in un’unica nota cupa che non mutava e non si interrompeva
mai. Fu allora che cominciai a venire qui a questa finestra e a guardare
da fuori quello che accadeva sul prato. E non solo andò peggio di
come avevano previsto le mie paure, ma addirittura andò peggio di
come avrei solamente potuto immaginare: i corpi di quegli uomini cominciarono
ad assumere tutti una stessa indistinta fisionomia e andarono tutti assieme
a formare un cancro che si espandeva senza che nessuno facesse niente.
Era un unico colore pastello che mi trovavo davanti, un colore che non
si modificava e non aveva sfumature e nemmeno si lasciava confondere con
il verde del prato. Capisce: un’unica nota ed un unico colore. E non solo.
Col passare delle mie visite a questa finestra cominciai a dovermi concentrare
per discernere i momenti nei quali ascoltavo la nota bassa che veniva dalle
voci da quelli in cui guardavo il colore monotono delle facce e dei corpi,
fino al momento in cui non riuscii più a comprendere se ascoltavo
o guardavo o facevo entrambe le cose o, al limite, non ne stavo facendo
nessuna. Che fossi in presenza di uomini era fuor di dubbio perché
era l’odorato che me lo confermava e che poi un giorno mi confermò
che non ero più in presenza di uomini. Rosa aveva chiuso i vetri
della finestra e aveva abbassato le gelosie e aveva avvicinato i lembi
delle tende e prima che potessi pensare qualcosa mi disse Stai con me riparati
sotto il mio seno non c’è nulla che puoi fare per te e per loro
hai provato a immaginarli diversi ma è la realtà che ti sconfigge
non la tua immaginazione. Ora aspetta devotamente e rispettosamente che
la malattia ti finisca. Sarò io ad accudirti e a prendermi cura
del tuo corpo e dei tuoi timori. Io le ho sempre creduto e le ho sempre
fatto fare come voleva e da quando mi era stata interdetta la finestra
aspettavo solo che la malattia prendesse il sopravvento. Non volevo più
essere in questo mondo, ma non volevo nemmeno andarmene, volevo che qualcuno
mi venisse a prendere. Rosa mi aveva obbligato a bere cinque litri di acqua
al giorno per alleviare quelle sofferenze che non ho mai patito, e io lo
ho fatto per un tempo tale che ora potrei dire essere sempre. Ma ho fatto
anche qualcosa di testa mia, per tenere vive le cellule e non annientarle
come ha fatto lei. Un’ora al giorno, nel mio periodo di uscita, me ne andavo
a fumare al bar. Ricordo che inizialmente non potevo farlo senza avere
sensi di colpa, così presi a fumare e bere acqua, in modo da stare
sul crinale tra il lecito e il trasgressivo, tra la cura e il masochismo,
e al bar, in quella condizione che mi portava in uno stato di trance, potevo
stare dentro al prato che avevo per tanto tempo guardato dalla mia finestra,
con voci e suoni e immagini e passi e persone che mi vivevano intorno ignare
di me e di loro stesse. Durante quell’ora mi sentivo un privilegiato, un
innocuo privilegiato. Un’altra libertà che mi è sempre stata
concessa in casa era quella di andare a pisciare al bagno. La mattina la
scena era abitudinaria: io dormivo sulla mia poltrona e mi svegliavo quando
Rosa si alzava dal letto, aspettavo di sentire smettere il rumore
dell’acqua del lavandino e poi entravo a mia volta nel bagno. Mentre lei
era seduta sul gabinetto io mi lavavo mani faccia e denti, poi non appena
lei finiva e tirava l’acqua io mi mettevo a pisciare e lei andava a sciacquarsi
le mani. Poco prima che io finissi lei era già fuori diretta in
cucina a prepararmi la colazione che io andavo a ricevere al mio tavolo.
Perché le sto raccontando particolari di vita intima si chiederà.
Beh, la accontento subito. Proprio la mattina del giorno in cui lei e la
sua amica siete venuti nel mio bar la scenetta di vita quotidiana che le
ho descritto ha subìto una variazione. Una variazione minima e di
poca importanza: Rosa ha dimenticato di tirare l’acqua cosicché
quando io sono passato dal lavandino alla tazza ho potuto vedere con i
miei occhi i resti liquidi del suo corpo. Non che questo mi abbia fatto
effetto, ma la sua indifferenza mi ha mostrato il fondamento della differenza
tra me e lei. Rosa, essendo una donna, non ha mai guardato la sua
urina, mentre io prendo ogni volta in mano il mio pene e la accompagno
in tutto il suo percorso e ne controllo il getto con un sapiente gioco
di manubrio, acceleratore e freno e la guardo tutta non ne perdo nemmeno
una goccia e ogni giorno ne controllo il colore e la quantità e
la considero proprio una parte di me che io espello senza acredine e che
mi si ripropone e più di una volta abbiamo giocato assieme: tanto
tempo fa su una spiaggia abbiamo scritto frasi d’amore e un’altra volta
ho innaffiato con un getto spaventoso il vicino di casa antipatico e sono
certo che da ragazzo vincevo tutte le gare con gli amici a chi arriva più
lontano. Rosa no, Rosa non la ha mai guardata e non la nomina, per lei
la piscia non esiste, dopo averla fatta chiude la tazza girando gli occhi
alla finestra opaca e poi tira l’acqua come si tira una tenda o un sasso.
Per questo Rosa è aerea e io sono terrigno. Tutto questo l’ho capito
la mattina in cui per la prima volta vidi la mia urina che si mischiava
a quella di Rosa.
Poi come ogni giorno andai al bar e per la prima volta pensai che forse
non era vero che sarei morto, che era tutta una menzogna, e decisi il resto.
Lei, signore mio, è stato il mio primo atto da tempo immemorabile.
Non che Rosa non lo abbia notato, ma ha creduto di poterci tenere tutti
e due sotto la sua ala protettrice. E’ stato un errore. Adesso siamo in
due. Colga questa opportunità la prego, salti con me dalla finestra.
Non si faccia ammaliare dal potere consolatorio della polvere, si scuota,
venga via, c’è bisogno di lei, c’è estremo bisogno di lei
nel mondo.
Corsi non aveva capito una parola di quello che aveva detto l’uomo,
certo è che dei suoni erano giunti alle sue orecchie ma il significato
di quei suoni gli era completamente oscuro. Il suo corpo non si muoveva
da tempo immemorabile e Corsi si chiese per un attimo se era esistito un
momento nel passato in cui si fosse mosso o era sempre stato immobile in
quel posto. La soluzione non era alla sua portata da un punto di vista
logico in quanto da un’ottica esperenziale Corsi poteva notare che lo strato
di polvere che lo copriva era spesso poco più di un centimetro.
Questo dava a intendere che era lì da non più di qualche
settimana, ma se era vero allora era lecito ammettere un prima, che lui
non ricordava assolutamente e che poneva altri problemi. Il primo riguardava
il cibo: se era stato tanto tempo immobile cosa e come si era nutrito?
E se non si era nutrito come era sopravvissuto, perché era chiaro:
Corsi non aveva dubbi sulla sua appartenenza al genere umano. In un momento
della sua vita che ora non ricordava se ne era fatto un cruccio ma ora
aveva accettato la realtà. E, assodata la sua umanità, come
era conciliabile la sua immobilità? Non poteva infatti negare che
fosse totalmente fermo: si concentrò su ogni parte del suo corpo,
anche la più inutile e periferica, per coglierne un movimento appena
percettibile, ma non trovò nulla a confortarlo. Per settimane era
rimasto completamente immobile in un corpo privo di bisogni. Corsi per
la sua natura non poteva prendere in considerazione il fatto che fosse
morto, cosa che ogni uomo in salute avrebbe fatto. Come detto, invece,
non c’era logica nella sua avventura, e Corsi decise di non costringersi
troppo per spiegarla nei particolari. In fondo era lì, poteva sentire
dei suoni provenire dall’uomo che lo aveva salvato e accudito, aveva coscienza
di sé, e se fosse riuscito a muovere qualche arto avrebbe forse
potuto anche togliersi da quel torpore. Provò. E riuscì.
E saltò dalla finestra. E saltarono dalla finestra. E furono in
strada. Uno con due piedi e l’altro con quattro zampe. Senza guinzagli
ma anche senza parole. L’uomo dritto pensava Qual è la strategia?
E Corsi pensava Non esiste strada vuota in cui non si possa incontrare
qualcuno.
Non pioveva nelle strade. Non pioveva più. Camminavano con i
loro sei arti, a Corsi facevano male le mani e quando poteva si fermava
a sciacquarle ad una fontanella. Era forse la prima volta che Corsi sentiva
questo tipo di stanchezza, e succedeva perché ora la sua mente non
riusciva più a dirigere il proprio interesse sugli oggetti e le
piante e gli essere animati e inanimati e i movimenti le immobilità
di tutto ciò che era nel mondo che lo circondava, ma lo guidava
in ragionamenti logici che prendevano forma venivano guidati erano alimentati
deviati protratti elaborati dalle parole dell’uomo che lo accompagnava.
Quando la voce si soffermava per un attimo su qualche pensiero che potesse
riportare alla mente la stanchezza Corsi si fermava e si sedeva a terra
quasi come un essere umano e si strofinava le mani. Ne cadeva una pioggerellina
di polvere e piccoli sassi che lasciavano il segno sui palmi, prima che
Corsi tornasse a camminare. Poi l’uomo riprendeva a parlare e Corsi a pensare
come se la sua mente fosse mossa da una qualche sorta di logica umana anche
se erano più numerose la volte in cui non riusciva a capire il suo
pensiero da quelle in cui al contrario gli sembrava che qualcosa fosse
chiaro.
Si divisero solo una volta. Erano stanchi e seduti su una panchina
in un parco il cui prato continuamente scosceso era uniforme e di un verde
intenso per le piogge battenti con grandi alberi che vi nascevano sopra
e nessuna persona che lo calpestava. L’uomo pensava e diceva e Corsi si
strofinava le mani e pensava, poi l’uomo disse Io devo pisciare e Corsi
rimase in silenzio, si sfregava le mani e pensava Io no. L’uomo disse Allora
io vado dietro quell’albero, tu aspettami qui e si alzò e fece due
passi. Quando si voltò Corsi lo guardava ma quando tornò
a camminare Corsi già si era addormentato. Proprio sotto l’albero
sul cui tronco aveva pensato di orinare c’era una donna distesa e umida.
Non più bagnata perché ormai non pioveva da un po’ ma umida.
Aveva gli occhi chiusi e l’uomo le si avvicinò con i calzoni già
sbottonati e la scosse ma la donna non si muoveva allora l’uomo la scosse
ancora ma la donna non si muoveva ancora e allora l’uomo la scosse una
terza volta e la girò cosicché se prima era su un fianco
ora poteva guardarla direttamente in volto e poiché la donna non
dava ancora alcun segno le carezzò il viso e disse a bassa voce
per svegliarla senza volerla svegliare Signora, signorina, sta bene? e
a quella domanda sorprendentemente la donna reagì e senza aprire
gli occhi e senza muovere alcun muscolo del corpo e della faccia solo quelli
indispensabili a cacciare le parole disse Mi fingo morta. Allora l’uomo
che ancora aveva i calzoni aperti cercò intorno un altro albero
ma il più vicino era lontano e camminò veloce per raggiungerlo
e per frenare lo stimolo che gli premeva. Prima di pisciare fece l’errore
di voltarsi verso la panchina: i suoi occhi scorsero da lontano Corsi sdraiato
sulla sua panchina e il suo volto sorrise ma gli rimase tra i denti
una smorfia quando vide che un poliziotto si avvicinava al suo amico. C’era
sole e caldo e un vento bollente e umido e l’uomo non capì perché
il suo volto era improvvisamente bagnato. Tirò fuori dalla tasca
un fazzoletto mentre il poliziotto si rivolgeva a Corsi con le sue parole
preferite: Maschio, non si può stare qui, non si può dormire
sulle panchine. Corsi sentiva tutto e capiva tutto anche se in verità
non c’era molto da capire, tuttavia non si capacitava del perché
avesse detto “le panchine” dal momento che lui ne stava occupando a malapena
una, peraltro in attesa che tornasse il suo compagno di viaggio. Mentre
Corsi pensava a quale sarebbe stata la migliore strategia per affrontare
l’attacco il poliziotto gli scosse il corpo appoggiandogli il suo randello
sulla pancia ma non fece in tempo a scuoterlo ben bene e a finire di dire
Guardi che qui ci vengono i bambini che Corsi con gesto felino agguantò
il manganello e se lo strinse con una morsa al corpo e stava quasi per
prendere a tremare per la paura e il dolore che cominciava già a
percepire dei calci e delle mazzate che gli sarebbero arrivate che l’uomo
arrivò trafelato e disse Agente agente laggiù c’è
una donna distesa sotto un albero che sembra morta ma il poliziotto ci
mise un po’ a connettere e a capire cosa gli stesse accadendo e il più
lesto di tutti fu Corsi che aprì subito gli occhi e catturò
la fotografia dell’uomo col braccio disteso e il dito indice puntato e
lasciò la presa e dimenticò i dolori e la paura e si scaraventò
giù dalla panchina e cominciò a correre come un cane arrabbiato
verso la direzione di quell’indice e si perse agli occhi dei due dietro
un declivio e fu tutto così veloce che il poliziotto rinfoderò
la sua arma e chiese un po’ retoricamente Ma che cosa era? e l’uomo mentre
si sedeva sulla panchina rispose Non avevo mai incontrato una persona così.
Il poliziotto fece la mossa di sederglisi accanto e stava per dire E’ qui
che si vede l’efficacia del nostro lavoro ma l’uomo senza degnarlo di alcuna
considerazione riguardo al suo ruolo nel mondo si alzò e si allontanò
senza voltarsi e poté solo sentire la voce alta da dietro che gli
domandava Ma… quella donna? Poi percepì appena qualche altra
parola sottovoce che messa insieme suonava Qui mi sembrano tutti matti.
Nel momento in cui il poliziotto riferendosi a Corsi che correva a
quattro zampe chiedeva all’uomo Ma che era, Corsi seduto con la schiena
appoggiata al tronco dell’albero dove l’uomo non aveva pisciato si sfregava
le mani. Poi nel momento in cui l’uomo riferendosi a Corsi e ai momenti
passati con lui rispondeva al poliziotto Non avevo mai incontrato una persona
così, Corsi con il culo appoggiato su una radice dell’albero dove
l’uomo non aveva pisciato guardava il volto morto di Urbana. Poi nel momento
in cui il poliziotto riferendosi a Corsi e al proprio orgoglio di uomo
delle forze dell’ordine diceva E’ qui che si vede l’efficacia del nostro
lavoro, Corsi con le ginocchia appoggiate a terra alla base dell’albero
dove l’uomo non aveva pisciato con una mano ruvida accarezzava il volto
caldo di Urbana. Poi nel momento in cui l’uomo si allontanava dalla panchina
e il poliziotto confuso dal pensiero di quello che stava accadendo domandava
ad alta voce all’uomo Ma… quella donna?, Urbana con il corpo steso all’ombra
dell’albero dove l’uomo non aveva pisciato apriva gli occhi e incrociava
il suo sguardo con quello di Corsi. Infine nel momento in cui l’uomo si
era già allontanato dalla panchina e poteva appena percepire le
parole del poliziotto che riferendosi a tutta la situazione si diceva Qui
mi sembrano tutti matti, Corsi in una posizione qualsiasi accanto
all’albero dove l’uomo non aveva pisciato diceva sottovoce:
“Urbana”.
Non c’era più vento. L’uomo vide i due da una posizione che
li rendeva belli e addirittura si dimenticò di non aver pisciato.
Corsi e Urbana si alzarono senza altre parole e andarono da lui che
li accolse entusiasta dicendo Venite, venite di qua e li portò ad
un laghetto coi pesci, dove si gettarono e poi si spogliarono nudi e giocarono
per ore, forse per mesi con l’acqua un po’ torbida e non pensavano a niente
tranne che a guardarsi cambiare le ombre sui volti e sui corpi a seconda
degli schizzi alzati e della luce sempre più rossa e poi sempre
più flebile del sole. Quando fu buio uscirono dall’acqua e tutti
i loro corpi erano una piaga ma le loro bocche avevano sorrisi e quando
si rimisero i vestiti fradici sentirono freddo e si spogliarono ancora
e rimasero così fino al giorno dopo, senza mai dormire, stesi a
guardarsi le gocce di fango scivolare tra i peli e poi a guardarsele seccare
sulla pelle e poi a scrostarsi con le unghie dolci sui capezzoli e sulle
facce e dure e profonde sulle braccia e sulle schiene. La mattina asciugò
i vestiti, e prima che si rimettessero in cammino l’uomo avrebbe voluto
dire Devo andare a pisciare, ma guardandosi intorno in cerca di un albero
disse Ma perché non c’è nessuno? Corsi pensava Non c’è
strada vuota in cui non si possa incontrare qualcuno e Urbana disse Andiamo.
Prima di uscire dal parco l’uomo si fermò ad un tronco tagliato,
quando raggiunse i due che non si erano fermati si tirò su rumorosamente
la cerniera lampo dei pantaloni.
Erano in strada. In mezzo alla strada. Una persona fortunata li avrebbe
potuti scorgere di spalle, mentre si allontanavano. L’uomo a quattro zampe
procedeva con il culo in alto, mentre gli altri due lo incorniciavano ai
due lati del corpo e tenendosi per mano sembravano proteggerlo nel caso
in cui il cielo gli fosse caduto sulla schiena. Corsi dal canto suo non
si prendeva cura di sé e in assenza di parole altrui occupava la
sua mente cercando di ricordare una ad una tutte le stelle che aveva
visto durante la notte.
Poi si fermò, gli altri due continuarono per un solo passo che
era sufficiente a che le loro mani superassero la sua schiena e la sua
testa che aveva il volto rivolto verso il basso. Si staccarono e si voltarono
verso di lui che aveva alzato lo sguardo. Gli occhi dei due erano in quelli
di Corsi persi nello spazio tra i loro corpi. Non ci fu alcuna pausa prima
che dicesse:
“l’altrastèrio nefìnga amàto e strida a mio seno.
inpasto masi collùmo li ormi altistèrici mi si àddono
a iose iò nulto vidèo desìdi ai caldii le portio fischi
ne gore. feba cannoìa ei nisidèi e strida a mio seno e strida
a mio seno artoùde”.
Poi riprese a camminare e i due gli tornarono accanto sicché
incorniciandolo ai due lati del corpo tenendosi per mano sembravano proteggerlo
nel caso in cui il cielo gli fosse caduto sulla schiena.