STORIE DI BELACQUA E I SEMIDEI (narrate da Orson Welles)

La storia dei 117 angeli 

 scritta da Simone Iovino

 

Fu il 13 aprile 1954 che Belacqua interessò del caso i Semidei, i quali inizialmente sembrarono non dare molto peso a quelle diciassette unità in più, ma non appena Belacqua li convinse della reale straordinarietà del fatto, essi raccolsero le loro cose e presero a seguirlo.
Mentre con passo svelto si appropinquavano verso il settore "nuovi arrivi", Belacqua li rese partecipi delle sue curiosità, dovute al fatto che una tale discrepanza non si era mai verificata.
Certo, alle volte si era verificato che qualcuno anticipasse di qualche ora il suo decesso e giungesse perciò con il convoglio del giorno prima, ma diciassette era più che una coincidenza, probabilmente era il segno che attendevano da tempo.
Del resto le alte sfere non fecero altro che ignorare completamente la cosa, e quando un religioso ignora vuol dire che non ha la forza di guardare.
I Semidei lo seguivano concordando ora si, ora no, col loro compagno, vero che quella giornata non gli avrebbe potuto proporre nulla di più interessante.
Il settore "nuovi arrivi" era situato nella parte più bella del libero cielo, o del cielo dei liberi se preferite, e per Belacqua ed i suoi compagni il cammino era discretamente lungo avendo scelto loro di abitare a nord.
Ma da buoni irlandesi non potevano certo lasciarsi spaventare da una buona passeggiata, che comunque avrebbe dato loro modo di dissertare di filosofia come usa fare quando si cammina molto.
Belacqua amava molto quel genere di conversazione, tuttavia ogni volta che ci si lanciava non poteva non patire una certa irrequietezza datagli dal fatto che non si trovava affatto a suo agio con la dimostrazione; certo nella confutazione nessuno era pari alla sua chiarezza né alla profondità della sua analisi, ma nella dimostrazione Belacqua non sapeva sostenere con altrettanta lucidità il frutto dei suoi ragionamenti.
Trovandosi molto spesso come inadeguato di fronte agli interrogativi che i suoi compagni gli proponevano.
Comunque la passeggiata risultò estremamente piacevole ed istruttiva.
Giunti a tre quarti di percorso, si sedettero sotto un pino a riposarsi, un pino che Belacqua ogni tanto estraeva dal suo sacco e deponeva in terra per farsi compagnia, e Caliban che fino a quel momento era rimasto in ascolto espresse i suoi dubbi circa l'obiettivo della loro passeggiata.
Il quesito che pose fu in realtà una semplice constatazione della difficoltà del poter distinguere i diciassette eccedenti dal resto del gruppo.
Questa acuta osservazione rischiò di far fermare il viaggio sotto il pino.
Passarono cinque lunghi minuti di silenzio, in cui ognuno di loro era impegnato a giungere alla soluzione prima degli altri.
Dopo parlarono tutti insieme in perfetta sincronia.
Ciò che ne uscì fu più o meno questo: possiamo interpellarne 101 e sicuramente ne avremo uno dei diciassette; probabilmente saranno riconoscibili in qualche maniera, basterà osservare con attenzione; forse ne dovevano arrivare veramente centodiciassette.
Belacqua che aveva scelto di parlare per ultimo li convinse nuovamente della necessità di proseguire, se non altro per vedere chi di loro ci si era avvicinato di più.
Ripresero il cammino in assoluto silenzio, quegli ultimi chilometri l'impegnarono per pensare a se stessi, il ricordo di quando anche loro giunsero lassù, forse in eccedenza, forse no.
ll settore "nuovi arrivi" si trovava a sud nella parte più calda del cielo dei liberi, perciò Belacqua ed i suoi compagni furono costretti ad una nuova sosta per cambiarsi d'abito.
Giunsero al pub che si trovava di fronte al settore "nuovi arrivi" verso l'imbrunire, si sedettero vicino alla finestra ed aspettarono.
Il tempo d'una buona birra ed ecco che il primo dei centodiciassette venne fuori.
Con una calma millenaria si alzarono e gli andarono incontro.
Giunti a pochi passi da lui notarono sul suo viso quel sorriso compassato e consapevolmente distratto di chi è morto con calma, e chi muore concedendosi il suo tempo muore sempre il giorno giusto.
Lo lasciarono passare senza fargli neanche una domanda.
Lo stesso accadde con i successivi novantanove.
Dopo un tempo d'incerta lunghezza venne fuori e direttamente incontro a loro una giovane donna con il viso stanco, e gli occhi persi nel vuoto alla ricerca di quelle parole che spiegassero il suo smarrimento.
Le andò incontro Belacqua, con calma e senza cerimonie eccessive le prese la mano. La giovane donna chiese allora se era possibile avere una sigaretta. Caliban ne estrasse una dalla manica, gliela accese e gliela porse.
"Non pensavo fosse così, disse la donna, credevo che non si sentisse il bisogno di fumare..
Io non riuscivo più a tenere in mano una tazzina, le mie dita non riuscivano più a sostenere il peso di un qualsiasi oggetto, perfino d'uno spillo.
Io però dentro sono giovane e forte, lo sapessero gli altri che in me risiede tutta questa forza, ora non saremmo qui a parlare.
Però era arrivato il momento in cui mi dovevano addirittura lavare, così ho detto basta.
Ho mangiato tre quarti di peyote e mi sono messa a volare.
Però pensavo che avrei smesso di fumare."
Detto questo si fece offrire una sigaretta e si allontanò distratta.
Dietro di lei giunsero tre quattordicenni abbracciati.
Nel loro modo di avanzare abbracciati s'intravedeva una necessità comune di sostenersi.
O forse, dato che il sinonimo d'abbraccio è amplesso, d'amarsi.
Si fermarono davanti ai semidei.
"Voi è da molto che siete qui?" Chiesero loro.
I semidei annuirono.
"Siamo passate sulla statale l'altro giorno.
Abbiamo visto morire un signore che portava a spasso il cane.
L'ha investito un pullmann.
E' morto anche il cane.
Ci siamo passate oggi e già era tutto sepolto e dimenticato.
Noi proprio non ce la siamo sentita di deglutire il nostro dolore."
Belacqua non poté trattenere un sorriso che celebrasse questa purezza.
Ma le due ragazze ed il ragazzo non lo videro, perché si stavano
già allontanando.
Abbracciati.
Dopo loro ne vennero nove tutti assieme.
La loro camminata era ondeggiante si spostavano ora a destra ora a sinistra ora in avanti. Avanzavano sparpagliandosi.
Uno andò incontro a Caliban.
"Avresti resistito tu? Ci trovavamo con la nostra nave a dodici, dico dodici miglia dal triangolo delle bermuda.
Ognuno faceva la sua ipotesi..
Chi diceva un campo magnetico, chi gli extraterrestri, chi era scettico.
Il capitano ha parlato per ultimo e ha detto, boh andiamo a vedere chi ha ragione.
Così abbiamo virato.
Beh sai che c'è nel triangolo delle bermuda?
Il mare.
Il mare e basta."
Dopo aver stretto la mano a Caliban, si diresse verso il pub, ondeggiando.
Belacqua fu avvolto da una densa nebbiolina di ricordi.
Il mare, il suo mare, quello che osservava ogni giorno dalla scogliera del Burren, si presentò nella sua memoria. Il mare, il vento, la pioggia.
Belacqua cadde a terra.
Caliban gli tese una mano e l'aiutò a rimettersi in piedi, rammentandogli di concedersi alle emozioni ed ai ricordi con la dovuta cautela che ormai non aveva più l'animo di sostenerle per intere.
Venne allora a presentarsi a loro un uomo con uno strano abito.
Anch'esso giungeva dal settore "nuovi arrivi".
"A voi penso di poterlo raccontare.
Raccontarvi perché ho scelto di venire qui.
Lo dirò a voi, e non ne parlerò mai più.
E', a suo modo, una storia interessante. Da giovane fra mille aspirazioni nutrivo quella di dedicarmi al teatro.
Fui presto rapito dal teatro orientale, che conservava ancora l'aspetto del rito. Dopo anni in cui mi dedicai alle più disparate attività, anni in cui comunque non smisi di recitare, riuscii ad aprire un teatro. Un teatro mio.
Per dieci anni me ne sono occupato, l'ho seguito, diretto, incoraggiato, ho calcato spesso le sue scene, ho interpretato centinaia di personaggi.
Sapete, per un uomo sensibile come me, l'ansia di non poter avere figli l'ho combattuta partorendo migliaia di personaggi.
Passavo notti intere a cucirgli gli abiti, l'ho visti crescere. Ho voluto bene a tutti, nessuno escluso.
In particolare alla regina; come vedete ho il suo vestito indosso."
Una lacrima scese sul viso della regina, un breve sussulto, una leggera commozione.
"Stanotte mi telefonano, mi dicono di correre al mio teatro.
Io corro, corro, ma non arrivo in tempo.
Quando giungo davanti è avvolto da grandi ed alte fiamme.
Nessuno se ne accorge, ma io li sento, io sento i miei figli che urlano, tutte le mie maschere, i miei costumi se ne vanno crepitando, ululando, mi pregano di non lasciarli soffrire.
Poi d'improvviso, mi giunge all'orecchio un mormorio, la voce della regina: non mi lasciare, non mi lasciare, cosa può fare un re senza la sua regina.
Mi guardo. Ma avverto solo un grande vuoto.
Corro, di nuovo, corro, più veloce, mi lancio nelle braccia della mia consorte."
Caliban e Belacqua interdetti sorrisero alla donna che ora li osservava, poi le fecero un solenne inchino e le cedettero il passo.
La donna rispose al sorriso ed allontanandosi chiese,
"C'è un teatro qui?"
Belacqua annuì e la osservò ondeggiare verso est.
Nello stesso istante in cui la regina scomparve all'orizzonte, due vecchietti giunsero a braccetto.
Si guardavano intorno sorridenti e disorientati.
Caere gli si fece vicino.
"Buonasera a lei.
Sono il professor E. Brown, e questo il mio collega Schroeder.
Un tempo eravamo due stimati e rinomati medici.
Ci siamo donati alla scienza ed al bene degli altri, non per devozione, ma per un piacere puramente intellettuale, il piacere che dona la speculazione scientifica, naturalmente non abbiamo mai smesso di nutrirlo, né di accompagnarlo con delle buone letture di filosofia.
Per qualcuno ci siamo spinti troppo oltre.
Ad un anno di distanza ci hanno internato entrambi in un manicomio criminale.
Nessuno di noi due ha vissuto come un dramma questa condizione, abbiamo capito entrambi di essere effettivamente andati più in là...
Nel pensiero, nell'esperienza, nella vita, forse nel tempo.
Abbiamo passato bene i primi due anni, ma Schroeder ha iniziato a ribellarsi, e così a furia di terapie elettriche l'hanno reso sordomuto.
Da quel momento in poi abbiamo iniziato a comunicare solo attraverso gli scacchi.
Schroeder è un ottimo giocatore e l'ho battuto di rado.
Poi improvvisamente il Dottore ce li ha fatti togliere.
Io e Schroeder abbiamo ormai una certa età e protestare non ci avrebbe condotto a niente.
Così per un mese non abbiamo più avuto modo di comunicare.
Mi è mancato enormemente.
Mi sono sentito improvvisamente vuoto.
Persino leggere non mi dava alcun piacere.
Lo vedevo aggirarsi per il cortile, che si guardava intorno, ma in realtà non osservava nulla.
Sempre più magro, progressivamente calvo.
Un giorno mi si avvicina mentre mi fumavo la sigaretta mensile, me le toglie con educazione, e la schiaccia contro il muro, usando una pressione continua l'ha mossa in maniera strana.
Si è scansato, e mi ha indicato il muro.
Ho dovuto guardare da una certa distanza.
L'ho riconosciuta immediatamente.
Eutanasia, la nostra cara formula terminale.
Lui in quel mese di gironzolamenti, era riuscito a reperire tutto il materiale per riempire due siringhe e, naturalmente, le due siringhe.
Ce le siamo iniettate simultaneamente.
E' stata una morte dolcissima.
Ora siamo qui felici.
Sapevamo di trovarvi.
Schroeder me lo diceva sempre.
Beh adesso dobbiamo andare a vedere il resto, arrivederci."
"A presto." Disse Schroeder.
Si allontanarono verso nord, Belacqua udì la voce di Schroeder nuovamente, chiedeva a Brown se non fosse il caso di andare a cercare qualche loro vecchio paziente per farsi una chiacchierata.
I Semidei e Belacqua si sedettero.
Centosedici vite gli erano passate a fianco.
Attesero la centodiciassettesima.
Giunse dopo qualche minuto.
Qualche minuto in cui in silenzio Belacqua ed i Semidei si lasciarono andare alle loro speculazioni.
Venne loro incontro una bellissima donna.
Magra, con un viso rilassato, con le gambe contratte e timorose del suolo.
Si fermò davanti a loro, che rimasero seduti.
"Che dire.
Impedirmi d'esistere.
Non sentire che esisto.
Mi ricevo solo al passato.
Tubo. Cosa le viene in mente?
Non so convivere con la mia mente ammaestrata.
Se mi osservo nuda, riscontro dei bozzi che non mi appartengono.
Talvolta non mi appartengo.
Qui come altrove.
E non c'è pace.
Neanche una tregua al mio conflitto.
Con una gonna lunga strascico in cerca di un silenzio mio.
Cerco gli infiniti anfratti del mio utero.
Scavo.
Con una spatola convessa.
Sempre a contatto col fondo.
Che non c'è.
Estenuante disperata affermazione di me stessa a me stessa.
Niente più rimane nella mia mano.
Tutto scivola via.
Come il sangue che mi piscio addosso mensilmente.
Cosa rimane di tutto ciò.
Per quanto ancora.
Per quanto.
Quanto."
Detto questo si dissolse.

EPILOGO
Belacqua ed i Semidei ripresero la strada di casa.
Impiegarono tutta la notte.
Fecero le loro usuali soste e dissertarono come loro solito.
Nessuno cercò di decifrare i motivi di quelle diciassette unità in più, ma ognuno di loro descrisse con dovizia di particolari la sublime agitazione che quella giornata aveva loro concesso.
Essi non si accorsero, ma forse non aveva più importanza, di aver assistito ad un evento eccezionale, l'apertura di un nuovo ciclo.
Neanche Belacqua fece caso che quello era il segno che attendeva.
Questo avvenne perché dopo quella giornata furono attratti a volgere lo sguardo altrove, e perciò non videro che a partire da quel giorno nel settore "nuovi arrivi" giunsero sempre centodiciassette unità.
E non appena la cifra centodiciassette divenne per abitudine la quantità giusta, dal giorno successivo le unità in arrivo divennero centotrentaquattro.
Belacqua ed i Semidei al contrario, da quel giorno iniziarono a dissertare col corpo.
Esplodevano e si ricostruivano, anche se Belacqua nutriva qualche difficoltà in questa disciplina, senza badare al fatto che il mondo aveva iniziato a suicidarsi.


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