Ricordo ancora, dopo tanti anni,
lo sguardo attento di NaMu, la sua voglia di imparare a parlare italiano
per poter comunicare la sua percezione del mondo. Ricordo il suo non poter
mai essere distante dalle cose, il suo essere dentro la realtà oggettiva,
la storia delle cose, di tutte le cose.
NaMu poteva inserire tutto in un
disegno non divino, in un grafico, in una scala di verità, dell'unica
verità che può esistere: quella della certezza.
NaMu non giudicava ma sentenziava;
non guardava con occhi critici ma analitici, lui era affascinato dal colore
della passiflora, ma quando si trovava di fronte ad un rovo, non si fermava
a guardarlo, ma si assecondava nel percepirlo, nel sentirne il numero delle
foglie, il peso, la profondità delle radici. Poteva dire se vi erano
nella città piante della stessa specie che avessero più fiori,
poteva indicare la foglia più grande, poteva parlare per ore vicino
ad una passiflora mentre io guardavo il colore dei suoi fiori. Ed ascoltarlo
era un'esperienza di severità, di una severità leggera che
non ammetteva repliche ma che non chiedeva orecchie né attenzione.
Il primo ricordo che ho di lui
è ancora nitido. Io insegnavo italiano in una scuola per stranieri,
e lui era uno studente coreano al suo primo giorno di lezione. Entrai in
classe cercando la maniera migliore di propormi. Su nove persone avevo
un solo europeo, tre giapponesi e cinque coreani. Dovevo essere gentile
e pacato per non mettere a disagio gli orientali, che soffrono più
di altri l'aggressività. Scandendo bene le prime parole della lezione
dissi: "io mi chiamo Carlo". Ripetei la frase magica altre due volte, poi
chiesi allo studente più vicino: "tu come ti chiami?". Ripetei "io
mi chiamo Carlo" indicandomi, poi spostando la mano verso di lui dissi
ancora: "tu come ti chiami?". Il silenzio assoluto era calato nell'aula
e l'aria si era fatta pesante per gli occhi attoniti degli studenti. Non
mi persi d'animo. Era abbastanza normale che la situazione non si fosse
ancora sbloccata. Andai alla lavagna e scrissi "Carlo". Ripetei ancora
una volta: "io mi chiamo Carlo", e domandai allo studente che avevo accanto:
"tu come ti chiami?". Finalmente ebbi la risposta che aspettavo: "NaMu"
disse. Ripetei ancora instancabilmente: "io mi chiamo Carlo", allorché
NaMu rispose "io… mi chiamo… NaMu". Poi d'improvviso si alzò, prese
il pennarello e scrisse alla lavagna: "Na-Mu" dicendo "Na-Mu… corea…" e
vicino disegnò un albero. E continuò: "io… mi chiamo… NaMu"
e scrisse alla lavagna "NaMu". Guardai fuori dalla finestra e indicai un
albero domandando: "Na-Mu?". Lui assentì e io continuai: "in italiano
si dice albero".
NaMu si era bloccato a guardare
i rami fioriti del mandarino che erano a pochi metri dalla finestra della
nostra classe. Io dissi ancora: "albero". NaMu con gli occhi fissi ripeté
sottovoce: "albero… albero…".
Il modo che aveva quello studente
di entrare in relazione con le cose aveva qualcosa che non mi era chiaro,
e che mi metteva a disagio. Dovetti forzarmi per distogliere l'attenzione
da lui e continuare la lezione.
Ma NaMu non tardò a mostrarsi.
Dopo solo due giorni di scuola aprì la lezione dicendomi: "Carlo
non è nome più usato in Italia. Numero quattro".
Non so come né perché
ma diventammo amici. Ero affascinato da quel suo modo di leggere il mondo.
E man mano che le sue abilità comunicative miglioravano più
mi si rivelava.
NaMu non guardava il mondo con
occhi umani. Lui lo leggeva qual era, puro, senza interpretazioni. Quello
che gli si mostrava era l'universo oggettivo della realtà che lo
popola. Quando guardai la televisione con lui credetti di impazzire. Poteva
percepire in che maniera tutti gli oggetti e le persone e le piante e gli
animali contenuti in una ripresa si inserissero in graduatorie riguardanti
anni, colori, dimensioni, ecc., e affermava di non comprendere una parola
dei discorsi che facevano sullo schermo. Sosteneva che era assurdo tutto
quello che dicevano, perché le asserzioni che facevano erano in
massima parte errate, e si dimostravano ingenuamente arroganti, d'altro
canto il loro opinionismo li rendeva ridicoli.
Ero prontissimo a cogliere ogni
sprazzo di ragionamento che venisse dalla sua bocca, ma non era facile:
davanti ad una messe di stimoli come la televisione, NaMu era catturato:
"Quella pianta, guarda, quella lì con le foglie a punta… è
la più pesante del palazzo, hai visto?".
"Sì, ho visto. Ma che ne
sai che è la più grande?"
"Non la più grande, la più
pesante. Guarda, guarda, questa è bella; vedi il telefono, quello
nero? Beh di tutti gli studi televisivi, quello è il telefono che
è stato usato meno volte."
"Ho capito", dissi io un po' stancamente.
NaMu non disse più niente,
ma dopo qualche minuto mi invitò a fare una passeggiata.
Così uscimmo. Lui guidava
ed io lo seguivo. Mi portò a Villa Ada, un grande parco di Roma.
Poi improvvisamente si fermò e si mise seduto sotto un albero. Non
parlammo per lungo tempo. Dopo un po' si alzò in piedi e disse:
"Questo albero è il più vecchio di Roma. Sono passato qui
per caso un paio di giorni fa e l'ho visto. Sono rimasto a guardarlo e
ad accarezzarlo".
"Che ne sai tu?" gli domandai.
"Io posso leggerlo. C'è
scritto. Sulle cose c'è scritta tutta la loro appartenenza al mondo.
Io non so perché, ma posso leggerla".
"E quanti anni ha?" domandai.
"Non lo so" rispose NaMu.
Dopo un anno eravamo diventati
amici. Io avevo imparato ad assecondarlo e lui cercava di non investirmi
con la gran quantità di informazioni da cui era a sua volta travolto
in ogni rapporto con il mondo. Quando passeggiavamo per Roma o guardavamo
un film insieme, o semplicemente se parlavamo con un amico incontrato potevo
leggere nei movimenti dei suoi occhi le informazioni che recepiva.
Un giorno mi raccontò che
questa sua abilità era come una malattia che si era sviluppata nel
tempo. Prima, mi disse, fino a due anni prima, non aveva alcuna percezione,
e il suo rapporto con il mondo viveva nel buio dell'errore, nell'ingenua
invenzione o nelle opinioni non supportate dalla conoscenza; poi lentamente,
senza stimoli né sue esigenze, cominciò ad avere le prime
illuminazioni. Si sentì un miracolato e fu subito convinto, non
dubitò mai del fatto che quello che sentiva fosse effettivamente
la verità nascosta delle cose. La prima sensazione che ebbe fu quella
di essere diventato un Dio.
Ma le cose non andarono come immaginava
allora. Col passare del tempo quel sentire cominciò a venire da
tutto ciò che lo circondava senza che lui si interrogasse, e la
quantità di informazioni divenne sempre maggiore, fino a che il
guardare fu la sua unica occupazione.
Così cominciò e chiudersi
nella sua stanza, con la luce spenta, al buio assoluto, alla ricerca di
quella tranquillità che la sua mente aveva perduto. Fu allora che
decise di venire in Italia. Ma anche il viaggio rappresentò un'illusione
per NaMu. L'impatto con una cultura così diversa dalla sua fece
sì che il suo spirito di osservazione si placasse per un po', ma
non appena cominciò ad integrarsi l'ossessione delle informazioni
riprese in maniera forse ancor più violenta.
Eravamo ancora sotto l'albero più
vecchio di Roma quando, dopo un lungo periodo di silenzio, cominciò
a parlare.
"Vorrei tornare a guardare un tronco
d'albero come facevo una volta. Perché questo tronco d'albero oggi
non mi comunica null'altro che le sue fredde statistiche e non mi si rivela
mai. Posso rimanere per ore a cercarne la bellezza ma non appena i miei
occhi si posano su di lui sono colpito da informazioni fredde e prive di
interesse. Stento a staccarmi dai miei occhi che vedono solo i suoi numeri,
i numeri dei suoi anni, la profondità delle sue radici, lo spessore
della sua corteccia. Posso percepire quante specie animali ospita su di
sé e il divenire di questa situazione e tutti i dati riguardanti
la singola formica che incontra il mio sguardo, la sua velocità
in relazione alle altre formiche dell'albero e a tutti gli altri animali,
la sua forza, la sua lunghezza, il suo peso. Solo quando riesco a chiudere
gli occhi posso staccarmi da tutto, e allora finalmente non vedo nulla,
il vuoto mi cattura e sento il riposo che entra nella mia testa".
Guardai NaMu che se ne stava ad
occhi chiusi davanti a quell'albero. Non fui in grado di dirgli nemmeno
una parola. Lo accompagnai a casa, il silenzio tra noi non riusciva a nascondere
l'ossessionante lavoro a cui attendeva la sua mente.
Passò un mese che NaMu decise
di tornare in Corea. Ci perdemmo dopo una breve corrispondenza. Nella sua
ultima lettera mi scrisse che anche le parole che lasciava sul foglio lo
aggredivano di dettagli immediati, e che faceva un ultimo sforzo per salutarmi
fino a che non avrebbe potuto tornare ad una vita normale. Da allora non
ebbi più notizie di lui.
Oggi, a tanti anni di distanza,
uscito dalla sala del Comune, mi sono fatto accompagnare all'albero di
Villa Ada, di cui io solo custodisco il segreto. "Eccoci qua - gli ho detto
- i due vecchietti riuniti", e gli ho mostrato questa targa che mi ha consegnato
il Sindaco di Roma in cui si attesta che a centododici anni sono diventato
l'uomo più vecchio di questa città.