NaMu
di Carlo Guastalla

Ricordo ancora, dopo tanti anni, lo sguardo attento di NaMu, la sua voglia di imparare a parlare italiano per poter comunicare la sua percezione del mondo. Ricordo il suo non poter mai essere distante dalle cose, il suo essere dentro la realtà oggettiva, la storia delle cose, di tutte le cose.
NaMu poteva inserire tutto in un disegno non divino, in un grafico, in una scala di verità, dell'unica verità che può esistere: quella della certezza.
NaMu non giudicava ma sentenziava; non guardava con occhi critici ma analitici, lui era affascinato dal colore della passiflora, ma quando si trovava di fronte ad un rovo, non si fermava a guardarlo, ma si assecondava nel percepirlo, nel sentirne il numero delle foglie, il peso, la profondità delle radici. Poteva dire se vi erano nella città piante della stessa specie che avessero più fiori, poteva indicare la foglia più grande, poteva parlare per ore vicino ad una passiflora mentre io guardavo il colore dei suoi fiori. Ed ascoltarlo era un'esperienza di severità, di una severità leggera che non ammetteva repliche ma che non chiedeva orecchie né attenzione.
Il primo ricordo che ho di lui è ancora nitido. Io insegnavo italiano in una scuola per stranieri, e lui era uno studente coreano al suo primo giorno di lezione. Entrai in classe cercando la maniera migliore di propormi. Su nove persone avevo un solo europeo, tre giapponesi e cinque coreani. Dovevo essere gentile e pacato per non mettere a disagio gli orientali, che soffrono più di altri l'aggressività. Scandendo bene le prime parole della lezione dissi: "io mi chiamo Carlo". Ripetei la frase magica altre due volte, poi chiesi allo studente più vicino: "tu come ti chiami?". Ripetei "io mi chiamo Carlo" indicandomi, poi spostando la mano verso di lui dissi ancora: "tu come ti chiami?". Il silenzio assoluto era calato nell'aula e l'aria si era fatta pesante per gli occhi attoniti degli studenti. Non mi persi d'animo. Era abbastanza normale che la situazione non si fosse ancora sbloccata. Andai alla lavagna e scrissi "Carlo". Ripetei ancora una volta: "io mi chiamo Carlo", e domandai allo studente che avevo accanto: "tu come ti chiami?". Finalmente ebbi la risposta che aspettavo: "NaMu" disse. Ripetei ancora instancabilmente: "io mi chiamo Carlo", allorché NaMu rispose "io… mi chiamo… NaMu". Poi d'improvviso si alzò, prese il pennarello e scrisse alla lavagna: "Na-Mu" dicendo "Na-Mu… corea…" e vicino disegnò un albero. E continuò: "io… mi chiamo… NaMu" e scrisse alla lavagna "NaMu". Guardai fuori dalla finestra e indicai un albero domandando: "Na-Mu?". Lui assentì e io continuai: "in italiano si dice albero".
NaMu si era bloccato a guardare i rami fioriti del mandarino che erano a pochi metri dalla finestra della nostra classe. Io dissi ancora: "albero". NaMu con gli occhi fissi ripeté sottovoce: "albero… albero…".
Il modo che aveva quello studente di entrare in relazione con le cose aveva qualcosa che non mi era chiaro, e che mi metteva a disagio. Dovetti forzarmi per distogliere l'attenzione da lui e continuare la lezione.
Ma NaMu non tardò a mostrarsi. Dopo solo due giorni di scuola aprì la lezione dicendomi: "Carlo non è nome più usato in Italia. Numero quattro".
Non so come né perché ma diventammo amici. Ero affascinato da quel suo modo di leggere il mondo. E man mano che le sue abilità comunicative miglioravano più mi si rivelava.
NaMu non guardava il mondo con occhi umani. Lui lo leggeva qual era, puro, senza interpretazioni. Quello che gli si mostrava era l'universo oggettivo della realtà che lo popola. Quando guardai la televisione con lui credetti di impazzire. Poteva percepire in che maniera tutti gli oggetti e le persone e le piante e gli animali contenuti in una ripresa si inserissero in graduatorie riguardanti anni, colori, dimensioni, ecc., e affermava di non comprendere una parola dei discorsi che facevano sullo schermo. Sosteneva che era assurdo tutto quello che dicevano, perché le asserzioni che facevano erano in massima parte errate, e si dimostravano ingenuamente arroganti, d'altro canto il loro opinionismo li rendeva ridicoli.
Ero prontissimo a cogliere ogni sprazzo di ragionamento che venisse dalla sua bocca, ma non era facile: davanti ad una messe di stimoli come la televisione, NaMu era catturato: "Quella pianta, guarda, quella lì con le foglie a punta… è la più pesante del palazzo, hai visto?".
"Sì, ho visto. Ma che ne sai che è la più grande?"
"Non la più grande, la più pesante. Guarda, guarda, questa è bella; vedi il telefono, quello nero? Beh di tutti gli studi televisivi, quello è il telefono che è stato usato meno volte."
"Ho capito", dissi io un po' stancamente.
NaMu non disse più niente, ma dopo qualche minuto mi invitò a fare una passeggiata.
Così uscimmo. Lui guidava ed io lo seguivo. Mi portò a Villa Ada, un grande parco di Roma. Poi improvvisamente si fermò e si mise seduto sotto un albero. Non parlammo per lungo tempo. Dopo un po' si alzò in piedi e disse: "Questo albero è il più vecchio di Roma. Sono passato qui per caso un paio di giorni fa e l'ho visto. Sono rimasto a guardarlo e ad accarezzarlo".
"Che ne sai tu?" gli domandai.
"Io posso leggerlo. C'è scritto. Sulle cose c'è scritta tutta la loro appartenenza al mondo. Io non so perché, ma posso leggerla".
"E quanti anni ha?" domandai.
"Non lo so" rispose NaMu.
Dopo un anno eravamo diventati amici. Io avevo imparato ad assecondarlo e lui cercava di non investirmi con la gran quantità di informazioni da cui era a sua volta travolto in ogni rapporto con il mondo. Quando passeggiavamo per Roma o guardavamo un film insieme, o semplicemente se parlavamo con un amico incontrato potevo leggere nei movimenti dei suoi occhi le informazioni che recepiva.
Un giorno mi raccontò che questa sua abilità era come una malattia che si era sviluppata nel tempo. Prima, mi disse, fino a due anni prima, non aveva alcuna percezione, e il suo rapporto con il mondo viveva nel buio dell'errore, nell'ingenua invenzione o nelle opinioni non supportate dalla conoscenza; poi lentamente, senza stimoli né sue esigenze, cominciò ad avere le prime illuminazioni. Si sentì un miracolato e fu subito convinto, non dubitò mai del fatto che quello che sentiva fosse effettivamente la verità nascosta delle cose. La prima sensazione che ebbe fu quella di essere diventato un Dio.
Ma le cose non andarono come immaginava allora. Col passare del tempo quel sentire cominciò a venire da tutto ciò che lo circondava senza che lui si interrogasse, e la quantità di informazioni divenne sempre maggiore, fino a che il guardare fu la sua unica occupazione.
Così cominciò e chiudersi nella sua stanza, con la luce spenta, al buio assoluto, alla ricerca di quella tranquillità che la sua mente aveva perduto. Fu allora che decise di venire in Italia. Ma anche il viaggio rappresentò un'illusione per NaMu. L'impatto con una cultura così diversa dalla sua fece sì che il suo spirito di osservazione si placasse per un po', ma non appena cominciò ad integrarsi l'ossessione delle informazioni riprese in maniera forse ancor più violenta.
Eravamo ancora sotto l'albero più vecchio di Roma quando, dopo un lungo periodo di silenzio, cominciò a parlare.
"Vorrei tornare a guardare un tronco d'albero come facevo una volta. Perché questo tronco d'albero oggi non mi comunica null'altro che le sue fredde statistiche e non mi si rivela mai. Posso rimanere per ore a cercarne la bellezza ma non appena i miei occhi si posano su di lui sono colpito da informazioni fredde e prive di interesse. Stento a staccarmi dai miei occhi che vedono solo i suoi numeri, i numeri dei suoi anni, la profondità delle sue radici, lo spessore della sua corteccia. Posso percepire quante specie animali ospita su di sé e il divenire di questa situazione e tutti i dati riguardanti la singola formica che incontra il mio sguardo, la sua velocità in relazione alle altre formiche dell'albero e a tutti gli altri animali, la sua forza, la sua lunghezza, il suo peso. Solo quando riesco a chiudere gli occhi posso staccarmi da tutto, e allora finalmente non vedo nulla, il vuoto mi cattura e sento il riposo che entra nella mia testa".
Guardai NaMu che se ne stava ad occhi chiusi davanti a quell'albero. Non fui in grado di dirgli nemmeno una parola. Lo accompagnai a casa, il silenzio tra noi non riusciva a nascondere l'ossessionante lavoro a cui attendeva la sua mente.
Passò un mese che NaMu decise di tornare in Corea. Ci perdemmo dopo una breve corrispondenza. Nella sua ultima lettera mi scrisse che anche le parole che lasciava sul foglio lo aggredivano di dettagli immediati, e che faceva un ultimo sforzo per salutarmi fino a che non avrebbe potuto tornare ad una vita normale. Da allora non ebbi più notizie di lui.
Oggi, a tanti anni di distanza, uscito dalla sala del Comune, mi sono fatto accompagnare all'albero di Villa Ada, di cui io solo custodisco il segreto. "Eccoci qua - gli ho detto - i due vecchietti riuniti", e gli ho mostrato questa targa che mi ha consegnato il Sindaco di Roma in cui si attesta che a centododici anni sono diventato l'uomo più vecchio di questa città.

 
 
 
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