CORSI di Carlo Guastalla

Non c’è strada vuota in cui non si possa incontrare qualcuno.
Ad intervalli irregolari queste erano le parole che Corsi diceva a se stesso.
Camminava a quattro zampe. Aveva imparato a farlo nel rifugio dal quale un giorno era uscito e da allora se ne andava in giro e per attraversare procedeva dritto e non pensava e quando girava la testa non era per evitare le rare macchine che circolavano, questo no, era come un istinto che gli si imponeva da una qualche zona sperduta di sé e che era rimasto nella sua coscienza cessata ed è per questo che anche se Corsi non rallentava il passo nell’attraversare la strada dopo aver voltato lo sguardo a destra e a sinistra e dopo aver percepito l’arrivo di una qualche macchina non si può dire che, rispetto ad un ipotetico passato in cui al contrario si sarebbe probabilmente fermato o comunque avrebbe preso una qualche contromisura, ora fosse scemato il suo amor proprio.
In verità Corsi ha avuto un prima di cui è dato sapere solo quello che Corsi ha scelto in qualche goffo modo di raccontare e per questa scelta, che dobbiamo rispettare, non si può non prendere atto del fatto che la sua storia comincia da quell’unico pensiero rimastogli e da quel procedere. Così, al momento della sua uscita in strada, per lui e per gli altri la sua condizione momentanea determinava tutto se stesso.
Se ne andava in giro senza meta e senza origine dicendosi saltuariamente sempre la stessa frase, camminando a quattro zampe e tenendo gli occhi spalancati. Lì dentro entravano le immagini del mondo che lo circondava ma era tutto inutile perché Corsi non aveva memoria ed allora come erano entrate allo stesso modo se ne uscivano dalla bocca che teneva aperta. Lo faceva senza un apparente motivo poiché non si può dire che emettesse suoni di alcun genere e la conferma a questa sensazione era nel fatto che oltre a ripetersi ad intervalli irregolari Non c’è strada vuota in cui non si possa incontrare qualcuno, a camminare a quattro zampe, a tenere gli occhi spalancati e la bocca aperta, aveva anche smesso di parlare da un tempo lungo abbastanza da aver dimenticato il fatto stesso di avere un giorno, forse, parlato.
In realtà non c’era stato un altro Corsi. Categoricamente.
Beh, se c’era stato, solo Corsi avrebbe potuto saperlo. E non lo sapeva, di questo sono certo.
Se si può fare qualche illazione sui suoi pensieri e sugli atti di un ipotetico altro tempo appartenutogli allora si direbbe che un giorno aveva scelto la verginità e se l’era data sacrificando tutto quello di lui che adesso era scomparso. Ciò che ne rimaneva era un involucro pronto ad affrontare la vita e che si chiamava Corsi. Certo, non era la più semplice delle situazioni. Se anche solo mi fermassi al suo aspetto sarebbe già difficile paragonarlo ad un mio simile: dal mio punto di vista tutti i suoi movimenti erano animati da una fondamentale mancanza di logica. Ogni atto sembrava prodursi al di fuori del suo controllo in una sequenza sempre riconoscibile eppure casuale, priva di sincronia, sgraziata, fastidiosa oppure scomoda, controproducente, avventurosa, faticosa, a seconda dei punti di vista.
Capitava anche, perché la giornata era spesso lunga e il cammino, come detto, faticoso, che gli venisse l’istinto di usare qualche altra parte del corpo come arto: questo gli avrebbe facilitato il passo e gli avrebbe risparmiato un po’ di energie. Per lunghi minuti o ore o per porzioni indicibili di tempo tutto il suo corpo si trovava impegnato in questi tentativi che lo rendevano solo ridicolo per la evidente incongruità del proposito. In verità, in alcune posizioni che assumeva, poteva incutere anche un certo timore. Si impegnava con ogni mezzo per migliorarsi e si contorceva fino a farsi del male e provava le soluzioni più impensabili, le praticava con ostinazione fin quando erano le leggi fisiche e non lui a rifiutarle e poi tornava alla sua solita sgraziata avventurosa usuale camminata a quattro zampe.
Quando qualcuno lo prendeva in considerazione Corsi cercava di dare il meglio di sé perché le uniche parole che tornava a ripetersi parlavano di incontri ed allora senza che se lo spiegasse o che lo decidesse si disponeva ad ogni avvicinamento.
Conquistarlo però non era semplicissimo. Non aveva dimestichezza, e comunque non rispondeva mai agli Scusi o ai Senta, e non voltava nemmeno gli occhi quando lo chiamavano Maschio o Giovane o  Giovanotto  o Aoh  o  Bello o  Piccolotto o  Pss  o  Ciccio  o  Coso  o  Tizio  o  Uomo o Capo o Stronzo o Nonno o Maestro o Cagnaccio o Pezzo di merda. In tutti gli altri casi alzava lo sguardo con occhi interrogativi, o almeno questa era la sua impressione. I saluti gli piacevano più di ogni altra cosa, e diventava quasi implorante di altre parole davanti a Buongiorno o Salve o Ciao o Buona giornata o Buonasera o Hello o Benvenuto o Buondì, ma era sempre indeciso quando qualcuno esordiva con Buongiorno, scusi o Ciao, senti o Buondì, senta o Buonasera giovanotto o Ciao maschio o Salve capo o con qualche altra combinazione di saluto e appellativo.
Corsi non potrebbe giurarlo ma i vigili urbani di solito esordivano con Senta ed è sostanzialmente per questo che con loro non aveva mai avuto un buon rapporto. Beh, non era certo che sarebbe stato sempre così. Lui né giudicava a priori né si permetteva di esprimere opinioni su alcuno a posteriori, anche se era stato avvicinato con Senti o Scusi o Aoh o Giovane da un vigile urbano. E nemmeno gli andava mai di arrampicarsi sui muretti, anche se qualche volta decideva di investire una certa quantità di energie per raggiungere una nuova postazione da cui guardarsi intorno.

Il vigile urbano gli si avvicinò quando era salito solamente da pochi minuti e gli disse qualcosa che Corsi non sentì. Si era da poco addormentato. Era stato raggiunto dalla voce perché il sonno era ancora debole, ma dal significato delle parole di certo no. Comunque ormai era sveglio quando il vigile urbano gli andò più vicino e disse Buongiorno, sono un vigile urbano, lei non può stare qui. Aveva capito bene, non poteva avere dubbi che avesse esordito con buongiorno. Aveva anche capito che qualcuno lo stava cacciando, ma ormai non poteva più fermare il riflesso che era scattato dopo la parola buongiorno: alzò lo sguardo. Il vigile urbano, che era una donna, ripeté: Mi capisce? Sono un vigile urbano.
Corsi avrebbe voluto domandarle perché, se era una donna, il suo nome era Urbano e non, per esempio, Urbana, come sarebbe stato logico, ma non poté che porre questa domanda a se stesso e poiché non ebbe risposta alcuna prese la decisione che da quel momento in poi ogni volta che la donna avesse detto il suo nome al maschile lui avrebbe capito, com’è giusto, al femminile. Il vigile Urbana gli chiese Si sente bene? Ha qualche problema? Vuole che chiami un’ambulanza? Per tutta risposta Corsi tentò di scendere dal muretto, ma poiché non era abituato a movimenti bruschi crollò rovinosamente a terra rimanendo per alcuni minuti steso su un fianco. Il vigile Urbana tentò di soccorrerlo ma Corsi la scalciò con tutta la sua forza. Urbana provò un dolore lancinante alla bocca dello stomaco e non disse nulla, solo rimase a distanza.
Davanti a loro c’era una grande piazza vuota e sopra di loro un sole giallo e grande che faceva tiepido un venticello sottile. Era tutto bello, ma Corsi aspettava il momento in cui sarebbe successo qualcosa. Non sapeva cosa perché non aveva memoria, ma il corpo, che non aveva ricevuto alcun ordine dalla ragione, si rattrappì fino a chiudersi completamente.
Poi le sue gambe, le mani, i gomiti, lo sterno, i fianchi, le tibie, lo stomaco, i coglioni, la faccia, le cosce, le ginocchia, gli occhi, i piedi, le dita, la testa, la schiena, i polmoni, il collo, il fegato, la bocca, il pene, i polsi, le anche, le orecchie, la gola, il culo cominciarono a dolergli come se in quell’istante venissero colpiti da calci di stivali a punta. Poteva anche ascoltare frasi e parole che non era sicuro di aver già sentito prima e le lacrime cominciarono a scendere dai suoi occhi, ora serrati e immobili, fino a formare una piccola pozzanghera salata accanto al suo volto. Il vigile Urbana era piegata su se stessa ad un metro da lui.
Nessun altro era nella piazza.
Nessun altro si avvicinava.
Nessun altro.
Nessuno.
Nessun altro
parlava.

Non sono una persona non so dare calci ho scarpe bucate e unghie recise che non crescono oggi e non crescono più. Ho una testa molle e muta che non è mai uguale e ha smesso di parlare. In compenso… Sì in compenso la mia bocca ha sì parole tutte belle e profonde e io non le capisco mai perché vengono fuori veloci più veloci anche delle macchine che mi passano accanto una sola volta in tutta la storia del mondo.
Ma qui ora nessuno parla.
Nessuno.
Nessuno ci parla.
Tu resti qui davanti in un silenzio rattrappito.
E’ un’estate calda più calda del solito e io mi annoio con la mia famiglia. Non sono ancora come adesso. Poi arriva il terremoto e muoiono tutti, anche io credo di morire in un primo momento, poi ci ripenso perché mi sembra tra le macerie di poter muovere le mani. Dormo a lungo: la scossa mi ha messo una grande stanchezza. Forse un giorno intero. Mi sveglio. Sto un po’ meglio ed è sempre più probabile che stia ancora vivendo. Ma non è certo. Per ore non parlo e cerco di muovere gli occhi. Questa operazione va a buon esito, anche se non vedo nulla. Cecità? Ero in cucina: sono le prime parole che pronuncio. Continuo: É tutto crollato, ci deve essere stato un terremoto. Non sento niente, né dolore né voci, è strano, posso muovermi. E davanti a me c’è qualche centimetro prima della porta. Tocco su. Deve essere un tavolo rovesciato che si è appoggiato al termosifone e al frigorifero. E’ obliquo. Sono sotto una mansarda confortevole. Mi ci vuole un po’ per capire. Fa caldo e ho sete. Penso che forse morirò. Il frigorifero. Davvero incredibile: posso muovermi. A quattro zampe o strisciando provo ad aprire la porta, ma è bloccata dai detriti, dalla calce, dai mattoni, dai pezzi di ferro, da un peluche, da un pezzo di gamba, forse la coscia di mio nonno. Non riesco a provare sentimenti, devo pensare a me. Levo il peluche e quasi mi crolla tutto in testa. Capisco che devo procedere più cautamente. Scavo con le unghie che sono lunghe. In questo modo funziona. Non mi sembra di liberare spazio ma in compenso le unghie si accorciano. A un certo punto sanguinano, ma io non pensavo che le unghie sanguinassero. E invece sì. Poi capisco che sono le dita. Mi fanno male. Comincio a leccare il cemento. Si ammorbidisce e posso portarlo via dolcemente col palmo della mano prima che il calore secchi l’umido della saliva. Scavo. Arriva il momento in cui posso aprire la porta del frigorifero. Forse una fessura di cinque centimetri. Ficco la mano fino al polso. La prima cosa che mangio è uno yogurt. Grazie mamma per aver fatto provviste. Cerco di immaginare quanto tempo posso andare avanti. Sorge subito un problema. Non sono più in grado di chiudere il frigorifero è non c’è corrente elettrica. Per qualche ora la mansarda diventa gelata, poi i muri crollati restituiscono un calore prima piacevole e poi asfissiante e io capisco che alcuni cibi non dureranno a lungo. Frugo e trovo una bistecca di manzo. La mangio cruda. Poi tutto quello che posso tirare fuori lo metto a terra, davanti a me. Tocco ripetutamente ogni alimento. Mi rassicura moltissimo. Dormo per alcune ore. Vivo così per il tempo che è sparito. Non ci sono più intermittenze nel mio esistere, non ci sono più curve ma solo una lunga linea di cui non mi curo di cercare la fine, e che si spezza da sola quando vedo improvvisamente entrare un filo di luce. E’ come una lama negli occhi. Grido. Sento delle urla di gente ma non capisco niente perché penso solo alla  mia non più cecità. Qualcuno dopo un po’ mi tira fuori  e uno chiede Come sta e io rispondo Non lo so, forse ho mangiato troppo. Non si preoccupi signora, ora andrà tutto bene. E pensare che nessuno al mondo mi aveva mai chiamato signora. Neanche io. Ho sempre fatto di tutto per parlare di me in un modo completamente asessuato. Ed è difficile con questa lingua che mi è toccata. Quest’uomo invece mi ha chiamato signora. Non ci crederà ma questo fatto ha cambiato la mia vita. Mi ha fatto sentire una donna, mi ha dato una sicurezza che mai mi era appartenuta prima. Corsi era rimasto concentrato sui suoi dolori fino quasi alla fine del racconto, poi aveva sentito le parole da Uno chiede come sta e io rispondo non lo so, forse ho mangiato troppo. Non si preoccupi signora, ora andrà tutto bene. E pensare che nessuno al mondo mi aveva mai chiamato signora. Neanche io. Ho sempre fatto di tutto per parlare di me in un modo completamente asessuato. Ed è difficile con questa lingua che mi è toccata. Quest’uomo invece mi ha chiamato signora. Non ci crederà ma questo fatto ha cambiato la mia vita. Mi ha fatto sentire una donna, mi ha dato una sicurezza che mai mi era appartenuta prima.
Corsi pensò due cose contemporaneamente. La prima era che sì, forse aveva mangiato troppo se ora se ne stava raggomitolata con le mani conserte a proteggere lo stomaco. La seconda era che finché avesse continuato a farsi chiamare Urbano non avrebbe mai cominciato a sviluppare nemmeno un briciolo della propria autocoscienza sessuale.

La camminata di Corsi ricordava a Urbana il suo bel periodo del terremoto sotto la mansarda e i suoi movimenti non le apparivano poi così goffi e sgraziati. Le faceva piacere che lui desiderasse chiamarla Urbana, anche se non poteva saperlo visto il fatto che Corsi, poiché non parlava, non poté dirglielo. Da parte sua Corsi avrebbe voluto dirle Posso chiamarla solo Urbana? Ma non poté porre questa domanda e poiché non ebbe risposta alcuna e chi tace acconsente prese la decisione che da quel momento la avrebbe chiamata solamente, com’è giusto, Urbana. Urbana non sapeva dire a Corsi cose cattive, e poiché non c’erano cose belle che potesse pronunciare riguardo a lui, rimaneva in silenzio ogni volta che era in sua presenza, e visto il fatto che passava tutto il tempo con lui, smise definitivamente di parlare e arrivò il giorno che Corsi si domandò se Urbana fosse in grado di profferire parola e addirittura se avesse mai profferito parola.
 

Nel bar dove Urbana volle andare a prendere un caffè c’era anche un uomo seduto da solo ad un tavolo che fumava e beveva acqua. Guardava sempre davanti a sé e ad intervalli estremamente irregolari tossiva.
Corsi lo fissò a lungo ma non riuscì a trovare una logica nei suoi movimenti. Sul suo tavolino vi erano un pacchetto di MS, tre bottiglie di acqua vuote, una a metà, Minerva, un posacenere pieno, un bicchiere sempre pieno che teneva in mano per bere sorsi grandi e piccoli e medi senza un disegno apparente. I baristi e tutti gli altri avventori parlavano molto e Corsi pensò che tutte quelle parole erano davvero un ottimo metodo per usare il proprio tempo. L’uomo, perché sicuramente era un uomo a quel che Corsi poteva vedere, aveva avuto ordine di bere almeno sei bottiglie di acqua al giorno per rallentare il procedere di una malattia inguaribile che lo avrebbe portato alla morte nel giro di un tempo che Corsi non commensurava.
Urbana prendeva il suo caffè, e lui guardava dritto la schiena dell’uomo, ne studiava tutti i movimenti, cercava di capirne le ragioni.
Urbana si ingelosì perché Corsi fino a quell’istante l’aveva coperta di attenzione, l’aveva seguita e guardata in ogni gesto in ogni movimento in ogni atto del suo corpo. Ma ora la curiosità sfrenata di Corsi era tutta per quell’uomo silenzioso che beveva e fumava e non avrebbe voluto dire a nessuno di essere condannato. Non avrebbe voluto dire a nessuno che stava portando avanti una serie di esistenze parallele, che aveva fatto in più parti uguali il suo conto alla rovescia, dedicando istanti alla cura e istanti al piacere della vita, istanti all’acqua e istanti al fumo. Il suo unico obbiettivo era che queste esistenze non venissero a conoscenza l’una dell’altra, perché allora avrebbe dovuto spiegare all’acqua e al fumo le ragioni delle sue scelte, avrebbe dovuto giustificare l’irrazionalità  delle proprie azioni. Così in tutto quello che faceva poneva grande attenzione. Rispettava e amava il suo piacere e rispettava e amava il suo dovere, per questo non poteva fumare mentre teneva in mano il bicchiere e non poteva bere quando aveva una sigaretta accesa. Aveva anche i suoi spazi privati, in cui posava il bicchiere o spegnava la sigaretta e con la voce roca tossiva e si guardava un po’ intorno, ma senza attenzione, solo per sentirsi autonomo. Poi tornava a bere o a fumare e a guardare davanti a sé, e che bevesse o che fumasse nel suo cuore si accendevano passioni distinte che non si annullavano l’un l’altra ma vivevano assieme nella gioia di colui che le provava.
L’uomo era felice, questo Corsi lo poteva sentire, e avrebbe voluto chiedergli la ricetta della beatitudine, se solo avesse avuto la possibilità di parlare, il coraggio di sedersi accanto a lui, la forza di abbandonare Urbana, un più alto concetto di sé, un alito meno fetido, un aspetto meno sgradevole.
Quando Urbana uscì di corsa piangendo Corsi provò a scendere con altrettanta celerità dalla sedia su cui si era con fatica appollaiato.
Ah, fu una scena davvero comica: la donna singhiozzando portò indietro la sedia di ferro facendola cadere a terra, Corsi venne svegliato dalla sua trance in modo violento e quasi si alzò in piedi sulla sua sedia, che cominciò una danza prima su una zampa, poi su un’altra, poi su un’altra, poi su un’altra, poi su un’altra, poi su due, poi sulle altre due, poi ancora sulle due di prima, poi sulle altre due, fino a ristabilizzarsi su tutte e quattro le zampe. Corsi non si rese conto che improvvisamente si era fatto un silenzio sospeso nel bar, e tutti guardavano verso di lui, un po’ sorpresi, un po’ divertiti, un po’ disgustati, un po’ non sapevano neanche loro. Certo è che non doveva essere uno spettacolo usuale. Fortunatamente Corsi non ebbe la concentrazione necessaria per rendersi conto di quello che gli stava accadendo intorno, tutto preso com’era a cercare una soluzione per scendere senza danni da quell’aggeggio infernale su cui era stato aiutato a salire dalle braccia forti di Urbana. Ora era solo, e doveva trovare movimenti e coordinazione per fare qualcosa che gli sembrava di non aver mai fatto, anche se a pensarci bene Corsi non poteva giurare di non essere mai sceso, in tutto il suo passato, da una sedia, ma questo ricordo non poteva essere recuperato, e così era come se non esistesse per nulla. Nessuno dei presenti avrebbe potuto trovare una ragione nel fatto che Corsi si mise a sporgere la testa per guardare quanto spazio ci fosse sotto la sedia, eppure fece proprio così. Poi afferrò con entrambe le mani una delle due zampe frontali, spostò il culo in fuori fino a che una gamba sporse nel vuoto. La lanciò alla ricerca di qualcosa: la parte inferiore della zampa che aveva afferrato. Con un gesto repentino e non del tutto privo di grazia e coordinazione le si abbarbicò come un koala al proprio ramo, prese tra i denti il piano di ferro e lentamente cominciò a far calare il proprio peso verso terra. Vi fu un momento di suspance generale quando il baricentro dell’unico corpo che si era formato si spostò irrevocabilmente verso la schiena di Corsi e sul fronte della sedia, che si alzò sulle due zampe anteriori e sarebbe caduta a terra se lo schienale non si fosse appoggiato al tavolino. Corsi si trovò, senza che lui potesse spiegare come, gentilmente adagiato con le spalle al terreno, lasciò la presa delle gambe delle mani e dei denti e rimase per alcuni secondi immobile come una tartaruga rovesciata. Stava piuttosto comodo e in un primo momento pensò di rimanere in quella posizione per un po’, ma non era passato abbastanza tempo perché potesse dimenticarsi di Urbana, e quando il ricordo della fuga della donna gli tornò alla mente si girò sulle quattro zampe e corse sulla strada. Era nervoso, sentiva un gran prurito in zone del proprio corpo in cui sapeva non sarebbe mai arrivato. Si sentiva a disagio, avrebbe voluto urlare Urbana, Urbanaa, Urbanaaa, Urbanaaaa, Urbanaaaaa, Urbanaaaaaa, Urbanaaaaaaa, Urbanaaaaaaaa, Urbanaaaaaaaaa, Urbanaaaaaaaaaa, Urbanaaaaaaaaaaa, Urbanaaaaaaaaaaaa, Urbanaaaaaaaaaaaaa, Urbanaaaaaaaaaaaaa, Urbanaaaaaaaaaaaa, Urbanaaaaaaaaaaa, Urbanaaaaaaaaaa, Urbanaaaaaaaaa, Urbanaaaaaaaa, Urbanaaaaaaa, Urbanaaaaaa, Urbanaaaaa, Urbanaaaa, Urbanaaa, Urbanaa, Urbana. Quasi si convinse di farlo mentre si guardava intorno e si stancò le corde vocali per le alte urla che credette di lanciare. Si sedette a terra realizzando che Urbana era stata precipitosa e se era stata precipitosa, a questo punto, dopo averla cercata e chiamata, non gli rimaneva altro che dimenticarla. Ma Corsi davvero non poteva scegliere di dimenticare, qualcuno direbbe che era troppo stupido per prendere qualsiasi decisione di questo genere. Ma altri non lo direbbero, sicuramente né Urbana, né l’uomo dell’acqua e del fumo, né io.
Corsi riprese a camminare dal punto in cui aveva lasciato anche se non aveva la minima idea di cosa avesse lasciato. Non sapeva dove stava andando semplicemente perché non si poneva la domanda, l’unica cosa che riprese a ripetersi era che non c’è strada vuota in cui non si possa incontrare qualcuno.
 

Non gli rimaneva che tornare nel bar e cercare l’uomo seduto. Forse sarebbe stato così gentile da offrirgli un po’ d’acqua o una sigaretta o un bicchiere o almeno un fiammifero. La gola aveva cominciato a bruciargli, se la sentiva rossa e infuocata, quasi gli sembrava di aver perso le corde vocali, tanto era sicuro di aver urlato, così pensò che avrebbe rifiutato, seppur gentilmente, sia la sigaretta che il bicchiere vuoto che il fiammifero. Un buon sorso d’acqua invece era proprio quello che gli ci voleva. Ruotò la sua posizione di 180° e si mise in marcia.
Corsi, appostato sotto la sedia dell’uomo, che nemmeno aveva mosso lo sguardo al momento del  suo arrivo, avrebbe voluto domandare Perché non mi offre qualcosa, qualsiasi delle cose che ha di fronte? Potrei rifiutare quello che non mi interessa ma mostrare in qualche modo il mio desiderio di avere un po’ d’acqua. Ho la gola secca e se continuo a non bere tra poco non sarò più in grado di parlare.
L’uomo fumava, poi beveva, poi fumava ancora, poi di nuovo beveva, e così via. Corsi avrebbe voluto implorare l’uomo La prego, mi dia un bicchiere della sua acqua, ho sete, la mia bocca sta diventando arida e polverosa come un deserto si aprono crepe  voragini in cui io con tutto il mio corpo cado dentro e mi ci secco come un fiore tenuto in un libro, sia buono ne sorseggerò solo lo stretto indispensabile per non morire qui ai suoi piedi, la mia lingua si sta sgretolando e più parlo più peggiora ma non posso stare zitto perché allora come potrei muoverla a compassione, suvvia signore non sia indifferente al mio grido si metta una mano sulla coscienza guardi come il mio corpo tutto sta venendo in soccorso della bocca secca e tra poco avrò anche la vescica sgombra vuotata dall’interno per recuperare liquidi che possano intervenire in aiuto del mio organismo, non finga di non notare la mia sofferenza io sono qui e non ho più la lingua e i miei occhi sono caduti a terra, sono due biglie di vetro che rimbalzano rumorosamente per tutta la sala e il mio moccico dal naso è stalattite e gli escrementi sono terra sgretolata e il cerume nelle orecchie è il miele più amaro e duro che essere umano potrebbe, se volesse, assaggiare. Forse lei non riesce a vederlo ma tutti i pori della mia pelle si sono contratti e chiusi ermeticamente a tentare vanamente di mantenere quei liquidi che avrebbero potuto salvare il resto del corpo e io adesso non posso più muovermi perché se mi muovessi cadrei come cenere da una sigaretta. Signore mi guardi, per lo meno muova gli occhi dal suo vuoto di fronte, sono deserto e lei solo può salvarmi… per questo Corsi stava perdendo tutti i movimenti dell’uomo: non è che non gli interessassero ma semplicemente la condizione di assetato non gli permetteva di indirizzare la sua attenzione su quei gesti che solo qualche minuto prima l’avevano ipnotizzato .
Quando finalmente l’uomo durante le sue elucubrazioni verbali si volse ad offrire a Corsi un bicchiere d’acqua, questi rifiutò perché la realtà era che non aveva affatto sete, non aveva per nulla la gola secca, i suoi occhi non erano biglie di vetro e il suo sterco non era terra sgretolata semplicemente per il fatto che non aveva mai gridato il nome di Urbana fuori dal bar. Non vi fu sorpresa in Corsi nel rifiuto perché aveva ottenuto quello che aveva con tanta forza richiesto e desiderato. In verità Corsi si pose il problema se fosse opportuno rifiutare l’offerta, ma poi si disse che non avrebbe potuto esserci sorpresa nell’uomo perché il rifiuto era una delle possibilità che qualunque persona di intelligenza media, alta o anche bassa prende in considerazione nel momento in cui si trova ad offrire qualcosa ad un altro uomo di intelligenza media, alta o anche bassa. E non era d’uopo ora per Corsi andare ad analizzare tutte le concatenazioni possibili tra le intelligenze di questi due ipotetici uomini, perché il risultato sarebbe sempre stato in medesimo: che il rifiuto è da entrambi un’eventualità presa in considerazione ed accettata senza traumi nel momento in cui dovesse realizzarsi.
Improvvisamente e senza una ragione apparente l’uomo disse Mi scusi ma ho poco tempo, e ritirò il bicchiere che ancora teneva vicino al volto di Corsi che stava rifiutando senza cenni del capo. Pensò Corsi che l’essere umano è più articolato di quanto ogni logica possa spiegare, e che se quell’uomo si era offeso al suo rifiuto di un bicchiere d’acqua non apparteneva al genere delle persone di intelligenza media né di intelligenza alta né di intelligenza bassa oppure apparteneva ad uno dei tre generi ed allora significava che il suo calcolo sull’intelligenza doveva essere fatto, o almeno sarebbe stato meglio farlo dal momento che il suo sorvolare sull’argomento aveva creato un’incomprensione che lui stesso avrebbe voluto evitare. Si disse comunque di essere stato ineducato nel rifiutare e di non aver tenuto conto del difficile stato d’animo dell’uomo, il quale stava senza dubbio portando avanti un comportamento non ortodosso e tutti sanno – si diceva Corsi – che chi porta avanti un comportamento non ortodosso ha qualche problema, ed è sempre meglio dimostrare sensibilità con chi ha comportamenti poco ortodossi e quindi ha qualche problema e puoi star sicuro che essere gentili con chi ha problemi e quindi porta avanti comportamenti non ortodossi non può che pagare, alla lunga.
Era forse la prima volta che Corsi diceva a se stesso questa locuzione: “Alla lunga”. Si era di certo detto Adesso, o Attualmente, o Ora, o Per adesso, o Oggi con le varianti Quest’oggi e Oggidì che gli piaceva tanto per stupire alcune persone; più volte si era detto Continuamente, Qualche volta, Spesso; si era probabilmente spinto a dirsi Ogni volta, Sempre, addirittura Eternamente, ma davvero non gli era mai capitato di dirsi “Alla lunga”. Pensò che, se lo aveva detto una volta, ora che quella espressione lo aveva toccato la sua stessa essenza era mutata. Ancora non sapeva se in peggio o in meglio, ma era cambiato. Si imperò di ripetere quelle due parole per un numero sufficiente di volte cosicché non le dimenticasse più, come gli accadeva per la maggior parte delle parole nuove che imparava. Si staccò finalmente dai piedi dell’uomo seduto e si mise a camminare avanti e indietro lungo tutte le direttrici degli spazi vuoti del bar ripetendo a volumi diversi, con differenti intonazioni e variati accenti, quelle due parole.
Doveva essere molto comico, perché la sua espressione era così sicura di dire qualcosa di intelligente che se ne andava con passo sicuro a quattro zampe e muso alto in giro per il bar senza profferire parola, senza addirittura aprire bocca. Già, perché Corsi non è che avesse movimenti labiali: quando pensava di stare in silenzio infatti  se ne rimaneva a bocca spalancata come un ebete e quando invece voleva parlare serrava le labbra e guardava davanti a sé come un ebete. Da parte sua il padrone non doveva essere contento di avere questo spettacolino nel bar, anzi, sicuramente non era felice e direi di più: era furioso, tanto che chiamò la polizia per cacciare Corsi a pedate dal locale.
L’udito di Corsi aveva una lunga memoria indipendente dalla ragione; anche le sensazioni fisiche, tutte quelle che aveva provato nel corso della vita, gli erano rimaste in qualche parte del corpo; ed ogni tanto, per motivi che non comprendeva, il suo fisico metteva in relazione le due cose e la miscela poteva essere esplosiva e così fu quando stava nel bar a ripetere o a ripetersi “Alla lunga”. Si era già rialzato il brusio delle conversazioni tra la gente e nel momento in cui si aprì la porta scorrevole le voci ad una ad una si zittirono mentre aumentava di volume il rumore degli stivali che avanzavano. Corsi era di spalle a quei passi perentori ma il dolore allo sterno fu immediato.
E’ evidente che la posizione nella quale camminava Corsi rendeva di estrema facilità a quelli che avevano deciso di picchiarlo sferrare calci su tutta la parte che chiameremmo anteriore nel corpo di una persona eretta e che risulta invece inferiore nel corpo di Corsi per via della sua postura naturale. Tutti i picchiatori prendevano un gusto particolare a scalciarlo dai coglioni fino alla faccia, e in verità non solo perché stava a quattro zampe ma anche perché Corsi non opponeva resistenza, si lasciava fare tutto e dopo il tutto se ne rimaneva ad aspettare che i dolori gli passassero o che qualche anima pia lo portasse in qualche ospedale. Ma i dolori non passavano mai e mai nessuna anima pia lo portava in ospedale così più di una volta aveva dovuto andarsi a procurare del cibo con una costola rotta o una gamba o un gomito e sempre con gli occhi tumefatti. La cosa peggiore era quando lo portavano in questura, dove lo picchiavano con metodo e tutti i motivi di calci pugni e mazzate erano interni al fatto stesso che Corsi era Corsi: non si sedeva composto, non si alzava in piedi, non rispondeva alle domande, non aveva documenti, non aveva un buon odore né un bell’aspetto.
Beh, quella volta in cui se ne stava pacioso nel bar a ripetere ad alta voce con mille intonazioni o a ripetere dentro di sé con la faccia da ebete “Alla lunga” provò il dolore dei calci ancora prima che arrivassero, e gliene dettero tanti al punto che senza dire una parola lo fecero uscire dal locale e lo lasciarono in strada appena fuori il marciapiede in un parcheggio che si era da poco liberato.
 

Dimenticavo di scrivere che Corsi non è un essere senza passato.
Per un lungo periodo ha vissuto in un sotterraneo.
Questo Corsi non può ricordarlo perché ora la sua vita è completamente nel presente, ma io sì, perché a quel tempo siamo stati insieme a lungo. Ora, qui non si vuole dire dei ricordi di Corsi, ma si desidera fare un quadro per quel che è possibile soggettivo di quelli che furono i fatti. Come detto, Corsi viveva in un sotterraneo. Aveva già assunto la sua tipica posizione a quattro zampe, tuttavia possedeva ancora una discreta manualità, qualcosa di più che un retaggio dei suoi tempi, se sono davvero esistiti, eretti.
Aveva scritto molto ed aveva tutto lì con sé e benché non si vedesse nulla mi diede molto e della sua vasta produzione questo è quello che ho ricordato e conservato:
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

                                                                                                                                                                                    .
Allora quando lo si incontrava nel suo sotterraneo si poteva anche avere la ventura di sentirlo parlare. Non che fosse di una loquacità particolare, ma la sua visuale era sempre scarna al punto da risultare interessante, anzi, direi di più: disarmante. Mi rendo conto che la parola che ho usato: “incontrare”, non rispecchia fedelmente la realtà dal momento che se ci si voleva imbattere in Corsi lo si doveva andare a cercare con una lanterna ad olio, o almeno così facevo io. Fumava molto e masticava tabacco, lo faceva con orgoglio, e le pareti della sua zona preferita erano annerite dalle macchie che lasciava per spegnere le cicche e per appiccicare i resti dei boli insapori.
La puzza era orribile. Anche perché all’odore acre e rancido del tabacco vecchio si mescolava il puzzo di Bob, il suo maiale.
Quando arrivò il momento in cui mi sentii nel diritto di domandare a Corsi perché se ne stava rintanato in quel posto triste domandai Scusi ma perché se ne sta rintanato in questo posto? per cortesia evitai di dire triste e forse fu una scelta felice perché Corsi fu prodigo di parole nella risposta. E’ naturale il fatto che ora nel riportare le parole di Corsi siano potute nascere delle romanticherie, delle deformazioni che del suo discorso ho fatto a mio piacimento rendendolo così in un certo modo meno autentico e meno bello e un po’ più mio. Ma dal momento che sono proprio io che sto scrivendo e non Corsi e che questi fatti si sono svolti in un momento nel tempo così lontano da essere stati dimenticati dalla mia debole memoria, allora bisognerà prendere con le molle tutte le parole qui riportate.
Ma non il senso delle parole e non il senso degli atti.
Corsi rispose semplicemente: “Sopra questo sotterraneo non c’è niente”.
Provai ad interromperlo obbiettando che…, ma ero stato io a fare la domanda e dovevo lasciargli tempo e diritto di rispondere. Continuò: “Lei ha mai chiesto il sole? Io no.
Io non ho chiesto mai il sole e mai la notte. Io non ho chiesto i colori e non ho mai chiesto di essere una persona.
Io non ho mai chiesto di essere quello che sono e non ho mai chiesto di avere quello che ho:
ho cose tutte inutili, ho mani prensili e non le so usare, ho occhi belli e grandi e non li uso mai e mai li ho usati.
Ho una testa per pensare
Ah!
Ho gambe e piedi ho congegni perfetti e non ho posti dove sgranchirli.
Sì ho spazi infiniti infiniti nulla, vuoti infiniti di cui fare un grande falò.
Ho tanto, tutto quello che non ho mai desiderato tutto quello che non ho mai voluto tutto quello che non ho mai saputo usare, ho tutto quello che non ho mai chiesto, tutto quello che non ho mai chiesto ce l’ho. Ho da Abaco a Zuzzurullone. L’elenco di quello che sta dentro risulterebbe un libro interessante.
Ed è andato tutto per il meglio fin quando mi risolvevo a constatare a conoscere a vedere a esperire a esercitare. Ah, che ingenuo e bel periodo che ho passato a imparare il modo di camminare, di parlare, di scrivere, di ragionare, di pensare, di soffrire, di amare, di morire. Non posso dire che sia durato troppo a lungo, forse venti, o trenta, o quaranta o al più cinquant’anni. Ma sono pochi di fronte all’immensità dello scibile umano, di tutto quello che una persona può incamerare in sé, di ciò che un uomo, se se ne rimanesse con la bocca e le orecchie e gli occhi spalancati e facendo attenzione a chiudere tutte le altre aperture, e qui non mi dilungo, potrebbe con facilità ricevere senza grande fatica nel suo corpo. Sono rimasto così per tutto questo breve tempo, a mangiare e ascoltare e guardare quello che avevo ricevuto gratuitamente, senza che io avessi avuto la più piccola esigenza, senza che io avessi fatto alcuna misera richiesta. Sì, lo devo ammettere, qualche volta ho anche ringraziato. Ora sono stupefatto al pensiero che possa averlo fatto un giorno. Eppure ho ringraziato il nulla per il nulla che mi avrebbe donato senza che lo chiedessi.
Poi è successo un fatto assolutamente imprevisto.
Sono stato abbandonato e tutto quello che avevo imparato e conosciuto perse in un istante ogni importanza. Non mi serviva più, non lo volevo più.
Ah, i sentimenti! Che stupidi! Ah ah ah! I sentimenti!! Ih ih ih !”.
Corsi cominciò a ridere a crepapelle e continuò e non si fermava più cosicché io me ne andai e tornai il giorno successivo  e lo trovai ancora che rideva e allora me ne andai di nuovo e tornai dopo tre giorni e lo trovai più stanco ma comunque lo trovai che rideva e allora me ne andai subito e tornai dopo una settimana e quando arrivai non rideva più ma non appena mi vide sbottò in una risata irrefrenabile tanto che temetti il peggio  ma comunque me ne andai e decisi di non tornare prima di un mese e quando un mese dopo tornai lo trovai che stava dando da mangiare a Bob. Avevo tante cose da chiedergli, e sinceramente la mia curiosità su come si procurasse il sostentamento per sé e per il maiale dovette passare in cavalleria.
Corsi aveva gesti compassati, che continuò ad adottare anche in mia presenza. Domandai qualcosa ma non ebbi risposta e il silenzio fu così lungo che sentii che la situazione mi metteva a disagio, un disagio fisico. Poi si accostò al muro, si alzò sulle due gambe, appiccicò in alto il tabacco che aveva masticato, estrasse da una tasca dei pantaloni una scatolina, se ne mise in bocca un pizzico del contenuto, tornò giù, si sedette. Questi due gesti, l’alzarsi e il mettersi seduto, comprendenti l’alzare il braccio destro, l’estrarre di bocca il tabacco, il rovistare tra i denti con le unghie della mano sinistra, il fare con le due mani un’unica palletta di resti, l’attaccarla con la mano destra al muro, il riportare in basso le braccia, l’accovacciarsi con la schiena al muro, l’estrarre con la mano sinistra dalla tasca sinistra dei pantaloni la scatolina, l’aprirla con la destra, l’estrarre il tabacco, il portarlo con la mano sinistra alla bocca, il risistemare nella posizione originaria la scatolina, il mettersi comodo, seduto… tutti questi gesti, che ho riportato grossolanamente, smussati dalle priorità del ricordo, un ricordo ingiusto che rende il tutto troppo approssimativo vago incerto indeterminato e nello stesso tempo troppo chiaro netto normale definito insomma in due parole poco interessante… tutti questi gesti, e scriverei volentieri se solo ne avessi un lontano sentore di mani prensili, di gambe sicure, di passi eretti, di sguardi ammiccanti, addirittura di sorrisi, di mani tra i capelli o che grattano la pancia, di gambe incrociate, di una lingua che lecca i baffi… tutti questi gesti, tutti quelli che ci furono e tutti quelli della mia immaginazione, erano una sequenza non casuale di movimenti che mettevano in evidenza improvvisamente e indiscutibilmente l’appartenenza di Corsi al genere umano. Per quei dieci secondi Corsi mi si presentò come un homo sapiens di questo secolo di sesso maschile. Fu l’unica circostanza in cui potei vederlo in un simile atteggiamento. Era una dimostrazione di forza, un braccio di ferro che mi aveva annientato. Mi sedetti a terra posando la lampada ad olio tra i nostri corpi. Ero alla sua mercé, impotente e dipendente dalla sua volontà, non sapevo cosa aspettavo da lui, né perché ero tornato in quel posto lugubre. Il disagio aveva lasciato il posto a… sì ora mi sento di dirlo: alla paura.
Corsi masticava ed io guardavo il muro macchiato che, illuminato tenuamente dalla luce della lampada, perdeva stranamente ogni essenza sinistra. Mi sembrò per un attimo che vi fosse una logica con cui i resti di tabacco erano appiccicati ma la mia attenzione cambiò definitivamente direzione nel momento in cui Corsi cominciò a parlare.
 

“Le voglio raccontare una storia proprio come la ricordo.
E’ molto strano che il suo protagonista non sia mai stato a vedere un concerto all’Auditorium della sua città. Arriva il giorno in cui il suo amico musicista e il suo amico della sicurezza vanno a trovarlo a casa e gli portano un biglietto omaggio per il concerto della sera successiva. Lui accetta con piacere e assicura la presenza.
La notte fa questo sogno: è una giornata assolata e lui sta andando a piedi a vedere il concerto ma improvvisamente a metà strada realizza di non essere mai stato prima di allora all’Auditorium e si ferma alla ricerca in mezzo ad una piazza tra un gruppo di palazzi. Ne studia l’aspetto alla ricerca di quello che potrebbe ospitare la sala che sta cercando. Uno ha un ingresso molto imponente, un altro ha davanti una carretta dei Carabinieri, uno ha una porta girevole, davanti c’è un portiere in livrea, in uno molto elegante entrano uomini in smoking e donne impellicciate, uno ha un’insegna luminosa che non può decifrare per il sole, uno sembra una chiesa, ha un rosone ma non ci sono croci, uno sta dietro un cancello che dà su un giardino fiorito, uno è in tutto simile al palazzo della sua casa, da uno escono ragazzi, uno ha una lunga e ripida scalinata che dà su un colonnato rialzato. Le larghe piazze dei sogni… Per non sbagliare entra nell’edificio che è in tutto simile al palazzo della sua casa; con le chiavi apre il portone. Al di là scorge un grande atrio d’ingresso con molta gente in movimento. La maggior parte sono uomini vestiti uguali con calzoni grigi, scarpe nere, camicia celeste, cravatta blu a righe oblique rosse ed una giacca blu con un piccolo stemmino sul taschino all’altezza del cuore. Deve passare per un tavolo dove vede il suo amico della sicurezza che gli viene incontro per strappargli il biglietto. Durante questa operazione cerca di capire cosa rappresenti il piccolo stemmino sul taschino all’altezza del cuore, ma l’amico subito si volta e lo precede all’interno di un secondo atrio in cui lo lascia senza dirgli una parola. Qui ci sono delle porte, molte porte, tutte aperte, che danno su stanze di cui si sente fortemente curioso. Si frena perché davanti ad una di queste porte e di queste stanze c’è una distesa di sedie che si allargano a raggiera all’interno dell’atrio. Sì, il concerto si farà certamente qui, pensa l’uomo. Intravede una pedana in fondo dietro la porta dentro la stanza. Si siede. Arrivano altre persone. E molte altre. Si mettono sedute. Poi, quando ogni posto è stato occupato, tutti contemporaneamente si alzano tenendo la sedia sotto al culo con le mani e entrano attraverso la porta dentro la stanza per sistemarsi in ordine sparso attorno al palco. Non sembra esserci una ragione per questa azione, ma il nostro protagonista è la prima volta che va a vedere un concerto all’Auditorium e ne accetta le regole senza interrogarsi. Si mischia agli altri. Tutti sono fermi. Sul palco sale una donna. Parla. Fa una lezione di storia della musica. L’uomo non conosce il compositore di cui la donna sta parlando. Dopo pochi minuti esce disturbando e va a guardare cosa c’è nelle altre stanze. Sbircia dentro appoggiando delicatamente la testa agli stipiti.
. Un uomo in frac tiene una lezione individuale di violoncello ad un ragazzo in jeans che non riesce a far uscire dallo strumento alcun suono.
. Un quartetto d’archi suona un piccolo concerto informale per pochi intimi.
. Due donne si baciano con struggente passione, forse per un addio, un uomo aspetta fuori e guarda.
. Un’altra conferenza, o lezione che dir si voglia.
. Niente.
. Un uomo urla con violenza qualcosa ad un giovane con la divisa con il piccolo stemmino sul taschino all’altezza del cuore; si azzittisce quando lui si affaccia. I due lo guardano con occhi molto diversi.
. Ancora niente.
. Ancora ancora niente.
. Un gruppo di giovani su pattini a rotelle gira tra sedie in disordine, escono nel momento in cui la sua testa fa capolino, invadono l’atrio. Uno di questi, solo uno, ha la divisa con il piccolo stemmino sul taschino all’altezza del cuore. L’uomo non può frenarsi e quando questo gli passa vicino lo placca con mossa da rugbista. Non sa se vuole parlargli o scoprire il significato dello stemma quindi si risolve a formulare una domanda qualsiasi concentrando tutta la sua attenzione sul simbolo della giacca. Senta, io dovrei andare al concerto. Ma è una frase troppo breve e il giovane subito lo precede dicendo Mi segua. Comincia a correre. Anche lui porta dei pattini. L’uomo deve seguirlo a piedi e andare veloce se vuole stargli dietro. Attraversano tutta la grande sala e poi il grande atrio e arrivano all’ingresso dove c’è il tavolino e il suo amico della sicurezza, proprio davanti al portone di casa sua. Ora tutti gli uomini con la divisa blu con il piccolo stemmino sul taschino all’altezza del cuore portano i pattini ai piedi. L’amico gli va incontro e lui gli dice Ma dov’è il concerto? Aspetta un attimo è la risposta. L’amico torna al tavolino, apre cassetti, manda all’aria risme di fogli, poi urla Il concerto inizia fra dieci minuti! Dov’è la sala? Ogni uomo con lo stemma indica in una direzione diversa e poi rimane fermo. Uno per volta si immobilizzano tutti e restano come in un museo delle cere. L’uomo pensa che sono belli, che sono un’opera d’arte e che vorrebbe che non si muovessero mai più. Ma l’amico non sta lì a guardare, lo prende in braccio e si invola come un Superman sui suoi pattini a rotelle tenendogli il volto schiacciato sul petto. Tutti gli esseri umani che incontrano sono immobili come in una fotografia. All’uomo sembra un viaggio di ore. Sente il vento sulla nuca.
Dopo pochi minuti arrivano in un’ampia sala concerti. Tutti i posti sono occupati, tranne uno, il suo. L’amico lo depone a terra e gli indica con benevolenza la poltrona vuota. Dice qualcosa ad alta voce, forse Possiamo cominciare, e poi esce.
Al suo risveglio il nostro protagonista non ricorda di aver sentito alcun concerto, in sogno.
La sera va all’Auditorium e non c’è niente da raccontare per la convenzionalità della serata.
Mi scusi - continuò Corsi senza pause - ma ora vorrei che se ne andasse. Perdoni la mancanza di cortesia ma la luce della lampada, per quanto gentile, comincia a farmi male alle pupille. Sa… ci ho messo tanto per riabituarle al buio. E poi un’ultima cosa. La sua presenza sarà sempre benvenuta qui, ma sappia che domani macellerò Bob e ci farò scorte a sufficienza per un futuro più o meno lungo durante il quale non prenderò altri maiali da allevare. In questo periodo mi preparerò per uscire di nuovo fuori di qui. Niente più parole allora, niente più pensiero, forme, vista, sapere, desiderio, volontà, sentimenti, movimenti, gesti, colori, ricordi…”. Sì, disse sicuramente “ricordi” e poi, dopo, una lunga sfilza di altre parole. Me ne andai prima che avesse finito. Ero sicuro che fosse pazzo. Tornato a casa mi presi la briga di scrivere:
Checché se ne possa pensare, c’è continuità tra gli edifici che ospitano le case delle persone e il garage nel quale alloggia, o sarebbe meglio dire vive, Corsi.  Le vie della città si animano oltre la loro possibilità di capienza nei periodi festivi durante i quali una gran folla di persone stanate si riversa nelle strade. Per un lunghissimo periodo dell’anno sono in massima parte disabitate. In questi giorni che non oserei dire straordinari la sera i lampioni non illuminano che le zanzare e i pipistrelli. Non le persone che non esistono né le macchine, perché sui marciapiedi non ci sono vetture parcheggiate. Il nostro sindaco è molto orgoglioso di aver risolto questo problema, anche se in verità qui  le macchine non disturberebbero nessuno perché le strade sono deserte mentre al contrario nei periodi di sovraffollamento la gente non vede l’ora di sfoggiare la sua automobile e correre e guizzare tra i pedoni terrorizzati.
Comunque il fatto è che nella nostra città è stato concepito e realizzato il miglior sistema di parcheggi sotterranei del pianeta. Tutti i mezzi di trasporto, pesanti e leggeri, nei periodi di inattività, che si avvicinano in verità al sempre, restano stipati in questi pozzi che si estendono verticalmente nel sottosuolo per centinaia di metri, con un sofisticatissimo sistema di areazione che rende vivibile la zona scavata. Ogni famiglia ha un ascensore privato nel suo giardino attraverso il quale si fa scendere la vettura al proprio piano, da qui la si guida attraverso strade sotterranee fino ad arrivare al parcheggio. Le piazze e le vie del sottosuolo sono quasi sempre deserte perché servono circa quaranta minuti per uscire di casa, prendere l’ascensore privato che dal salone o da qualsiasi altra stanza della casa porta direttamente nel box dove è la macchina, accendere il motore, uscire, guidare nel sotterraneo, raggiungere la piazza del proprio ascensore, chiamarlo, metterci sopra la macchina, risalire, uscire dal giardino, immettersi in strada.
Credo che sia questo il motivo  per il quale non ci sono ladri nei parcheggi. La profondità, il buio, la mancanza di movimento sono fattori determinanti di scoraggiamento per ogni malvivente. Da un po’ di tempo non ci sono neanche più le ronde della polizia. E’ dura convincere qualcuno a passare inutilmente una giornata a qualche centinaia di metri sotto il livello del suolo. Capita invece a volte che un barbone vada a finire i propri giorni in qualche angolo dei piani più bassi (cioè più profondi). Nessuno può farci caso, fino al momento in cui si sente la puzza dei cadaveri e allora bisogna chiamare le autorità atte alla rimozione.
Questi sono i parcheggi. Al mio piano non è mai accaduto nulla di strano. Nessun ladro, nessun barbone, nessuna carcassa da rimuovere. Per un periodo ho pensato che Corsi fosse solo un eccentrico, ma ora non posso non dire che sia pazzo, perché è chiaro che solo un pazzo andrebbe a vivere lì giù insieme al proprio maiale da macellare. Voglio ripeterlo: perché è chiaro che solo un pazzo andrebbe a vivere lì giù insieme al proprio maiale da macellare.
Ora voglio che rimanga scritto per sempre quanto segue: sebbene ci sia una continuità tra dove abito io e dove vive Corsi, e tra me e lui (e questo sia il motivo principale del mio avvicinamento), Corsi è un pazzo. E’ senz’altro un uomo, ma pazzo.
Perciò io farò meglio a non frequentarlo più, almeno a non andarlo più a trovare.
Ancora: perciò io farò meglio a non frequentarlo più, almeno a non andarlo più a trovare.
 

Beh, la moda dei parcheggi sotterranei ora è finita; sono rimasti per un po’ di tempo questi buchi nelle viscere della terra, ma poi la natura se li è ripresi, li ha riempiti della sua materia. La natura è così: se non ci stai attento si riappropria di quello che le hai tolto. Ora le macchine sono tornate fuori. Stanno ferme al lato della strada. Le persone che le guidavano hanno imparato negli anni dei parcheggi sotterranei ad utilizzarle il meno possibile. In genere così restano dentro casa con le finestre chiuse per la pioggia o per il caldo o anche solo per non avere rapporti con il mondo di fuori.
Anche Corsi ad un certo punto è tornato in strada.
 

Quella volta che fu preso a calci dal bar al marciapiede e lasciato parcheggiato con lo sterno fracassato vicino ad un cassonetto dell’immondizia se ne rimase svenuto tanto a lungo che le persone che passavano di lì nemmeno lo notavano perché tutto quello che vedevano era un sacco di rifiuti, una massa informe immobile senza testa e senza gambe e senza braccia. Era Corsi. Quando si svegliò era un altro giorno. Aprì l’occhio più sano, l’unico con cui riusciva a scorgere qualcosa, e vide una pozza di sangue, ma non fu questo a colpirlo. Nel sangue c’era il cielo sopra di lui. Guardava in basso a pochi centimetri dal naso e poteva vedere i movimenti delle nuvole e i raggi del sole andare e venire e un aereo passare e tracciare una riga dritta e poi ancora le nuvole mangiarsi tra loro, cambiare colore, passare dal rosso acceso al viola al grigio verso il bordeaux e poteva vedere i raggi del sole bucare quell’oscurità e riportare il cielo al colore consueto: il rosso che veniva dalla sua testa rotta.
Non c’era quasi più dolore perché aveva perso tanto sangue da poter sentire solo il freddo. Poi da quel cielo cominciò a scendere acqua, piccole gocce impercettibili che si infrangevano nel cielo che vedeva coi suoi occhi e lo trasformavano in una pozzanghera di sangue annacquato sempre più sbiadito. Corsi chiuse l’occhio e sentì il rumore della pioggia. Prima acuto, esile di acqua fina, aspro e sottile su di lui e poi d’improvviso profondo, scuro, cupo e torvo, sopra di lui. Era il rumore dell’acqua che si infrangeva sulle falde dell’ombrello nero di un uomo che gli si era fermato giusto vicino e che ora  lo riparava dalla pioggia battente. Nero era l’ombrello e nera la strada e nero era il cielo e il sangue e il vestito dell’uomo e neri erano tutti i panni che indossava Corsi. Tanti e diversi neri. Lui non li vedeva perché con un barlume di senno ascoltava il secondo movimento del concerto per pianoforte e orchestra n. 1 in mi minore di Frédéric Chopin. L’occhio buonovide in lontananza Urbana che dirigeva il traffico che non c’era.
Era lenta e malinconica come la musica…
e le sue braccia erano gentili e forti…
e suonavano il piano nell’aria umida senza mai essere nervose…
e tracciavano disegni che rimanevano sospesi e luminosi nell’aria buia della pioggia…
e neanche le gocce li bagnavano…
e se l’acqua aveva coperto il cielo il cielo si era trasferito giù sull’asfalto…
e illuminava il mondo dal basso verso l’alto con le luci delle automobili quando passavano…
che correvano lente portate dai gesti di Urbana la pianista.
E Corsi se ne avesse avuto le forze avrebbe pensato che era bella…
e se fosse stato sano sarebbe corso ad abbracciarla …
e se avesse potuto parlare le avrebbe detto Oggi ho imparato una cosa nuova della vita…
e questa cosa non so come chiamarla…
ma vorrei che anche tu la imparassi…
perché mi fa scoppiare lo stomaco dalla gioia quando ti vedo.
Poi si sarebbe messo in disparte…
e le avrebbe chiesto di continuare a suonare il piano dirigendo il traffico che non c’era…
e poi sarebbe rimasto in disparte a guardarla…
e avrebbe fatto attenzione a non sbattere le ciglia…
e non avrebbe perso neanche un attimo del suo muoversi…
e avrebbe voluto lui fare nella sua vita almeno una cosa così bene come Urbana adesso dirigeva il traffico.
Poi se ne sarebbe rimasto in disparte…
e avrebbe fatto attenzione ad ogni istante del tempo…
e poi se ne sarebbe rimasto in disparte a guardarla…
e poi ancora se ne sarebbe rimasto in disparte.
Se Corsi vide Urbana che dirigeva il traffico o immaginò di vederla non è interessante saperlo, certo è che quando l’uomo con l’ombrello nero lo protesse dalla pioggia lui non poté alzare lo sguardo né riuscì a dire nulla. Si sentiva la bocca impastata e insensibile e pensò Se non avessi i denti rotti le direi buongiorno anche se sarebbe una ben curiosa ironia sotto una pioggia rossa in una giornata dell’apocalisse. L’uomo nella mano libera dall’ombrello aveva una bottiglia d’acqua limpida che svuotò dolcemente sulla testa di Corsi. Poi si caricò sulle spalle quel sacco di carne e ossa e se lo portò a casa.
 

Per quel che riguarda il primo periodo in cui Corsi rimase nella casa le notizie in mio possesso sono frammentarie. Quando si svegliò su un letto morbido aveva la testa fasciata e un braccio ingessato al collo. Una donna lo stava curando e gli parlava e lui non capiva. Corsi non si interrogò per nulla su questo problema per via del piacere che gli dava il farsi accudire. Passarono così alcuni giorni. Poi la donna non si vide più e tornò l’uomo che lo aveva salvato. Corsi poté alzarsi dal letto ma camminava a tre zampe, con il braccio destro che gli barcollava giù dalla spalla ogni volta che doveva saltellare sulla mano sinistra per portarsi avanti. Era alquanto scomodo. L’uomo più di una volta si permise di domandargli qualcosa ma Corsi non poteva capirlo e anche se avesse potuto chissà se avrebbe seguito il suo consiglio. Fatto sta che imparò così bene a muoversi su tre zampe che quando l’uomo gli tagliò il gesso che gli imprigionava il braccio per un lungo tempo rinunciò all’idea stessa di appoggiarlo, continuando a tenerlo pendulo come una inutile propaggine. Ce ne volle prima che tornasse alla normalità, e quando quel momento arrivò non mancò di affacciarsi la noia. Per settimane aveva rivolto attenzione al suo corpo, al suo riprendersi, ricostituirsi, riamalgamarsi intorno a se stesso, al suo rifarsi, riaccomodarsi, riannodarsi, ma quando questo si fu ormai incontestabilmente ripreso, ricostituito, riamalgamato intorno a se stesso, rifatto, riaccomodato, riannodato, gli occhi di Corsi cominciarono sempre più a cercare nuove direzioni ma non era facile perché a forza di guardare il braccio rotto e le ferite al costato e le mani e le gambe escoriate e i piedi e a forza di guardarsi il naso e le labbra che dolorosamente si portava in fuori con le dita della mano sinistra, i suoi occhi avevano preso la brutta e irreversibile abitudine di mettere a fuoco solo a distanze minime cosicché nel momento in cui tutto ciò che c’era stato di malato nel suo corpo tornò alla banale normalità di un corpo sano e la curiosità e gli occhi di Corsi andarono alla ricerca di nuove emozioni, la porta, i disegni della carta da parati, la sedia con sopra i vestiti, il quadro della madonna, il comodino, il bicchiere d’acqua e la stessa luce si rivelarono sfocati a tal punto che Corsi non era in grado di distinguerli gli uni dagli altri. Capitava così che tentava di bere il termometro o di indossare la coperta o provava a rigirare l’orologio come fosse un libro o si affannava per spegnere il bicchiere. Per giorni la sua vita fu così caotica che quando l’uomo entrava a portargli da mangiare lui si fingeva istintivamente ancora malato e si ficcava nel letto e si faceva imboccare e servire e riverire e quando l’uomo gli parlava con la sua voce suadente e incomprensibile e dolcemente gli toglieva la lampada dalla mano per dargli il bicchiere e lo aiutava a bere e lo imboccava col cucchiaio lui se ne rimaneva immobile come quando si gratta un cane sulla pancia. Per alcuni minuti erano entrambi felici. Quando l’uomo si allontanava per uscire Corsi lo perdeva nella nebbia dei suoi occhi prima ancora che aprisse la porta e capiva che se ne era andato dall’odore che svaniva e che indiscutibilmente sanciva il ritorno della solitudine. Allora febbrilmente si rialzava e si guardava attorno ma niente di sicuro lo colpiva. Tutto era incerto.
Era la realtà che era diventata miope: riguardo a questo Corsi non aveva dubbi.
 

Cammina per la stanza. Ne deve toccare ogni millimetro del suolo. Fa solo linee rette. Le curve mettono ancora più in difficoltà i sensi. Sta attento a non correre, d’altra parte non si ferma mai perché gli occhi non trovano nulla di interessante su cui posarsi. Gli angoli sono sempre uguali, i passi sono sempre uguali, le mani sono sempre uguali, sempre uguale il letto il bicchiere il cucchiaio il sapore del cibo è sempre uguale. Sempre uguali i piedi le mattonelle gli scarafaggi che ci camminano sopra le vie le linee tracciate sono sempre uguali, il quadro della madonna è sempre uguale come il suo naso la finestra il muro che c’è dietro la porta l’uomo che entrerà è sempre uguale e la lingua che parlerà il vestito che porterà la scodella che lascerà sono sempre uguali.
Così si ferma e vede con l’occhio sinistro tutto se stesso riflesso nell’occhio destro e senza esitare si fa una preghiera, la richiesta di una promessa e si dice con una voce leggera: “dimmi tutte le immagini che sono scritte nel tuo occhio stretto che mi rimangano impresse ma dritte però e no sghembe dimmi tutte le storie frivole dimmi i cani e i sassi che io possa ricordarli sempre che io possa tenerli tutti con me dimmi gli urli e gli stridori dimmi gli umori che io possa riconoscerli tra miliardi dimmi la luce e tutte le sue ombre dimmi con linee dritte e no non dirmi mai con linee curve che io possa impararle e ripeterle senza guardare che io possa ripeterle senza andare storto dimmi il tuo riso la riga che fa la tua faccia nel riso dimmi subito che io possa stringere tutte le linee dritte adesso e sentirle mie prima di cominciare a girarmi intorno prima di fare tutto curvo prima di curvare tutte le tue linee dritte prima di diventare di diventare io, curvo”.
Entra l’uomo ma Corsi è già ficcato nel suo letto con in mano un termometro. Lo guarda come stesse leggendo un libro, poi lo porta così vicino al volto che capisce di cosa si tratta e lo ripone sul comodino. C’è solo una nebbia grigia davanti a lui adesso. L’uomo ha le fattezze e la voce indistinguibili. Non solo Corsi non è in grado di dire se ciò che vede davanti a lui sia l’uomo o la parete o il quadro della madonna e non solo non può interpretare il minimo significato dai suoni emessi dall’uomo, ma non è in grado di capire se in un dato momento in cui si sta relazionando con l’uomo sta ascoltando suoni sconclusionati provenienti da lui o sta guardando forme confuse provenienti da lui. Corsi non sa dire se in un dato istante sta ascoltando o sta guardando o sta facendo entrambe le cose o, al limite, non ne sta facendo alcuna. Che sia in presenza dell’uomo non ci sono dubbi in quanto è l’odorato che glielo conferma e poi poco dopo è lo stesso odorato che gli dice che non è più in presenza dell’uomo.
 

Non c’era altro lì dentro e non ci sarebbe altro da descrivere se Corsi avesse continuato ad essere toccato da suoni usati e sgradevoli o da immagini usate e sgradevoli o da suoni usati e sgradevoli e da immagini usate e sgradevoli nella stanza che lo ospitava.
Poi qualcosa venne da fuori, si infilò tra le pareti e invase ogni spazio. Corsi salì sul letto e si appoggiò con le mani al muro per restare in equilibrio sui piedi. Voleva mettere la testa il più in alto possibile, distese il collo e alzò le mani lungo la carta da parati fino a che i polpastrelli toccarono il vetro freddo che proteggeva il ritratto della madonna. Saltò senza troppi complimenti l’ostacolo. Anche lassù in alto sopra la Vergine era la stessa cosa. Tornò a quattro zampe giù per terra e non cambiava nulla: continuava ad arrivare nello stesso modo dolce e lieve, con piccole imprecisioni che Corsi non aveva intenzione di percepire. Ecco, sì, pensò, questo è suono. La donna che l’aveva curato nei primi giorni stava seduta al pianoforte in un’altra stanza, Corsi prese a camminare con passo lievissimo verso la fonte, trovò la porta aperta, la oltrepassò senza accorgersene, continuò dritto senza mai curvare, giunse al piano, la donna suonava, lui non la vedeva e nemmeno immaginava alcuna scena, si alzò sulle gambe quasi come un uomo e ricadde con le braccia e tutto il peso sulla tastiera. Durante e dopo il tonfo la donna continuò a suonare negli spazi che le dita riuscivano ancora acrobaticamente a percuotere, Corsi lentamente scivolò giù e si chiuse attorno a se stesso fino a divenire un fagotto sotto al pianoforte. Durante quel millimetrico spostamento del corpo, Corsi credette di dire queste parole, anche se dopo nessuno poteva ricordare di averle sentite: Io se conoscessi la musica creerei una lingua di note e la prima nota che farei sarebbe quella che dice Parola così vedrei subito se il perché non voglio più dire dipende da come è fatta, dall’alchimia delle lettere che la compongono. Creerei una lingua con le note per dare un senso alle parole e alle forme e farei parole stridule e parole dolci ma soprattutto farei parole stridule come sono io e poi imparerei a suonarle e a cantarle per vedere chi mi capisce lo stesso e creerei parole suoni da fare con le mani su uno strumento e sarebbero amari quelli per dire il buio e lievi quelli per il giorno. E piano imparerei a non capire il suono maldestro delle parole e a non dirle sì a non dirle più davvero imparerei.
Una volta trasformatosi in quello che aveva un giorno desiderato, cioè in un fagotto, Corsi se ne rimase inerte ed informe nel suo posto senza che nessuno lo disturbasse. La stanza era calda e poco illuminata. L’enorme pianoforte a coda era situato al centro della grande sala che era per il resto quasi completamente vuota. Una sedia in disparte ospitava l’uomo vestito di scuro che rimase immobile ad ascoltare. Poi d’improvviso la donna smise di suonare e prese a parlare: Vorrei prendermene cura. Tu morirai presto: te ne andresti felice se sapessi di lasciarmi accanto a lui. Vorrei che divenisse la mia stessa vita e che se ne restasse sempre così com’è adesso. Toccherebbe a me tenerlo vivo, svegliarlo, imboccarlo, lavarlo. Gli parlerei ed interpreterei i suoi sguardi vuoti a mio piacimento, lo creerei ad immagine e somiglianza dei miei desideri. Eh sarebbe bello, ci sarebbe un luogo pieno nel mondo e quel luogo sarei io. Sarei perfino felice. Ed anche nel momento della tua morte che aspettiamo da sempre ormai, sarei felice.
La desolazione della stanza del pianoforte era data forse dalla polvere appoggiata su ogni superficie. La luce era elettrica perché l’unica finestra aveva le gelosie abbassate. Il tempo si conservava immutato lì dentro e solo pochi minuti di immobilità erano secoli e per questo Corsi cominciò a ricoprirsi subito di un velo di polvere prima gentile poi insistente e rozza che in un attimo creò su di lui uno spesso strato protettivo. La donna riprese a suonare e la musica faceva alzare una sottile nube che però non ce la faceva a decollare per più di qualche centimetro. L’uomo non disse niente e non si mosse per nulla e tutto si fermò per qualche anno. In tutto questo periodo la donna forse smise di suonare ma mai osò avvicinarsi a Corsi o a quello che rimaneva di lui ma era felice proprio come aveva immaginato anche se l’uomo che era seduto in disparte non morì mai.
Anzi arrivò il giorno o l’ora o l’istante in cui abbandonò il suo luogo e senza essere visto dalla donna si diresse alla finestra e ne aprì le tende e poi ne aprì le imposte e poi ne aprì i vetri.
 

Ah, lei è stato fortunato ad essere entrato qui da ospite. Io ci sono arrivato da padrone anzi in verità ci sono sempre stato. Di cosa vuole che le parli, di lei o di questo spettacolo che ho davanti? Sa, c’è stato un tempo non molto lontano in cui ricordavo ancora com’era questo prato nei giorni in cui non esisteva uomo che osasse calpestarlo. Chi lo faceva o era un pazzo oppure non esisteva affatto. Col tempo mi convinsi che non erano altro che le idee di chi li vedeva.  E le persone reali, com’ero io, ne avevano timore e non le raggiungevano mai. A volte sì invece. Ora non so con certezza nemmeno se quel tempo c’è stato veramente. Ma ricordo quando il prato ha cominciato ad affollarsi. Era come se tutti fossero usciti da un incubo, come se fosse finita la guerra e ognuno avesse avuto nuovamente il coraggio di incontrare l’altro. I pazzi, le immagini, i sani e i reali andavano passeggiando insieme e davvero calpestavano l’erba e lasciavano impronte. Fu allora che pensai di aspettare. Aspettare che passasse l’euforia. Ma l’euforia non passò e divenne isteria. Nel periodo tra l’euforia e l’isteria andavo spesso a mischiarmi a quel brulicare di vita e lo facevo senza pregiudizi con tanta ingenuità, almeno fin quando le parole, che in principio erano rade che poi si infittirono fino a divenire il normale sottofondo al movimento, cominciarono a sovrapporsi e a mescolarsi le une alle altre al punto che le diverse modulazioni di ogni voce si andarono tutte a ficcare in un’unica nota cupa che non mutava e non si interrompeva mai. Fu allora che cominciai a venire qui a questa finestra e a guardare da dentro quello che accadeva sul prato. E non solo andò peggio di come avevano previsto le mie paure, ma addirittura andò peggio di come avrei solamente potuto immaginare: i corpi di quegli uomini cominciarono ad assumere una stessa indistinta fisionomia e andarono tutti assieme a formare un cancro che si espandeva senza che nessuno si muovesse. Era un unico colore pastello che mi trovavo davanti, un colore che non si modificava e non aveva sfumature e nemmeno si lasciava confondere con il verde del prato. Capisce: un’unica nota ed un unico colore. E non solo. Col passare delle mie visite a questa finestra cominciai a dovermi concentrare per discernere gli attimi nei quali ascoltavo la nota bassa che veniva dalle voci da quelli in cui guardavo il colore monotono delle facce e dei corpi, fino al momento in cui non riuscii più a comprendere se ascoltavo o guardavo o facevo entrambe le cose o, al limite, non ne stavo facendo nessuna. Che fossi in presenza di uomini era fuor di dubbio perché era l’odorato che me lo confermava e che poi un giorno mi confermò che non ero più in presenza di uomini. Rosa aveva chiuso i vetri della finestra e aveva abbassato le gelosie e aveva avvicinato i lembi delle tende e prima che potessi pensare qualcosa mi disse Stai con me riparati sotto il mio seno non c’è nulla che puoi fare per te e per loro hai provato a immaginarli diversi ma è la realtà che ti sconfigge non la tua immaginazione. Ora aspetta devotamente e rispettosamente che la malattia ti finisca. Sarò io ad accudirti e a prendermi cura del tuo corpo e dei tuoi timori.
Io le ho sempre creduto e le ho sempre fatto fare come voleva e da quando mi era stata interdetta la finestra aspettavo solo che la malattia prendesse il sopravvento. Non volevo più essere in questo mondo, ma non volevo nemmeno andarmene, volevo che qualcuno mi venisse a prendere. Rosa mi aveva obbligato a bere cinque litri di acqua al giorno per alleviare quelle sofferenze che non ho mai patito, e io l’ho fatto per un tempo tale che adesso non ricordo più un prima. Ma ho fatto anche qualcosa di testa mia, per tenere vive le cellule e non annientarle. Un’ora al giorno, nel mio periodo di uscita, me ne andavo a fumare al bar. Ricordo che inizialmente non potevo farlo senza avere sensi di colpa, così presi a fumare e bere acqua, in modo da stare sul crinale tra il lecito e il trasgressivo, tra la cura e il masochismo, e al bar, in quella condizione che mi portava in uno stato di trance, potevo stare dentro al prato che avevo per tanto tempo guardato dalla mia finestra, con voci e suoni e immagini e passi e persone che mi vivevano intorno ignare di me e di loro stesse. Durante quell’ora mi sentivo un privilegiato, un innocuo privilegiato. Un’altra libertà che mi è sempre stata concessa in casa era quella di andare a pisciare al bagno. La mattina la scena era abitudinaria: io dormivo sulla mia poltrona e mi svegliavo quando Rosa si alzava dal letto, aspettavo di sentire smettere  il rumore dell’acqua del lavandino e poi entravo a mia volta nel bagno. Mentre lei era seduta sul gabinetto io mi lavavo mani faccia e denti, poi non appena lei finiva e tirava l’acqua io mi mettevo a pisciare e lei andava a sciacquarsi le mani. Poco prima che io finissi lei era già fuori diretta in cucina a prepararmi la colazione che io andavo a ricevere al mio tavolo.
Perché mai le sto raccontando particolari di vita intima, si chiederà. Beh, la accontento subito. Proprio la mattina del giorno in cui lei e la sua amica siete venuti nel mio bar la scenetta di vita quotidiana che le ho descritto ha subìto una variazione. Una variazione minima e di poca importanza: Rosa ha dimenticato di tirare l’acqua cosicché quando io sono passato dal lavandino alla tazza ho potuto vedere con i miei occhi i resti liquidi del suo corpo. Non che questo mi abbia fatto effetto, ma la sua indifferenza mi ha mostrato il fondamento della differenza tra me e lei. Rosa, essendo una donna,  non ha mai guardato la sua urina, mentre io prendo ogni volta in mano il mio pene e la accompagno in tutto il suo percorso e ne controllo il getto con un sapiente gioco di manubrio, acceleratore e freno e la guardo tutta, non ne perdo nemmeno una goccia e ogni giorno ne controllo il colore e la quantità e la considero proprio una parte di me che io espello senza acredine e che mi si ripropone e più di una volta abbiamo giocato assieme: tanto tempo fa su una spiaggia abbiamo scritto frasi d’amore e un’altra volta ho innaffiato con un getto spaventoso il vicino di casa poco simpatico e sono certo che da ragazzo vincevo tutte le gare con gli amici a chi arriva più lontano. Rosa no, Rosa non la ha mai guardata e non la nomina, per lei la piscia non esiste, dopo averla fatta chiude la tazza girando gli occhi alla finestra opaca e poi tira l’acqua come si tira una tenda o un sasso. Per questo Rosa è aerea e io sono terrigno. Tutto questo l’ho capito la mattina in cui per la prima volta vidi la mia urina che si mischiava alla sua.
Come ogni giorno andai al bar e per la prima volta pensai che forse non era vero che sarei morto, che era tutta una menzogna, e decisi il resto. Lei, signore mio, è stato il mio primo atto da tempo immemorabile. Non che Rosa non lo abbia notato, ma ha creduto di poterci tenere tutti e due sotto la sua ala protettrice. E’ stato un errore. Adesso siamo in due. Colga questa opportunità la prego, salti con me dalla finestra. Non si faccia ammaliare dal potere consolatorio della polvere, si scuota, venga via, c’è bisogno di lei, c’è estremo bisogno di lei nel mondo.
Corsi non aveva capito una parola di quello che aveva detto l’uomo, certo è che dei suoni erano giunti alle sue orecchie ma il significato di quei suoni gli era completamente oscuro. Il suo corpo non si muoveva da un tempo tale che si chiese per un attimo se era esistito un giorno nel passato in cui si fosse mosso o se era sempre stato immobile. La soluzione non era alla sua portata da un punto di vista logico in quanto da un’ottica esperienziale Corsi poteva notare che lo strato di polvere che lo copriva era spesso poco più di un centimetro. Questo dava a intendere che era lì da non più di qualche mese. Beh, se questo era vero allora era lecito ammettere un prima, che non ricordava assolutamente e che poneva altri problemi. Il primo riguardava il cibo: se era stato tanto tempo immobile cosa e come si era nutrito? E, se non si era nutrito, come era sopravvissuto? Perché era chiaro: Corsi non aveva dubbi riguardo al suo far parte del genere umano. In un momento della vita che ora non ricordava se ne era fatto un cruccio ma ora aveva accettato la realtà. E, assodata la sua umanità, come si conciliava l’immobilità? Non poteva infatti negare che fosse totalmente fermo: si concentrò su ogni parte del corpo fino alla più inutile e periferica, per coglierne anche un movimento appena percettibile, ma non trovò nulla a confortarlo. Per settimane era rimasto completamente immobile in un corpo privo di bisogni.
Corsi per natura non poteva prendere in considerazione la possibilità di essere morto, cosa che ogni uomo in salute avrebbe fatto. Tuttavia, come detto, non c’era logica nella sua avventura, e così decise di non costringersi a spiegarla nei particolari. In fondo era lì, poteva sentire suoni provenire dall’uomo che lo aveva salvato e accudito, aveva coscienza di sé, e se fosse riuscito a muovere qualche arto avrebbe forse potuto anche togliersi da quel torpore.
Provò.
E riuscì.
E saltò dalla finestra.
E saltarono dalla finestra.
E furono in strada.
Uno con due piedi e l’altro con quattro zampe. Senza guinzagli ma anche senza parole.
L’uomo dritto pensava Qual è la strategia?
E Corsi pensava Non esiste strada vuota in cui non si possa incontrare qualcuno.
 

Non pioveva più nelle strade. Camminavano con i loro sei arti. A Corsi facevano male le mani e quando poteva si fermava a sciacquarle ad una fontanella. Era forse la prima volta che sentiva questo tipo di stanchezza, e succedeva perché ora la mente non riusciva più a dirigere il proprio interesse sugli oggetti e le piante e gli essere animati e inanimati e i movimenti e le immobilità di tutto ciò che era nel mondo che lo circondava, ma lo guidava in ragionamenti a tratti logici che prendevano forma venivano guidati erano alimentati deviati protratti elaborati dalle parole dell’uomo che lo accompagnava. Quando la voce si soffermava per un attimo su qualche pensiero che potesse ricordare la stanchezza Corsi si fermava e si sedeva a terra quasi come un essere umano e si strofinava le mani. Ne cadeva una pioggerellina di polvere e piccoli sassi che lasciavano il segno sulle palme, prima che Corsi tornasse a camminare. Poi l’uomo riprendeva a parlare e Corsi a pensare come se fosse mosso da una qualche sorta di logica anche se erano più numerose la volte in cui non riusciva a capire il suo stesso pensiero da quelle in cui al contrario gli sembrava chiaro.
Si divisero solo una volta. Erano stanchi e seduti su una panchina in un parco il cui prato continuamente scosceso era uniforme e di un verde intenso per le piogge battenti con grandi alberi che vi nascevano sopra e nessuna persona che lo calpestava. L’uomo pensava e diceva e Corsi si strofinava le mani e pensava, poi l’uomo disse Io devo pisciare e Corsi rimase in silenzio, si sfregò le mani e  si disse Io no. L’uomo continuò: Allora io vado dietro quell’albero, tu aspettami qui e si alzò e fece due passi. Quando si voltò Corsi lo guardava ma quando tornò a camminare Corsi già si era addormentato. Proprio sotto l’albero sul cui tronco aveva pensato di orinare c’era una donna distesa e umida. Non più bagnata, perché ormai non pioveva da un po’, ma umida. Aveva gli occhi chiusi e l’uomo le si avvicinò con i calzoni già sbottonati e la scosse ma la donna non si muoveva allora l’uomo la scosse ancora ma la donna non si muoveva ancora e allora l’uomo la scosse una terza volta e la girò cosicché se prima era su un fianco ora poteva guardarla direttamente in volto e poiché la donna non dava ancora alcun segno le carezzò il viso e disse a bassa voce per svegliarla senza volerla svegliare Signora, signorina, sta bene? e a quella domanda sorprendentemente la donna reagì e senza aprire gli occhi e senza muovere alcun muscolo del corpo e della faccia solo quelli indispensabili a cacciare le parole disse Mi fingo morta. Allora l’uomo che ancora aveva i calzoni aperti cercò intorno un altro albero ma il più vicino era lontano e camminò veloce per raggiungerlo e per frenare lo stimolo che gli premeva. Prima di pisciare fece l’errore di voltarsi verso la panchina: i suoi occhi scorsero da lontano Corsi sdraiato sulla panchina e il suo volto sorrise ma gli rimase tra  i denti una smorfia quando vide che un poliziotto si avvicinava all’amico. C’era sole e caldo e un vento bollente e umido e l’uomo non capì perché il suo volto era improvvisamente bagnato. Tirò fuori dalla tasca un fazzoletto mentre il poliziotto si rivolgeva a Corsi con le sue parole preferite: Maschio, non si può stare qui, non si può dormire sulle panchine. Corsi sentiva tutto e capiva tutto anche se in verità non c’era molto da capire, tuttavia non si capacitava del perché avesse detto “le panchine” dal momento che lui ne stava occupando a malapena una, peraltro in attesa che tornasse il suo compagno di viaggio. Mentre Corsi pensava a quale sarebbe stata la migliore strategia per affrontare l’attacco il poliziotto gli scosse il corpo appoggiandogli il randello sulla pancia ma non fece in tempo a scuoterlo ben bene e a finire di dire Guardi che qui ci vengono i bambini che Corsi con gesto felino agguantò il manganello e se lo strinse con una morsa al corpo e stava quasi per prendere a tremare per la paura e il dolore dei calci e delle mazzate in arrivo che l’uomo arrivò trafelato e disse Agente agente  laggiù c’è una donna distesa sotto un albero che sembra morta ma il poliziotto ci mise un po’ a connettere e a capire cosa stesse accadendo e il più lesto di tutti fu Corsi che aprì subito gli occhi e catturò la fotografia dell’uomo col braccio disteso e il dito indice puntato e lasciò la presa e dimenticò i dolori e la paura e si scaraventò giù dalla panchina e cominciò a correre come un cane arrabbiato verso la direzione di quell’indice e si perse agli occhi dei due dietro un declivio e fu tutto così veloce che il poliziotto rinfoderò l’arma e chiese un po’ retoricamente Ma che era? e l’uomo mentre si sedeva sulla panchina rispose Non avevo mai incontrato una persona così. Il poliziotto fece la mossa di sederglisi accanto e stava per dire E’ qui che si vede l’efficacia del nostro lavoro ma l’uomo senza degnarlo di alcuna considerazione riguardo al suo ruolo si alzò e si allontanò senza voltarsi e poté solo sentire la voce alta da dietro che gli domandava  Ma… quella donna? Poi percepì appena qualche altra parola sottovoce che messa insieme suonava Qui mi sembrano tutti matti.
Nel momento in cui il poliziotto riferendosi a Corsi che correva a quattro zampe chiedeva all’uomo Ma che era, Corsi, seduto con la schiena appoggiata al tronco dell’albero dove l’uomo non aveva pisciato, si sfregava le mani. Poi nel momento in cui l’uomo riferendosi a Corsi e ai momenti passati con lui rispondeva al poliziotto Non avevo mai incontrato una persona così, Corsi, con il culo appoggiato su una radice dell’albero dove l’uomo non aveva pisciato, guardava il volto morto di Urbana. Poi nel momento in cui il poliziotto riferendosi a Corsi e al proprio orgoglio di uomo delle forze dell’ordine diceva E’ qui che si vede l’efficacia del nostro lavoro, Corsi, con le ginocchia appoggiate a terra alla base dell’albero dove l’uomo non aveva pisciato, con una mano ruvida accarezzava il volto caldo di Urbana. Poi nel momento in cui l’uomo si allontanava dalla panchina e il poliziotto confuso dal pensiero di quello che stava accadendo domandava ad alta voce all’uomo Ma… quella donna?, Urbana, con il corpo steso all’ombra dell’albero dove l’uomo non aveva pisciato, apriva gli occhi e incrociava il suo sguardo con quello di Corsi. Infine nel momento in cui l’uomo si era già allontanato dalla panchina e poteva appena percepire le parole del poliziotto che riferendosi a tutta la situazione si diceva Qui mi sembrano tutti matti, Corsi, in una posizione qualsiasi accanto  all’albero dove l’uomo non aveva pisciato, diceva sottovoce:
“Urbana”.
Non c’era più vento. L’uomo vide i due da una posizione che li rendeva belli e addirittura si dimenticò di non aver pisciato. Corsi e Urbana si alzarono e andarono da lui che li accolse entusiasta dicendo Venite, venite di qua e li portò ad un laghetto coi pesci, dove si gettarono e poi si spogliarono nudi e giocarono per ore, forse per mesi con l’acqua un po’ torbida e non pensavano a niente tranne che a guardarsi cambiare le ombre sui volti e sui corpi a seconda degli schizzi e della luce sempre più rossa e poi sempre più flebile del sole. Quando fu buio uscirono dall’acqua e tutti i loro corpi erano una piaga ma le loro bocche avevano sorrisi e quando si rimisero i vestiti fradici sentirono freddo e si spogliarono ancora e rimasero così fino al giorno dopo, senza mai dormire, stesi a guardarsi le gocce di fango scivolare tra i peli e poi a guardarsele seccare sulla pelle e poi a scrostarsi con le unghie dolci e lievi sui capezzoli e sulle facce e dure e profonde sulle braccia e sulle schiene. La mattina asciugò i vestiti, e prima che si rimettessero in cammino l’uomo avrebbe voluto dire Devo andare a pisciare, ma guardandosi intorno in cerca di un albero disse Ma perché non c’è nessuno? Corsi pensò Non c’è strada vuota in cui non si possa incontrare qualcuno e Urbana disse Andiamo. Prima di uscire dal parco l’uomo si fermò ad un tronco tagliato, quando raggiunse i due che non si erano fermati si tirò su rumorosamente la cerniera lampo dei pantaloni.
Erano in strada. In mezzo alla strada. Una persona fortunata li avrebbe potuti scorgere di spalle, mentre si allontanavano. Corsi non si prendeva cura di sé e in assenza di parole altrui occupava la mente cercando di ricordare  una ad una tutte le stelle che aveva visto durante la notte. L’uomo a quattro zampe procedeva con il culo in alto, mentre gli altri due lo incorniciavano ai due lati del corpo e tenendosi per mano sembravano proteggerlo nel caso in cui il cielo gli fosse caduto sulla schiena.
Poi si fermò, gli altri due continuarono per un solo passo sufficiente perché le loro mani superassero la sua schiena e la sua testa che aveva il volto rivolto verso il basso. Si staccarono e si voltarono verso di lui che aveva alzato lo sguardo. Gli occhi dei due erano in quelli di Corsi persi nello spazio tra i loro corpi. Non ci fu alcuna pausa prima che dicesse:
“l’altrastèrio nefìnga amàto e strida a mio seno. inpasto masi collùmo li ormi altistèrici mi si àddono a iose iò nulto vidèo desìdi ai caldii le portio fischi ne gore. feba cannoìa ei nisidèi e strida a mio seno e strida a mio seno artoùde”.
Poi riprese a camminare e i due gli tornarono accanto sicché incorniciandolo ai due lati del corpo tenendosi per mano sembravano proteggerlo nel caso in cui il cielo gli fosse caduto sulla schiena.
I tre procedevano a Ovest. Senza alcuna parola. Corsi piegò la testa e vide sotto di sé un’ombra molto indistinta a cui non era abituato. Il nero sotto di loro gli si allungava davanti in un’unica figura che mutava davvero poco percettibilmente. Stabilì che loro tre insieme erano un unico essere informe proprio come quell’ombra e voleva dirlo a tutti che aveva incontrato qualcuno, che era parte di altri e si eccitò per un momento ed ebbe un’erezione come non gli capitava da così tanto tempo che era una sensazione completamente nuova per il suo corpo e si mise paura e non si fermò ma rallentò il passo e strinse lo stomaco e poi si vergognò un po’. I due che si erano guardati interrogativi per il rallentamento di Corsi non capirono molto ma compresero che sarebbe stato meglio rimanere in silenzio sull’accaduto e solo dopo qualche centinaio di metri l’uomo disse Andiamo a festeggiare e Urbana rispose di sì e Corsi non capiva cosa ci fosse da festeggiare ma non riuscì a dire niente che i due cominciarono a correre e Corsi li guardò allontanarsi e poi con le quattro zampe li rincorse e li raggiunse e poi li precedette tanto che divennero gli altri due gli inseguitori fino a che tutti e tre caddero stremati a terra. Faceva caldo ed era quasi buio perché erano sotto una galleria. Si vedeva la luce uscire dalle aperture dietro e davanti a loro. Erano come due mezze lune appoggiate a terra. Sembravano vicine. Passavano poche macchine e cominciavano a sentirsi dal momento in cui entravano nell’imboccatura del tunnel. Erano assordanti già in lontananza e quando arrivavano nelle vicinanze non ci si poteva non tappare le orecchie con le mani. Corsi non lo faceva perché se ne rimaneva steso a terra come un morto che cerca di recuperare le energie. Gli altri due seduti appoggiati con la schiena al muro stringevano gli occhi e ridevano e cercavano di non farsi invadere la testa dal rumore.
 

Arrivai dalla parte opposta. I due seduti non mi conoscevano affatto e io stesso non li avevo mai incontrati, ma ebbi l’impressione di riconoscere nella massa a terra il corpo di Corsi. Ho ancora nella mente quel momento: una macchina appena uscita dal tunnel lasciò velocemente spazio al silenzio, io mi fermai e girai il volto verso l’uomo e la donna seduti che lentamente e con perfetto sincronismo rilasciarono i muscoli delle loro facce e allontanarono le mani dalle orecchie e aprirono gli occhi e la prima cosa che misero a fuoco fu la mia figura che era sul marciapiede opposto. Ci fu un silenzio imbarazzato e solo per questo la mia attenzione si spostò su Corsi che ancora era immobile a terra. Ci fu un tempo non misurabile in cui tutti rimanemmo fermi e non passarono macchine e non si videro persone e non si sentì alcun genere di suono nell’attesa che fosse Corsi a riempire il vuoto dal quale eravamo circondati.
Ma Corsi non si muoveva e non dava segni di vita alcuna.
Mi sorprese il fatto che non avesse gli stessi vestiti che portava l’ultima volta che lo avevo visto nel parcheggio sotterraneo e che non fosse circondato da quell’odore acre che mi era rimasto nel naso per mesi dopo il nostro ultimo incontro. Ma non ci fu spazio per pensare a cosa gli era potuto succedere perché la mia attenzione cominciò a cercare il più infinitesimale movimento del suo corpo. Non posso dire se gli altri due stessero facendo lo stesso perché non avevo possibilità di distrarmi. Fui attratto prima dal corpo intero di Corsi, poi dai suoi arti, poi dalle mani nude perché forse avrei potuto ravvisare lì un qualche spostamento. Tenevo fisso lo sguardo tanto che mi facevano male gli occhi nel tentativo di non battere le ciglia ma non riuscivo a notare alcun cambiamento di stato e allora mi concentrai sulle labbra e sul respiro ma ero troppo lontano per questo e non volevo avvicinarmi perché non potevo rompere il silenzio e allora mi concentrai sugli occhi e le pupille coperte dalle palpebre che tuttavia non tradivano segno di vita.
Poi la mia attenzione e quella degli altri due fu distolta e in tre gesti identici e paralleli voltammo di scatto le nostre teste verso l’apertura da cui ero arrivato io. Pioveva di nuovo. Così forte che l’umido che si era creato con la pioggia che era già caduta si risvegliò e trasudò dalle pareti della galleria e la prima goccia che cadde non riuscì ad arrivare all’asfalto perché si infranse sulla fronte di Corsi i cui occhi ebbero un sussulto e fu solo allora che entrò una macchina col suo boato mentre dalla parte opposta entrava una coppia di innamorati. Venivano da dove ero giunto io ma nessuno ci fece caso perché tutti e tre andammo a soccorrere Corsi che era strisciato a terra fino ad appoggiare la sua faccia alla roccia della parete e aveva tirato fuori la lingua per leccare l’umido che trasudava. Io conosco quest’uomo dissi ai due mentre tenevamo a fatica il corpo esausto di Corsi sollevato alla ricerca di qualche goccia che potesse dargli sollievo. Urbana rispose immediatamente Anch’io mentre l’uomo rimase concentrato sul suo sforzo per un po’ e solo quando poté rilassarsi mi guardò e disse Anch’io.
Arrivarono due innamorati e non si fermarono a guardare la nostra fatica ma ci vennero incontro correndo. L’uomo grosso e anziano aveva in una mano la mano dell’uomo alto e magro e nell’altra mano una lattina di birra che mise subito sotto le labbra di Corsi che bevve avidamente. Poi l’uomo alto e magro tirò fuori da una tasca un pezzo quadrato di cioccolata. Disse Io sono Ca e Corsi mangiò. Poi l’uomo grosso e anziano disse Io sono Remo, stiamo andando di là e indicò con un braccio e un dito distesi l’apertura dalla quale erano arrivati i tre e verso la quale anch’io ero diretto. Prima che Urbana e l’uomo potessero rispondere qualcosa Corsi domandò “Perché tornate indietro?”.
 

Seguimmo Corsi per tutta la galleria fino ad un tombino poco prima dell’uscita. Corsi ci girò intorno un paio di volte e si fermò solo quando Remo disse Ho fatto il carpentiere. L’uomo grosso e anziano piegò il suo corpo pesante sulla grata rimanendo con i piedi sull’asfalto. Non sembrava possibile che potesse rimanere in equilibrio. Afferrò con le mani i bracci di ferro e dopo qualche secondo con un unico sforzo liberò l’apertura. C’era una scala. Fu un problema portare Corsi di sotto: toccò imbracarlo in una coperta fatta con i nostri vestiti annodati e calarlo lentamente giù per il passaggio. Era completamente buio. E stretto. Corsi non aveva problemi per la posizione naturale in cui camminava e doveva aspettarci più volte. Le nostre voci sarebbero rimbombate se qualcuno avesse parlato ma l’unica cosa che sentivamo era il rumore dell’acqua e dei passi. Ca estrasse dai pantaloni altra cioccolata e tutti ne mangiammo un po’. Ad un altro tombino Corsi ripeté la sua danza e Remo le sue parole e la sua esibizione e noi tutti la preparazione della coperta ma Corsi così com’era si gettò di sotto e atterrò sulla cappotta di una macchina abbandonata lì da chissà quanto. Lo seguimmo in quello spiazzo sotterraneo che una volta era stato il mio parcheggio.
“Nantistèrni sottomanni d’alghe ante a tabbàccioli te macca, asopèto ato mollo mullo e no conchi avvia ala partéte do do. Tronfi cernecchi  e no no e nonnò siddò micca fu, Urba”. Queste furono le parole di Corsi mentre scendeva dal cofano e noi lo seguivamo, e mentre girava intorno alla macchina e noi lo imitavamo. Pensavo alle mie pupille inadatte a quel buio eppure così generose da dilatarsi a dismisura mentre Corsi forse ci diceva qualcosa ma i suoi suoni i pensieri di ognuno le domande lo strusciare dei pantaloni i piedi sulla cappotta o sul cofano o sull’asfalto vennero interrotti senza appello da un rumore inatteso e da Urbana che si affrettò a dire C’è qualcosa qui e poi forse si piegò a tastare e tutti la immaginammo cercare con le mani protese e il corpo piegato in avanti ad occhi aperti come se avesse potuto aiutarsi con la vista e dopo pochi secondi disse Forse una lampada. Era la mia e dissi E’ la mia. L’uomo che una volta aveva incontrato Corsi mentre beveva acqua e fumava aveva ancora molti Minerva ma nel serbatoio era rimasto così poco olio che a malapena arrivammo alla mia saracinesca che Remo il carpentiere aprì perché dietro tra le altre cose abbandonate c’era una tanica di liquido buono a fare la luce. Corsi fece ancora strada e dopo un pezzo di cioccolata arrivammo al suo rifugio.
La natura se ne era quasi completamente rimpossessata. Sui muri fradici d’acqua si erano insinuate muffe e funghi e delle specie vegetali che odiano la luce. Abbarbicate tra le spaccature aperte nel cemento armato erano le nuove regine e i nuovi re, adesso. Non le toccammo e non le guardammo, solo facemmo loro un po’ di dolore con la lampada ad olio.
Ah, che buffo. Ora che scrivo di quel momento non posso di nuovo fare a meno di romanzare quello che è realmente accaduto: gli istanti in cui tutti alla poca luce ci siamo avvicinati l’uno vicinissimo all’altro al muro, i nostri sguardi confusi nel vedere quelle specie di alghe che chissà per quale strada erano arrivate a conquistarlo, gli occhi di ognuno di noi che si muovevano in direzioni differenti verso un richiamo ignoto, l’odore di tabacco che mi riportava alla mente i giorni delle chiacchierate con Corsi, la scoperta delle parole che quel tabacco formava sul muro, il suono della voce di Urbana che le cominciava a leggere, la musica che ne usciva e che ci cospargeva tutti.
Eh, no. Non potrò proprio fare a meno di essere soggettivo anche nel riportare su pagina quello che trovammo scritto con il tabacco masticato sulle pareti del rifugio di Corsi. Le parti che non ricordo o che ricordo male o che ricordo mutilate o che ricordo illeggibili perché coperte dalle piante le inventerò con l’accortezza di metterle tra parentesi quadre.
 

“Finalmente riesco a sopportarne il sapore, del tabacco. Era mio nonno che ne usava in quantità inimmaginabili. Ne aveva scorte per anni ma masticava sempre il più fresco. Nella vecchiaia si era rifugiato in casa e le sue occupazioni erano consumare tabacco e scaracchiare nelle sputacchiere.
Quando è morto la casa era appestata.
Io e mio fratello che eravamo bambini portammo in cantina sedici scatoloni pieni di tabacco vecchio forse di decenni, in attesa di prendere una decisione sul da farsi. Una decisione che nessuno si era mai accollato prima. Svuotammo la casa. I mobili erano inservibili per l’odore che mandavano.
Da quando lo conoscevo, mio nonno non l’avevo mai visto aprire una finestra. Neanche quella del bagno. A lungo mi sono domandato la ragione della sua vita. Dei suoi atti senza prospettiva. Aveva reinterpretato il mondo intorno a lui secondo i bisogni e desideri più primordiali. Ma poi aveva finito per crepare e sprecare tutto.
Alla sua morte io e mio fratello buttammo tutto. Lavammo e dipingemmo i muri e cambiammo i pavimenti. Ma non ci fu nulla da fare: chiunque entrava in quella casa, anche dopo mesi dalla ristrutturazione, si tappava il naso e scappava fuori. Noi la vendevamo a basso prezzo ma i clienti se ne andavano ancor prima di vederla. Anche io odiavo quell’odore. Era acre e pesante e ti entrava nel naso. La casa è ancora lì. Forse. Il tabacco è rimasto in una cantina dimenticato dai ricordi di tutti. Ma quando ho cominciato a vomitare ogni volta che mi sentivo parte del mondo il vecchio pazzo mi è tornato su con un conato vuoto, e l’ho odiato per essere andato via senza avermi cercato, per aver fatto una rivoluzione personale.
Allora quel tabacco l’ho portato qui e ho imparato a masticarlo ed è ancora peggio di come potessi immaginare perché quello più vecchio si è mischiato alla muffa e il sapore che rilascia è per veri maschi. Ho imparato anche a fumarlo. Lo chiudo nelle pagine fine di una bibbia che qualcuno mi regalò e io non ho mai letto ma per scrupolo ho sempre portato con me. Finalmente si rivela utile. Ogni oggetto ha il suo tempo.
Ora mastico e attacco i boli al muro.
Fumo e spengo i mozziconi sul muro.
Ogni bolo ed ogni mozzicone spento mi aiutano a disegnare una lettera cosicché non mi sento troppo solo in questo rifugio in cui sono venuto a dimenticarmi. Scrivo. Come ho sempre fatto, in fondo. Scrivo qui da 1419 resti di [tabacco. Ne ho avuti di stupori. Ma ho sempre camminato eretto. Tutto ciò che ho intorno mi ha allappato ed è per questo che mi prendo altri tempi e altri sapori. Me ne sto anche fermo ad ascoltare la fame mentre il mio maiale si trangugia suo padre. Me ne sto anche fermo a sentire il tempo passare senza che possa colpirmi. Qui sotto non ho tempi e] priorità, non ho [parole se non quando uno strano uomo con due ciuffi biondi ai lati del cranio viene a trovarmi con una lampada ad olio. Voglio dimenticare il ricordo ma prima devo ricordargli che viviamo su morti che facciamo ogni giorno.
Che stupido. Ho detto all’uomo buffo che ho subito un abbandono. Non che l’abbia desiderato, ma l’ho fatto.
Ho scelto e basta.
I sentimenti non c’entr]ano.
Reprimo fino a dimenticare la curiosità avida. Del fuori di qui.
Non mi domando più che ne sarà del mondo, delle sue strade vuote di gente.
No non voglio morire ma rinascere e decidere il mio destino. Con altri perché non c’è strada vuota in cui non si possa incontrare qualcuno. Ho fiducia negli uomini, non nel genere umano che detesto. Trotterello intorno, gli occhi si sono abituati al buio fosco, le parole no al silenzio. Ma dalla mia parte ho il tempo.
Per chi registro il mio passa[to? Per altri un giorno. Per l’uomo che viene qui. Ma non mi lamento. Ho ancora Bob che mangia con me i resti del padre di Bob.
Ho un dubbio: dove andranno i miei ricordi quando li avrò dimenticati]? Quello a cui non penso più da tempo si è rifugiato. Ne ho paura. Ma mi costruirò, mi edificherò. Con il fare.
Forse ho offeso l’uomo della lampada ad olio perché a lungo gli ho riso davanti senza riuscire a parlare. Ma mi sono reso conto che la sua presenza mi porta ricordi e coscienza. Me ne libererò la prossima volta che ver... me ne sono liberato, l’ho semplicemente cacciato via. Me ne duole ma ho bisogno di dimenticare e per farlo devo essere libero. Le scorte stanno per finire. E’ arrivato il momento di macellare Bob e l’ho fatto senza passione. Lo sapeva. Ne era certo anche più di me che sarebbe successo. Questo è stato il mio ultimo assassinio.
Qui [sotto devo scrivere a quattro zampe, tanto vale rimanere così: ho tutto a portata di mano. Ci sarebbe spazio per tutte le casse di tabacco su questo muro, ma presto smetterò perché scr]ivere comincia a darmi nausea. ”.
 

La voce di Urbana era calda mentre tutto il resto era freddo e umido. Corsi era seduto a terra a gambe stese e rivolto lontano da ogni sguardo. Urbana si interruppe per un po’ poi disse Il resto è solo muschio e funghi. Quando ogni suono fu ristagnato nell’umidità Ca disse Io sono un dottore. Specialista nell’inseminazione artificiale.
Fu davvero sorprendente perché la macchina ancora funzionava perfettamente. Salimmo tutti e sei, uscimmo dalla saracinesca scardinata da Remo, arrivammo all’ascensore che ci portò in superficie, aprii il cancello con la chiave che ancora avevo e ci lanciammo in strada.
L’aria aveva un bel profumo. Tenevamo tutti i finestrini aperti e ci pioveva addosso. Faceva caldo. Ca parlava e noi lo ascoltavamo:
FIV-ET GIFT GIFTr ZIFT ZIFTr TET AID IUI OVD PZD SUZI ICSI o Iniezione intracitoplasmatica con micromanipolatore guidato al microscopio che tiene all’estremità di una pipetta un ovocita, uno, un uovo di persona che è ancora mezza cellula a cui iniettare l’altra metà, un singolo spermatozoo, uno, che passa in un microago sette volte più sottile di un capello.
In genere un eiaculato di sperma contiene oltre duecento milioni di spermatozoi. Solo qualche centinaio di questi è in grado di raggiungere la sua meta ed uno solo sarà innalzato al ruolo di fecondatore. Che selezione per un incontro amoroso! La strada è affollata ma può essere  troppo tortuosa per solo duecento milioni di mezzi esserini a volte troppo deboli anche per una strada agevole. Capita che la scelta sia quella di incontrare e di ricevere e che a mancare sia la capacità. Qui entro in scena io. Ah, quello che amo: ovuli e spermatozoi vengono preparati all’incontro, portati fuori dei loro ambienti naturali nei quali non erano stati all’altezza di raggiungersi, quindi vengono messi assieme in una zona franca e lì lasciati soli.
Io ho scelto questo lavoro.
Ho scelto di migliorare Dio nel settore nascite. Lo scotto da pagare è la difficoltà delle parole da usare: dopo sedici ore ovociti e spermatozoi vengono esaminati al microscopio per valutare l’avvenuta fertilizzazione. Gli zigoti sono quindi mantenuti in coltura per altre ventiquattro ore prima di operare il trasferimento transvaginale o intratubarico di non oltre quattro embrioni i quali, una volta deposti, continuano la loro evoluzione verso un nuovo essere umano. Beh, l’inseminazione artificiale di per sé è una tecnica antica: masturbarsi, raccogliere lo sperma, deporlo in qualche modo nelle vie genitali femminili, magari con un tubicino come ha fatto il dottor Hunter. E’ stato così che ha ottenuto il primo figlio non provocato da un rapporto sessuale. Il primo1799 anni dopo l’unico precedente conosciuto. L’allievo supera il maestro.
 

Ca aveva parlato. Tutti lo avevano guardato mentre io stavo attento alla strada. A Corsi sembrava  strano che non ci fosse nessuno in giro perché se Ca faceva veramente quel lavoro allora esistevano persone che desideravano così intensamente un figlio da impegnarsi per averlo anche a dispetto della loro incapacità a concepirlo. Guardando fuori dal finestrino su cui si infrangevano le fitte gocce di pioggia avrebbe voluto incrociare lo sguardo di qualcuno per cercare di capire la sua provenienza ma dopo un’inutile attesa la sua attenzione fu carpita dalla considerazione che quella che stava cercando di portare avanti era un’indagine non solo inutile ma stupida per il semplice fatto che lui stesso avrebbe potuto essere stato concepito in provetta e se qualcuno glielo avesse domandato avrebbe risposto di no di primo acchito ma poi ripensandoci avrebbe detto di non saperlo e che comunque non gli interessava saperlo. Si rimise a guardare la strada con il solo puro intento di  incrociare una qualche persona. L’uomo di cui ancora non si conosceva il nome e di cui nessuno mai conobbe il nome disse Voglio scendere a fare una passeggiata e io lo lasciai scendere e quelli dietro in tre rimasero più larghi anche perché non era stato possibile stare in due sul sedile davanti in quanto lì c’era Corsi che se ne stava raggomitolato in una posizione che non sono in grado di descrivere. Continuammo in cinque e poco dopo restammo in tre perché anche Ca e Remo dissero Voglio scendere a fare una passeggiata e Voglio scendere a fare una passeggiata cosicché quando fummo solo io Corsi e Urbana nella macchina dissi Voglio scendere a fare una passeggiata e fermai la macchina e scesi e anche Urbana scese e anche Corsi avrebbe voluto scendere ma i suoi movimenti erano lenti e maldestri e goffi e inutili. Portava i vestiti che l’uomo gli aveva dato in prestito. Solo ora rivelavano la loro inadeguatezza. Le scarpe erano troppo grandi e i pantaloni troppo corti. Vi aveva ovviato infilando l’orlo nelle due paia di calzini, il primo dei quali gli arrivava fin quasi al ginocchio, mentre il secondo si fermava a metà polpaccio.  Ma non era questo ad inficiare le sue possibilità di movimento nella macchina. Sopra indossava una camicia ed una cravatta che l’uomo una volta gli aveva annodato quando ancora erano nella casa e sulla camicia portava un lungo pastrano che in verità non era dell’uomo. Tuttavia Corsi lo considerava alla stregua degli altri vestiti ed era chiaro che mancando la presenza del suo proprietario non si sarebbe preso la libertà di toglierli e lasciarli incustoditi. Non era bastato che l’uomo avesse mostrato il desiderio di non riaverli indietro e quindi di regalarglieli. Lui continuava ad essere fermamente intenzionato a restituirli e non poteva permettersi di perderli. Non c’era dubbio che il suo problema a muoversi sul sedile era il pastrano. Era troppo lungo per Corsi ma nell’atto del camminare, vista la sua posizione, non gli era di ingombro. Nella macchina però ogni movimento risultava impossibile perché per uscire era deciso a mettersi a quattro zampe. Questo gli sembrava consono e logico e continuava a sembrargli consono e logico anche quando cominciò a legarsi col suo soprabito ed era questo il motivo per cui continuò a girarsi e rivoltarsi e legarsi nella macchina, fino al momento in cui divenne così stanco che dimenticò il fatto stesso di aver desiderato scendere e dopo una fase di disorientamento rimase sul suo sedile e si addormentò e dormì per alcune ore.
 

Nel sogno ha un camice bianco. Sta in piedi.
C’è rumore di acqua, la pioggia entra dalla portiera. Lo fradicia.
E’ in una stanza vuota C’è una vasca da bagno. Fa caldo. C’è rumore di acqua. Si affaccia per guardare nella vasca, sommersa c’è una donna adulta che respira e fa le bolle.
Tutti raggiungiamo la macchina. Lentamente. Fa caldo. Siamo zuppi.
Corsi infila la mano nella vasca e prende il polso della donna. Lentamente. La alza. Lei si siede sul bordo. Silenzio.
Smette di piovere. Silenzio. Ora non ci sono più rumori, solo una voce. E’ Corsi che bisbiglia.
La donna porge la mano aperta a Corsi. Ora non ci sono più rumori, solo una voce dice Piacere dottore. Louise Brown.
 

Io, Corsi con il sogno di Louise Brown, l’uomo, Urbana, Ca e Remo continuammo a camminare fino all’alba successiva. Corsi faceva avanzare prima la mano destra, poi il piede sinistro, poi il piede destro, poi la mano sinistra, poi la mano destra, poi il piede sinistro, poi il piede destro, poi la mano sinistra. Non andavamo in nessun posto né andavamo in cerca di qualcuno ma da come camminavamo, da come ci ignoravamo ci guardavamo ci seguivamo ci aspettavamo ci toccavamo ci calpestavamo ci allontanavamo ci univamo ci legavamo ci sorpassavamo ci scaldavamo era chiaro a tutti quelli che ci incrociavano che non c’era strada vuota in cui non si potesse incontrare qualcuno. La mattina aveva riportato un po’ di animazione attorno a noi. Ci dividemmo. Io, Ca e Remo tornammo al nostro lavoro in città. Corsi, l’uomo e Urbana proseguirono dritto. L’uomo a quattro zampe procedeva con il culo in alto, mentre gli altri due lo incorniciavano ai due lati del corpo e tenendosi per mano sembravano proteggerlo nel caso in cui il cielo gli fosse caduto sulla schiena.
 

Ci dividemmo ancora.
Allungai la strada per trascorrere i minuti. Il prato era vuoto ma stavolta mi sedetti ai bordi del verde. Dalla panchina potevo vedere il sole alzarsi. Da un’altra parte la luna perdeva di vigore. Le nuvole si muovevano e cambiavano colore, andavano verso il bianco e si stagliavano sempre più sull’azzurro. C’era un randagio sporco che dormiva sotto una panchina lì vicino. Non si curava di essere fradicio. Steso di lato, muoveva a scatti la parte finale delle zampe, come se in un qualche sogno stesse danzando sull’acqua. C’erano aceri che coloravano di rosso l’orizzonte e coprivano parte della visuale. Era bello immaginare cosa ci fosse oltre. Passò un uomo con una vecchia a braccetto. Parlava solo lui. Le parlava. Lei lo guardava. Si misero seduti sulla panchina del cane, che aprì appena gli occhi e dopo pochissimo ricominciò la sua danza. L’uomo da lì mi salutò con un cenno del capo. Io risposi togliendomi il cappello. Un bambino mi passò davanti correndo con uno zainetto sulle spalle. Lo seguii da destra verso sinistra. Quando lo persi tornai al mio orizzonte con gli aceri e vidi che l’uomo con la vecchia erano in piedi e camminavano a braccetto in mezzo al prato. L’aria era pulita e i due erano certamente lì per respirare e guardarsi attorno. Il cane della panchina li precedeva e quando i due si fermavano anche lui si fermava e gettava un occhio dietro a controllare la situazione.
Dal porfido evaporava l’acqua della notte. Non viste si aprivano piccole crepe.
 
  1