corsi
Non c’è strada vuota in cui non si possa incontrare
qualcuno, così si ripeteva Corsi mentre attraversava la strada senza
guardare a sinistra, senza guardare a destra. Ah, davvero non se ne curava,
tant’è vero che più di una volta aveva rischiato di essere
investito da quei bolidi senza volti che corrono proprio da sinistra verso
destra.
Una volta sì, guardava bene, prima da una parte
poi dall’altra, e passava solo quando era sicuro che non arrivava nessuno.
Ma adesso non lo faceva più. Non che fosse scemato
il suo amor proprio, questo no, ma era come se non ce ne fosse più
bisogno. Era così da molto ormai, si direbbe da un giorno preciso,
ma non se ne potrebbe esser certi, visto che era passato un lasso di tempo
abbastanza grande da far sì che la memoria avesse compresso quell’informazione
in uno spazio troppo lontano dalla coscienza, nella mente di Corsi. Camminava
a quattro zampe. Un giorno che doveva essere lontanissimo aveva cominciato
ad andare in giro così, e a tratti si chiedeva se c’era stato un
momento nella sua vita in cui era stato eretto, come le altre persone che
gli era capitato di vedere. Eh sì, si diceva in attimi di lucidità,
la mia memoria è davvero breve, non ricordo più nemmeno se
io…
Ormai camminava a quattro zampe e basta. Capitava anche,
perché la giornata è lunga, che gli venisse il dubbio che
forse avrebbe potuto usare qualche altra parte del corpo come arto: questo
avrebbe facilitato il suo passo e pigro com’era gli avrebbe risparmiato
un po’ di energie. In verità a volte gli sembrava strano che tutti
ne usassero due e lui quattro, così per pigrizia come gli veniva
quel pensiero allo stesso modo giungeva il momento in cui smetteva di porselo.
Ora, sebbene procedesse a quattro zampe da un tempo che
gli risultava immemorabile, chiunque lo incontrasse non poteva fare a meno
di trovarlo goffo. È ovvio che per lui ogni movimento risultava
perfettamente naturale, ma un occhio esterno poteva cogliere la fondamentale
mancanza di logica che animava tutti i suoi gesti. Faceva avanzare prima
la mano destra, poi il piede sinistro, poi il piede destro, poi la mano
sinistra, poi la mano destra, poi il piede sinistro, poi il piede destro,
poi la mano sinistra. Purtroppo ad ogni movimento non corrispondeva un’eguale
velocità di esecuzione ed è proprio per questo motivo che
Corsi risultava sgraziato alla vista. Per non dire sgradevole. Mentre procedeva
rimaneva con la testa immobile davanti a sé. Muoveva incessantemente
le pupille in ogni direzione. In questa maniera era aggredito da una quantità
innumerevole di indefinite informazioni, che venivano tutte velocemente
elaborate dalla sua mente ed espulse in modo altrettanto lesto fuori dalla
bocca che aveva sempre spalancata. Nel far questo non si può dire
che emettesse suoni di alcun genere, perché Corsi non parlava, tuttavia
qualcosa doveva pur uscirgli dal petto!
Certo è che la sua andatura e il suo pensiero
gli venivano non poco in aiuto nel prendere in considerazione aspetti della
realtà a cui nessuna persona di questo mondo mai si degnerebbe di
porre la benché minima attenzione. In verità il motivo principe
per cui parliamo di Corsi è proprio il suo modo transitorio di sentire,
tuttavia, e mi dispiace dirlo, non ci soffermeremo mai ad analizzare queste
percezioni del reale perché solamente lui sarebbe in grado di dirne
qualcosa, e purtroppo ha smesso di parlare da un tempo lungo abbastanza
da aver dimenticato il fatto stesso di avere un giorno, forse, parlato.
Al momento del suo ingresso la mente di Corsi era un
grande scolapasta, i cui fori da un lato permettevano l’entrata di informazioni
e dall’altro lasciavano che si perdessero nel vuoto. C’erano pensieri che
lo accompagnavano per giorni e poi lo abbandonavano definitivamente, ed
in quel momento l’unico pensiero che sembrava appartenergli era che
non c’era strada vuota in cui non si potesse incontrare qualcuno.
D’altra parte ad ogni nuovo incontro non poteva dire
o raccontare nulla dei suoi incontri precedenti, perché non era
in grado di parlare e perché non ne ricordava nulla; in verità
non poteva nemmeno essere sicuro di averne avuti, tuttavia è innegabile
(e anche lui stesso si guarderebbe bene dal porre in discussione questa
affermazione) che abbia avuto degli incontri.
In quei casi Corsi aveva un comportamento standard. Non
aveva dimestichezza, e comunque non rispondeva mai agli Scusi o ai Senta,
e non voltava nemmeno gli occhi quando lo chiamavano Maschio o Giovane
o Giovanotto o Aoh o Bello o Piccolotto o Pss o Ciccio o Coso o Tizio o
Uomo o Capo o Stronzo o Nonno o Maestro o Cagnaccio o Pezzo di merda. In
tutti gli altri casi alzava lo sguardo con occhi interrogativi, o almeno
questa era la sua impressione. I saluti gli piacevano più di ogni
altra cosa, e diventava quasi implorante di altre parole davanti a Buongiorno
o Salve o Ciao o Buona giornata o Buonasera o Hello o Benvenuto o Buondì,
ma era sempre indeciso quando qualcuno esordiva con Buongiorno, scusi o
Ciao, senti o Coso, senta o Buonasera giovanotto o Ciao maschio o Salve
capo o con qualche altra combinazione di saluto e appellativo.
Corsi non potrebbe giurarlo ma i vigili urbani di solito esordivano con Senta ed è sostanzialmente per questo che non aveva mai avuto un buon rapporto con loro. Beh, non era certo che sarebbe stato sempre così. Lui né giudicava a priori né si permetteva di esprimere giudizi su alcuno a posteriori, anche se era stato avvicinato con un Senti o Scusi o Aoh o Giovane da un vigile urbano. E nemmeno gli andava mai di arrampicarsi sui muretti, anche se qualche volta decideva di investire una certa quantità di energie per raggiungere una nuova postazione da cui guardarsi intorno.
Il vigile urbano gli si avvicinò quando era salito
da appena qualche minuto e gli disse qualcosa che Corsi non sentì.
Si era da poco addormentato. Era stato raggiunto dalla voce perché
il sonno era ancora debole, ma il significato delle parole di certo no.
Comunque ormai era sveglio quando il vigile urbano gli andò più
vicino e disse Buongiorno, sono un vigile urbano, lei non può stare
qui. Aveva capito bene, non poteva avere dubbi che avesse esordito con
buongiorno. Aveva anche capito che qualcuno lo stava cacciando, ma ormai
non poteva più fermare il riflesso che era scattato dopo la parola
buongiorno: alzò lo sguardo. Il vigile urbano, che era una donna,
ripeté: Mi capisce? Sono un vigile urbano.
Corsi avrebbe voluto domandarle perché, se era
una donna, il suo nome era Urbano e non, per esempio, Urbana, come sarebbe
stato logico, ma non poté che porre questa domanda a se stesso e
poiché non ebbe risposta alcuna prese la decisione che da quel momento
in poi ogni volta che la donna avesse detto il suo nome al maschile lui
avrebbe capito, com’è giusto, al femminile. Il vigile Urbana gli
chiese Si sente bene? Ha qualche problema? Vuole che chiami un’ambulanza?
Per tutta risposta Corsi tentò di scendere dal muretto, ma poiché
non era abituato a movimenti bruschi crollò rovinosamente a terra
rimanendo per alcuni minuti steso su un fianco. Il vigile Urbana tentò
di soccorrerlo ma Corsi La scalciò con tutta la sua forza. Urbana
provò un dolore lancinante alla bocca dello stomaco e non disse
nulla, solo rimase a distanza. Davanti a loro c’era una grande piazza vuota
e sopra di loro un sole giallo e grande che mandava un tiepido venticello.
Era tutto bello, ma Corsi aspettava il momento in cui sarebbe successo
qualcosa. Non sapeva cosa perché non aveva memoria, ma il corpo,
che non aveva ricevuto nessun ordine dalla ragione, si rattrappì
fino a chiudersi completamente.
Poi le sue gambe, le mani, i gomiti, lo sterno, i fianchi,
le tibie, lo stomaco, i coglioni, la faccia, le cosce, le ginocchia, gli
occhi, i piedi, le dita, la testa, la schiena, i polmoni, il collo, il
fegato, la bocca, il pene, i polsi, le anche, le orecchie, la gola, il
culo cominciarono a dolergli come se in quell’istante venissero colpiti
da calci di stivali a punta. Poteva anche ascoltare frasi e parole che
non era sicuro di aver già sentito prima e le lacrime cominciarono
a scendere dai suoi occhi, ora serrati e immobili, fino a formare una piccola
pozzanghera salata accanto al suo volto. Il vigile Urbana era piegata su
se stessa ad un metro da lui.
Nessun altro era nella piazza.
Nessun altro si avvicinava.
Nessun altro.
Nessuno.
Nessun altro
parlava.
Non sono una persona non so dare calci ho scarpe bucate
e unghie recise che non crescono oggi e non crescono più. Ho una
testa molle e muta che non è mai uguale e ha smesso di parlare.
In compenso… Sì in compenso la mia bocca ha sì parole tutte
belle e profonde e io non le capisco mai perché vengono fuori veloci
più veloci anche delle macchine che mi passano accanto una sola
volta in tutta la storia del mondo.
Ma qui ora nessuno parla.
Nessuno.
Nessuno ci parla.
Tu resti qui davanti in un silenzio rattrappito.
E’ un’estate calda più calda del solito e io mi
annoio con la mia famiglia. Non sono ancora come adesso. Poi arriva il
terremoto e muoiono tutti, anche io credo di morire in un primo momento,
poi ci ripenso perché mi sembra tra le macerie di poter muovere
le mani. Dormo a lungo: la scossa mi ha messo una grande stanchezza. Forse
un giorno intero. Mi sveglio. Sto un po’ meglio ed è sempre più
probabile che stia ancora vivendo. Ma è certo. Per ore non parlo
e cerco di muovere gli occhi. Questa operazione va a buon esito, anche
se non vedo nulla. Cecità? Ero in cucina: sono le prime parole che
pronuncio. Continuo: è tutto crollato, ci deve essere stato un terremoto.
Non sento niente, né dolore né voci, è strano, posso
muovermi. E davanti a me c’è qualche centimetro prima della porta.
Tocco su. Deve essere un tavolo rovesciato che si è appoggiato al
termosifone e al frigorifero. E’ obliquo. Sono sotto una mansarda confortevole.
Mi ci vuole un po’ per capire. Fa caldo e ho sete. Penso che forse morirò.
Il frigorifero. Davvero incredibile: posso muovermi. A quattro zampe o
strisciando provo ad aprire la porta, ma è bloccata dai detriti,
dalla calce, dai mattoni, dai pezzi di ferro, da un peluche, da un pezzo
di gamba, forse la coscia di mio nonno. Non riesco a provare sentimenti,
devo pensare a me. Levo il peluche e quasi mi crolla tutto in testa. Capisco
che devo procedere più cautamente. Scavo con le unghie che sono
lunghe. In questo modo funziona. Non mi sembra di liberare spazio ma in
compenso le unghie si accorciano. A un certo punto sanguinano, ma io non
pensavo che le unghie sanguinassero. E invece sì. Poi capisco che
sono le dita. Mi fanno male. Comincio a leccare il cemento. Si ammorbidisce
e posso portarlo via dolcemente col palmo della mano prima che il calore
secchi l’umido della saliva. Scavo. Arriva il momento in cui posso aprire
la porta del frigorifero. Forse una fessura di cinque centimetri. Ficco
la mano fino al polso. La prima cosa che mangio è uno yogurt. Grazie
mamma per aver fatto provviste. Cerco di immaginare quanto tempo posso
andare avanti. Sorge subito un problema. Non sono più in grado di
chiudere il frigorifero è non c’è corrente elettrica. Per
qualche ora la mansarda diventa gelata, poi i muri crollati restituiscono
un calore prima piacevole e poi asfissiante e io capisco che alcuni cibi
non dureranno a lungo. Frugo e trovo una bistecca di manzo. La mangio cruda.
Poi tutto quello che posso tirare fuori lo metto a terra, davanti a me.
Tocco ripetutamente ogni alimento. Mi rassicura moltissimo. Dormo per alcune
ore. Vivo così per il tempo che è sparito. Non ci sono più
intermittenze nel mio esistere, non ci sono più curve ma solo una
lunga linea di cui non mi curo di cercare la fine, e che si spezza da sola
quando vedo improvvisamente entrare un filo di luce. E’ come una lama negli
occhi. Grido. Sento delle urla di gente ma non capisco niente perché
penso solo alla mia non cecità. Qualcuno dopo un po’ mi tira
fuori e uno chiede Come sta e io rispondo Non lo so, forse ho mangiato
troppo. Non si preoccupi signora, ora andrà tutto bene. E pensare
che nessuno al mondo mi aveva mai chiamato signora. Neanche io. Ho sempre
fatto di tutto per parlare di me in un modo completamente asessuato. Ed
è difficile con questa lingua che mi è toccata. Quest’uomo
invece mi ha chiamato signora. Non ci crederà ma questo fatto ha
cambiato la mia vita. Mi ha fatto sentire una donna, mi ha dato fiducia,
forza, una sicurezza che mai mi era appartenuta prima. Corsi era rimasto
concentrato sui suoi dolori fino quasi alla fine del racconto, poi aveva
sentito le parole da Uno chiede come sta e io rispondo non lo so, forse
ho mangiato troppo. Non si preoccupi signora, ora andrà tutto bene.
E pensare che nessuno al mondo mi aveva mai chiamato signora. Neanche io.
Ho sempre fatto di tutto per parlare di me in un modo completamente asessuato.
Ed è difficile con questa lingua che mi è toccata. Quest’uomo
invece mi ha chiamato signora. Non ci crederà ma questo fatto ha
cambiato la mia vita. Mi ha fatto sentire una donna, mi ha dato forza,
una sicurezza che mai mi era appartenuta prima.
Corsi pensò due cose contemporaneamente. La prima
era che sì, forse aveva mangiato troppo se ora se ne stava raggomitolata
con le mani conserte a proteggere lo stomaco. La seconda era che finché
avesse continuato a farsi chiamare Urbano non avrebbe mai cominciato a
sviluppare nemmeno un briciolo della propria autocoscienza sessuale.
La camminata di Corsi ricordava a Urbana il suo bel periodo
del terremoto sotto la mansarda e i suoi movimenti non le apparivano poi
così goffi e sgraziati. Le faceva anche piacere che lui desiderasse
chiamarla Urbana, anche se non poteva saperlo visto il fatto che Corsi,
poiché non parlava, non poté dirglielo. Da parte sua Corsi
avrebbe voluto dirle Posso chiamarla solo Urbana? Ma non poté porre
questa domanda e poiché non ebbe risposta alcuna e chi tace acconsente
prese la decisione che da quel momento la avrebbe chiamata solamente, com’è
giusto, Urbana. Urbana non sapeva dire a Corsi cose cattive, e poiché
non c’erano cose belle che potesse pronunciare riguardo a lui, rimaneva
in silenzio ogni volta che era in sua presenza, e visto il fatto che passava
tutto il tempo con lui, smise definitivamente di parlare e arrivò
il giorno che Corsi si domandò se Urbana fosse in grado di profferire
parola e addirittura se avesse mai profferito parola. Nel bar dove Urbana
volle andare a prendere un caffè c’era anche un uomo seduto da solo
ad un tavolo che fumava e beveva acqua. Guardava sempre davanti a sé
e ad intervalli estremamente irregolari tossiva. Corsi lo fissò
a lungo ma non riuscì a trovare una logica nei suoi movimenti. Sul
suo tavolino vi erano un pacchetto di MS, tre bottiglie di acqua vuote,
una a metà, Minerva, un posacenere pieno, un bicchiere sempre pieno
che teneva in mano per bere sorsi grandi e piccoli e medi senza un disegno
apparente. I baristi e tutti gli altri avventori parlavano molto e Corsi
pensò che tutte quelle parole erano davvero un ottimo metodo per
usare il proprio tempo. L’uomo, perché sicuramente era un uomo a
quel che Corsi poteva vedere, aveva avuto ordine di bere almeno sei bottiglie
di acqua al giorno per rallentare il procedere di una malattia inguaribile
che lo avrebbe portato alla morte nel giro di un tempo che Corsi non commensurava.
Urbana prendeva il suo caffè, e lui guardava dritto la schiena dell’uomo,
ne studiava tutti i movimenti, cercava di capirne le ragioni. Urbana si
ingelosì perché Corsi fino a quell’istante l’aveva coperta
di attenzione, l’aveva seguita e guardata in ogni gesto in ogni movimento
in ogni atto del suo corpo. Ma ora la curiosità sfrenata di Corsi
era tutta per quell’uomo silenzioso che beveva e fumava e non avrebbe voluto
dire a nessuno di essere condannato. Non avrebbe voluto dire a nessuno
che stava portando avanti una serie di esistenze parallele, che aveva fatto
in più parti uguali il suo conto alla rovescia, dedicando istanti
alla cura e istanti al piacere della vita, istanti all’acqua e istanti
al fumo. Il suo unico obbiettivo era che queste esistenze non venissero
a conoscenza l’una dell’altra, perché allora avrebbe dovuto spiegare
all’acqua e al fumo le ragioni delle sue scelte, avrebbe dovuto giustificare
l’irrazionalità delle proprie azioni. Così in tutto
quello che faceva poneva grande attenzione. Rispettava e amava il suo piacere
e rispettava e amava il suo dovere, per questo non poteva fumare mentre
aveva in mano il bicchiere e non poteva bere mentre aveva una sigaretta
accesa. Aveva anche i suoi spazi privati, in cui posava il bicchiere o
spegnava la sigaretta e con la voce roca tossiva e si guardava un po’ intorno,
ma senza attenzione, solo per sentirsi autonomo. Poi tornava a bere o a
fumare e a guardare davanti a sé, e che bevesse o che fumasse nel
suo cuore si accendevano passioni distinte che non si annullavano l’un
l’altra ma vivevano assieme nella gioia di colui che le provava.
L’uomo era felice, questo Corsi lo poteva sentire, e
avrebbe voluto chiedergli la ricetta della beatitudine, se solo avesse
avuto la possibilità di parlare, il coraggio di sedersi accanto
a lui, la forza di abbandonare Urbana, un più alto concetto di sé,
un alito meno fetido, un aspetto meno sgradevole. Quando Urbana uscì
di corsa piangendo Corsi provò a scendere con altrettanta celerità
dalla sedia su cui si era con fatica appollaiato. Ah, fu una scena davvero
comica: la donna singhiozzando portò indietro la sedia di ferro
facendola cadere a terra, Corsi venne svegliato dalla sua trance in modo
violento e quasi si alzò in piedi sulla sua sedia, che cominciò
una danza prima su una zampa, poi su un’altra, poi su un’altra, poi su
un’altra, poi su un’altra, poi su due, poi sulle altre due, poi ancora
sulle due di prima, poi sulle altre due, fino a ristabilizzarsi su tutte
e quattro le zampe. Corsi non si rese conto che improvvisamente si era
fatto un silenzio sospeso nel bar, e tutti guardavano verso di lui, un
po’ sorpresi, un po’ divertiti, un po’ disgustati, un po’ non sapevano
neanche loro. Certo è che non doveva essere uno spettacolo usuale.
Fortunatamente Corsi non ebbe la concentrazione necessaria per rendersi
conto di quello che stava accadendo intorno a lui, tutto preso com’era
a cercare una soluzione per scendere senza danni da quell’aggeggio infernale
su cui era stato aiutato a salire dalle braccia forti di Urbana. Ora era
solo, e doveva trovare movimenti e coordinazione per fare qualcosa che
gli sembrava di non aver mai fatto, anche se a pensarci bene Corsi non
poteva giurare di non essere mai sceso, in tutto il suo passato, da una
sedia, ma questo ricordo non poteva essere recuperato, e così era
come se non esistesse per nulla. Nessuno dei presenti avrebbe potuto trovare
una ragione nel fatto che Corsi si mise a sporgere la testa per guardare
quanto spazio ci fosse sotto la sedia, eppure fece proprio così.
Poi afferrò con entrambe le mani una delle due zampe frontali, spostò
il culo in fuori fino a che una gamba sporse nel vuoto. La lanciò
alla ricerca di qualcosa: la parte inferiore della zampa che aveva afferrato.
Con un gesto repentino e non del tutto privo di grazia e coordinazione
le si abbarbicò come un koala al proprio ramo, prese tra i denti
il piano di ferro e lentamente cominciò a far calare il proprio
peso verso terra. Vi fu un momento di suspance generale quando il baricentro
dell’unico corpo che si era formato si spostò irrevocabilmente verso
la schiena di Corsi e sul fronte della sedia, che si alzò sulle
due zampe anteriori e sarebbe caduta a terra se lo schienale non si fosse
appoggiato al tavolino. Corsi si trovò, senza che lui potesse spiegare
come, gentilmente adagiato con le spalle al terreno, lasciò la presa
delle gambe delle mani e dei denti e rimase per alcuni secondi immobile
come una tartaruga rovesciata. Stava piuttosto comodo e in un primo momento
pensò di rimanere in quella posizione per un po’, ma non era passato
abbastanza tempo perché potesse dimenticarsi di Urbana, e quando
il ricordo della fuga della donna gli tornò alla mente si girò
sulle sue quattro zampe e corse sulla strada. Era nervoso, sentiva un gran
prurito in zone del proprio corpo in cui sapeva non sarebbe mai arrivato.
Si sentiva a disagio, avrebbe voluto urlare Urbana, Urbanaa, Urbanaaa,
Urbanaaaa, Urbanaaaaa, Urbanaaaaaa, Urbanaaaaaaa, Urbanaaaaaaaa, Urbanaaaaaaaaa,
Urbanaaaaaaaaaa, Urbanaaaaaaaaaaa, Urbanaaaaaaaaaaaa, Urbanaaaaaaaaaaaaa,
Urbanaaaaaaaaaaaaa, Urbanaaaaaaaaaaaa, Urbanaaaaaaaaaaa, Urbanaaaaaaaaaa,
Urbanaaaaaaaaa, Urbanaaaaaaaa, Urbanaaaaaaa, Urbanaaaaaa, Urbanaaaaa, Urbanaaaa,
Urbanaaa, Urbanaa, Urbana. Quasi si convinse di farlo mentre si guardava
intorno e si stancò le corde vocali per le alte urla che credette
di lanciare. Si sedette a terra realizzando che Urbana era stata precipitosa
e se era stata precipitosa a questo punto, dopo averla cercata e chiamata,
non gli rimaneva altro che dimenticarla. Ma Corsi davvero non poteva scegliere
di dimenticare, qualcuno direbbe che era troppo stupido per prendere qualsiasi
decisione di questo genere. Ma altri non lo direbbero, sicuramente né
Urbana, né l’uomo dell’acqua e del fumo, né io.
Corsi riprese a camminare dal punto in cui aveva lasciato
anche se non aveva la minima idea di cosa avesse lasciato. Non sapeva dove
stava andando semplicemente perché non si poneva la domanda, l’unica
cosa che riprese a ripetersi era che non c’è strada vuota in cui
non si possa incontrare qualcuno.
Non gli rimaneva che tornare nel bar e cercare l’uomo
seduto. Forse sarebbe stato così gentile da offrirgli un bicchiere
d’acqua o una sigaretta o un bicchiere o almeno un fiammifero. La gola
aveva cominciato a bruciargli, se la sentiva rossa e infuocata, quasi gli
sembrava di aver perso le corde vocali, tanto era sicuro di aver urlato,
così pensò che avrebbe rifiutato, seppur gentilmente, sia
la sigaretta che il bicchiere vuoto che il fiammifero. Un buon bicchiere
d’acqua invece era proprio quello che gli ci voleva. Ruotò la sua
posizione di 180° e si mise in marcia con la mano destra…
Corsi, appostato sotto la sedia dell’uomo, che nemmeno
aveva mosso lo sguardo al momento del suo arrivo, avrebbe voluto
domandare Perché non mi offre qualcosa, qualsiasi delle cose che
ha di fronte? Potrei rifiutare quello che non mi interessa ma mostrare
in qualche modo il mio desiderio di avere un po’ d’acqua. Ho la gola secca
e se continuo a non bere tra poco non sarò più in grado di
parlare.
L’uomo fumava, poi beveva, poi fumava ancora, poi di
nuovo beveva, e così via. Corsi avrebbe voluto implorare l’uomo
La prego, mi dia un bicchiere della sua acqua, ho sete, la mia bocca sta
diventando arida e polverosa come un deserto si aprono crepe voragini
in cui io con tutto il mio corpo cado dentro e mi ci secco come un fiore
tenuto in un libro, sia buono ne sorseggerò solo lo stretto indispensabile
per non morire qui ai suoi piedi, la mia lingua si sta sgretolando e più
parlo più peggiora ma non posso stare zitto perché allora
come potrei muoverla a compassione, suvvia signore non sia indifferente
al mio grido si metta una mano sulla coscienza guardi come il mio corpo
tutto sta venendo in soccorso della bocca secca e tra poco avrò
anche la vescica sgombra vuotata dall’interno per recuperare liquidi che
possano intervenire in aiuto del mio organismo, non finga di non notare
la mia sofferenza io sono qui e non ho più la lingua e i miei occhi
sono caduti a terra, sono due biglie di vetro che rimbalzano rumorosamente
per tutta la sala e il mio moccico dal naso è stalattite e gli escrementi
sono terra sgretolata e il cerume nelle orecchie è il miele più
amaro e duro che essere umano potrebbe, se volesse, assaggiare. Forse lei
non riesce a vederlo ma tutti i pori della mia pelle si sono contratti
e chiusi ermeticamente a tentare vanamente di mantenere quei liquidi che
avrebbero potuto salvare il resto del corpo e io adesso non posso più
muovermi perché se mi muovessi cadrei come cenere da una sigaretta.
Signore mi guardi, per lo meno muova gli occhi dal suo vuoto di fronte,
sono deserto e lei solo può salvarmi… per questo Corsi stava perdendo
tutti i movimenti dell’uomo: non è che non gli interessassero ma
semplicemente la sua condizione di assetato non gli permetteva di indirizzare
la sua attenzione su quei gesti che solo qualche minuto prima l’avevano
ipnotizzato.
Abbiamo peraltro già notato come Corsi avesse
un’indole incapace di togliere attenzione alla sua attenzione per via di
un qualsivoglia agente esterno che fosse venuto a distrarlo. La sua dedizione
era totale, assoluta, rispettosa di sé, concentrata, raccolta.
Non che fosse conscia, questo no, ma non dobbiamo lasciarci
ammaliare dalla tentazione di privare Corsi di quello che, al contrario,
è di Corsi. Questo era il suo precipuo modo di sentire, suo e di
nessun altro.
Quando finalmente l’uomo durante le sue elucubrazioni
verbali si volse ad offrire a Corsi un bicchiere d’acqua, questi rifiutò
perché la realtà era che non aveva affatto sete, non aveva
per nulla la gola secca, i suoi occhi non erano biglie di vetro e il suo
sterco non era terra sgretolata semplicemente per il fatto che non aveva
mai gridato il nome di Urbana fuori dal bar. Non vi fu sorpresa in Corsi
nel rifiuto perché aveva ottenuto quello che aveva con tanta forza
richiesto e desiderato. Corsi si pose anche il problema se fosse opportuno
rifiutare l’offerta, ma poi si disse che non avrebbe potuto esserci sorpresa
nell’uomo perché il rifiuto era una delle possibilità che
qualunque uomo di intelligenza media, alta o anche bassa prende in considerazione
nel momento in cui si trova ad offrire qualcosa ad un altro uomo di intelligenza
media, alta o anche bassa. E non era d’uopo ora per Corsi andare ad analizzare
tutte le concatenazioni possibili tra le intelligenze di questi due ipotetici
uomini, perché il risultato sarebbe sempre stato in medesimo: che
il rifiuto è da entrambi un’eventualità presa in considerazione
ed accettata senza traumi nel momento in cui dovesse realizzarsi.
Improvvisamente e senza una ragione apparente l’uomo
disse Mi scusi ma ho poco tempo, e ritirò il bicchiere che ancora
teneva vicino al volto di Corsi che stava rifiutando senza cenni del capo.
Pensò Corsi che l’essere umano è più articolato di
quanto ogni logica possa spiegare, e che se quell’uomo si era offeso al
suo rifiuto di un bicchiere d’acqua non apparteneva al genere delle persone
di intelligenza media né di intelligenza alta né di intelligenza
bassa oppure apparteneva ad uno dei tre generi ed allora significava che
il suo calcolo sull’intelligenza doveva essere fatto, o almeno sarebbe
stato meglio farlo dal momento che il suo sorvolare sull’argomento aveva
creato un’incomprensione che lui stesso avrebbe voluto evitare. Si disse
comunque di essere stato ineducato nel rifiutare e di non aver tenuto conto
del difficile stato d’animo dell’uomo, il quale stava senza dubbio portando
avanti un comportamento non ortodosso e tutti sanno – si diceva Corsi –
che chi porta avanti un comportamento non ortodosso ha qualche problema,
ed è sempre meglio dimostrare sensibilità con chi ha comportamenti
poco ortodossi e quindi ha qualche problema e puoi star sicuro che essere
gentili con chi ha problemi e quindi porta avanti comportamenti non ortodossi
non può che pagare, alla lunga.
Era forse la prima volta che Corsi diceva a se stesso
questa locuzione: “Alla lunga”. Si era di certo detto Adesso, o Attualmente,
o Ora, o Per adesso, o Oggi con le varianti Quest’oggi e Oggidì
che gli piaceva tanto per stupire alcune persone; più volte si era
detto Continuamente, Qualche volta, Spesso; si era probabilmente spinto
a dirsi Ogni volta, Sempre, addirittura Eternamente, ma davvero non gli
era mai capitato di dirsi “Alla lunga”. Pensò che, se lo aveva detto
una volta, ora che quella espressione lo aveva toccato la sua stessa essenza
era mutata. Ancora non sapeva se in peggio o in meglio, ma era cambiato.
Si imperò di ripetere quelle due parole per un numero sufficiente
di volte cosicché non le dimenticasse più, come gli accadeva
per la maggior parte delle parole nuove che imparava. Si staccò
finalmente dai piedi dell’uomo seduto e si mise a camminare avanti e indietro
lungo tutte le direttrici degli spazi vuoti del bar ripetendo a volumi
diversi, con differenti intonazioni e variati accenti, quelle due parole.
Doveva essere molto comico, perché la sua espressione
era così sicura di dire qualcosa di intelligente che se ne andava
con passo sicuro a quattro zampe e muso alto in giro per il bar senza profferire
parola, senza addirittura aprire bocca. Già, perché Corsi
non è che aveva movimenti labiali, lui quando pensava di stare in
silenzio se ne rimaneva a bocca spalancata come un ebete e quando invece
voleva parlare serrava le labbra e guardava davanti a sé come un
ebete. Da parte sua il padrone non doveva essere felice di avere questo
spettacolino nel suo bar, anzi, sicuramente non era felice e direi di più:
era furioso, tanto che chiamò la polizia per cacciare Corsi a pedate
dal locale.
L’udito di Corsi aveva una lunga memoria indipendente
dalla ragione; anche le sensazioni fisiche, tutte quelle che aveva provato
nel corso della sua vita, erano rimaste in qualche parte del suo corpo;
ed ogni tanto, per motivi che Corsi non comprendeva, il suo fisico metteva
in relazione le due cose e la miscela poteva essere esplosiva e così
fu quando stava nel bar a ripetere o a ripetersi “Alla lunga”. Si era già
rialzato il brusio delle conversazioni tra la gente e nel momento in cui
si aprì la porta scorrevole le voci ad una ad una si zittirono mentre
aumentava di volume il rumore degli stivali che avanzavano. Corsi era di
spalle a quei passi perentori ma il dolore allo sterno fu immediato.
E’ evidente che la posizione nella quale camminava Corsi
rendeva di estrema facilità a quelli che avevano deciso di picchiarlo
sferrare calci su tutta la parte che chiameremmo anteriore nel corpo di
una persona eretta e che risulta invece inferiore nel corpo di Corsi per
via della sua postura naturale. Tutti i picchiatori prendevano un gusto
particolare a scalciarlo dai coglioni fino alla faccia, e in verità
non solo perché stava a quattro zampe ma anche perché Corsi
non opponeva resistenza, si lasciava fare tutto e dopo il tutto se ne rimaneva
ad aspettare che i dolori gli passassero o che qualche anima pia lo portasse
in qualche ospedale. Ma i dolori non passavano mai e mai nessuna anima
pia lo portava in ospedale così più di una volta aveva dovuto
andarsi a procurare del cibo con una costola rotta o una gamba o un gomito
e sempre con gli occhi tumefatti. La cosa peggiore era quando lo portavano
in questura, dove lo picchiavano con metodo e tutti i motivi di calci pugni
e mazzate erano interne al fatto stesso che Corsi era Corsi: non si sedeva
composto, non si alzava in piedi, non rispondeva alle domande, non aveva
documenti, non aveva un buon odore né un bell’aspetto.
Beh, quella volta in cui se ne stava pacioso nel bar
a ripetere ad alta voce con mille intonazioni o a ripetere dentro di sé
con la faccia da ebete “Alla lunga” provò il dolore dei calci ancora
prima che arrivassero, e gliene dettero tanti al punto che senza dirgli
una parola lo fecero uscire dal locale e lo lasciarono in strada appena
fuori il marciapiede in un parcheggio che si era da poco liberato.
Dimenticavo di scrivere che Corsi non è un essere
senza passato.
Per un lungo periodo ha vissuto in un sotterraneo.
Questo Corsi non può ricordarlo perché
ora la sua vita è completamente nel presente, ma io sì, perché
a quel tempo siamo stati insieme a lungo. Ora, qui non si vuole dire dei
ricordi di Corsi, ma si desidera fare un quadro per quel che è possibile
soggettivo di quelli che furono i fatti. Come detto, Corsi viveva in un
sotterraneo. Aveva già assunto la sua tipica posizione a quattro
zampe, tuttavia possedeva ancora una discreta manualità, qualcosa
di più che un retaggio dei suoi tempi, se ci sono davvero stati,
eretti.
Aveva scritto molto ed aveva tutto lì con sé
e benché non si vedesse alcunché mi diede molto e della sua
vasta produzione questo è quello che ho ricordato e conservato:
.
Allora quando lo si incontrava nel suo sotterraneo
si poteva anche avere la ventura di sentirlo parlare. Non che fosse di
una loquacità particolare, ma la sua visuale era sempre scarna al
punto da risultare interessante, anzi, direi di più: disarmante.
Mi rendo conto che la parola che ho usato: “incontrare”, è un facile
eufemismo dal momento che se ci si voleva imbattere in Corsi lo si doveva
andare a cercare con una lanterna ad olio, o almeno così facevo
io. Fumava molto e masticava tabacco, lo faceva con orgoglio, e le pareti
della sua zona preferita erano annerite dalle macchie che lasciava per
spegnere le cicche e per appiccicare i resti dei boli insapori.
La puzza era orribile. Anche perché all’odore
acre e rancido del tabacco vecchio si mescolava il puzzo di Bob, il suo
maiale.
Quando arrivò il momento in cui mi sentii nel
diritto di domandare a Corsi perché se ne stava rintanato in quel
posto triste domandai Scusi ma perché se ne sta rintanato in questo
posto? Evitai per cortesia l’aggettivo triste e forse fu una scelta
felice perché Corsi fu prodigo di parole nella sua risposta che
non sembrava affatto seccata dalla domanda. E’ naturale il fatto che ora
nel riportare le parole di Corsi siano potute nascere delle romanticherie,
delle deformazioni che del suo discorso ho fatto a mio piacimento rendendolo
così in un certo modo meno autentico e meno bello e un po’ più
mio. Ma dal momento che sono proprio io che sto scrivendo e non Corsi e
che questi fatti si sono svolti in un momento nel tempo così lontano
da essere stati dimenticati dalla mia debole memoria, allora bisognerà
prendere con le molle tutte le parole qui riportate.
Ma non il senso delle parole e non il senso degli atti.
Corsi rispose alla mia domanda semplicemente: “Sopra
questo sotterraneo non c’è niente”.
Provai ad interromperlo obbiettando che…, ma ero stato
io a fare la domanda e dovevo lasciargli tempo e diritto di rispondere.
Continuò: “Lei ha mai chiesto il sole? Io no.
Io non ho chiesto mai il sole e mai la notte. Io non
ho chiesto i colori e non ho mai chiesto di essere una persona.
Io non ho mai chiesto di essere quello che sono e non
ho mai chiesto di avere quello che ho:
ho cose tutte inutili, ho mani prensili e non le so usare,
ho occhi belli e grandi e non li uso mai e mai li ho usati.
Ho una testa per pensare
Ah!
Ho gambe e piedi ho congegni perfetti e non ho posti
dove sgranchirli
Sì ho spazi infiniti infiniti nulla, vuoti infiniti
di cui fare un grande falò.
Ho tanto, tutto quello che non ho mai desiderato tutto
quello che non ho mai voluto tutto quello che non ho mai saputo usare,
ho tutto quello che non ho mai chiesto, tutto quello che non ho mai chiesto
ce l’ho. Ho da Abaco a Zuzzurullone. L’elenco di quello che sta dentro
risulterebbe un libro interessante.
Ed è andato tutto per il meglio fin quando mi
risolvevo a constatare a conoscere a vedere a esperire a esercitare. Ah,
che ingenuo e bel periodo che ho passato a imparare il modo di camminare,
di parlare, di scrivere, di ragionare, di pensare, di soffrire, di amare,
di morire. Non posso dire che sia durato troppo a lungo, forse venti, o
trenta, o quaranta o al più cinquant’anni. Ma sono pochi di fronte
all’immensità dello scibile umano, di tutto quello che una persona
può incamerare in sé, di ciò che un uomo, se se ne
rimanesse con la bocca e le orecchie e gli occhi spalancati e facendo attenzione
a chiudere tutte le altre aperture, e qui non mi dilungo, potrebbe con
facilità ricevere senza grande fatica nel suo corpo. Sono rimasto
così per tutto questo breve tempo, a mangiare e ascoltare e guardare
quello che avevo ricevuto gratuitamente, senza che io avessi avuto la più
piccola esigenza, senza che io avessi fatto alcuna misera richiesta. Sì,
lo devo ammettere, qualche volta ho anche ringraziato. Ora sono stupefatto
al pensiero che io possa averlo fatto un giorno. Eppure ho ringraziato
il nulla per il nulla che mi avrebbe donato senza che io lo chiedessi.
Poi è successo un fatto assolutamente imprevisto.
Sono stato abbandonato e tutto quello che avevo imparato
e conosciuto perse in un istante ogni importanza. Non mi serviva più,
non lo volevo più.
Ah, i sentimenti! Che stupidi! Ah ah ah! I sentimenti!!
Ih ih ih !”.
Corsi cominciò a ridere a crepapelle e continuò
e non si fermava più cosicché io me ne andai e tornai il
giorno successivo e lo trovai ancora che rideva e allora me ne andai
di nuovo e tornai dopo tre giorni e lo trovai più stanco ma comunque
lo trovai che rideva e allora me ne andai subito e tornai dopo una settimana
e quando arrivai non rideva più ma non appena mi vide sbottò
in una risata irrefrenabile tanto che temetti il peggio ma comunque
me ne andai e decisi di non tornare prima di un mese e quando un mese dopo
tornai lo trovai che stava dando da mangiare a Bob. Avevo tante cose da
chiedergli, e sinceramente la mia curiosità su come si procurasse
il sostentamento per sé e per il maiale dovette passare in cavalleria.
Corsi aveva gesti compassati, che continuò ad
adottare anche in mia presenza. Domandai qualcosa ma non ebbi risposta
e il silenzio fu così lungo che sentii che la situazione mi metteva
a disagio, un disagio fisico. Poi si accostò al muro, si alzò
sulle due gambe, appiccicò in alto il tabacco che aveva masticato,
estrasse da una tasca dei pantaloni una scatolina, se ne mise in bocca
un pizzico del contenuto, tornò giù, si sedette. Questi due
gesti, l’alzarsi e il mettersi seduto, comprendenti l’alzare il braccio
destro, l’estrarre di bocca il tabacco, il rovistare tra i denti con le
unghie della mano sinistra, il fare con le due mani un’unica palletta di
resti, l’attaccarla con la mano destra al muro, il riportare in basso le
braccia, l’accovacciarsi con la schiena al muro, l’estrarre con la mano
sinistra dalla tasca sinistra dei pantaloni la scatolina, l’aprirla con
la destra, l’estrarre il tabacco, il portarlo con la mano sinistra alla
bocca, il risistemare nella posizione originaria la scatolina, il mettersi
comodo, seduto… tutti questi gesti, che ho riportato grossolanamente, smussati
dalle priorità del ricordo, un ricordo ingiusto che rende il tutto
troppo approssimativo vago incerto indeterminato e nello stesso tempo troppo
chiaro netto normale definito insomma in due parole poco interessante…
tutti questi gesti, e scriverei volentieri se solo ne avessi un lontano
sentore di mani prensili, di gambe sicure, di passi eretti, di sguardi
ammiccanti, addirittura di sorrisi, di mani tra i capelli o che grattano
la pancia, di gambe incrociate, di una lingua che lecca i baffi… tutti
questi gesti, tutti quelli che ci furono e tutti quelli della mia immaginazione,
erano una sequenza non casuale di movimenti che mettevano in evidenza improvvisamente
e indiscutibilmente l’appartenenza di Corsi al genere umano. Per quei dieci
secondi Corsi mi si presentò come un homo sapiens di questo secolo
di sesso maschile. Fu l’unica circostanza in cui potei vederlo in un simile
atteggiamento. Era una dimostrazione di forza, un braccio di ferro che
mi aveva annientato. Mi sedetti a terra posando la lampada ad olio tra
i nostri corpi. Ero alla sua mercé, impotente e dipendente dalla
sua volontà, non sapevo cosa aspettavo da lui, né perché
ero tornato in quel posto lugubre. Il disagio aveva lasciato il posto a…
sì ora mi sento di dirlo: alla paura.
Corsi masticava ed io guardavo il muro macchiato che,
illuminato tenuamente dalla luce della lampada, perdeva stranamente ogni
essenza sinistra. Mi sembrò per un attimo che vi fosse una logica
con cui i resti di tabacco erano appiccicati ma la mia attenzione cambiò
definitivamente direzione nel momento in cui Corsi cominciò a parlare.
“Le voglio raccontare una storia.
E’ molto strano che il suo protagonista non sia mai stato
a vedere un concerto all’Auditorium della sua città. Arriva il giorno
in cui il suo amico musicista e il suo amico della sicurezza vanno a trovarlo
a casa e gli portano un biglietto omaggio per il concerto della sera successiva.
Lui accetta con piacere e assicura la sua presenza.
La notte fa questo sogno: è una giornata assolata
e lui sta andando a piedi a vedere il concerto ma improvvisamente a metà
strada realizza di non essere mai stato prima di allora all’Auditorium
e si ferma alla ricerca in mezzo ad una piazza tra un gruppo di palazzi.
Ne studia l’aspetto alla ricerca di quello che potrebbe ospitare la sala
che sta cercando. Uno ha un ingresso molto imponente, un altro ha davanti
una carretta dei Carabinieri, uno ha una porta girevole, davanti c’è
un portiere in livrea, in uno molto elegante entrano uomini in smoking
e donne impellicciate, uno ha un’insegna luminosa che non può decifrare
per il sole, uno sembra una chiesa, ha un rosone ma non ci sono croci,
uno sta dietro un cancello che dà su un giardino fiorito, uno è
in tutto simile al palazzo della sua casa, da uno escono ragazzi, uno ha
una lunga e ripida scalinata che dà su un colonnato rialzato. Le
larghe piazze dei sogni… Per non sbagliare entra nell’edificio che è
in tutto simile al palazzo della sua casa; con le chiavi apre il portone.
Al di là si apre un grande atrio d’ingresso con molta gente in movimento.
La maggior parte sono uomini vestiti uguali con calzoni grigi, scarpe nere,
camicia celeste, cravatta blu a righe oblique rosse ed una giacca blu con
un piccolo stemmino sul taschino all’altezza del cuore. Deve passare per
un tavolo dove vede il suo amico che gli viene incontro per strappargli
il biglietto. Durante questa operazione cerca di capire cosa rappresenti
il piccolo stemmino sul taschino all’altezza del cuore, ma l’amico subito
si volta e lo precede all’interno di un secondo atrio in cui lo lascia
senza dirgli una parola. Qui ci sono delle porte, molte porte, tutte aperte,
che danno su stanze di cui si sente fortemente curioso. Si frena perché
davanti ad una di queste porte e di queste stanze c’è una distesa
di sedie che si allargano a raggiera all’interno dell’atrio. Sì,
il concerto si farà certamente qui, pensa l’uomo. Intravede una
pedana in fondo dietro la porta dentro la stanza. Si siede. Arrivano altre
persone. Poi molte altre. Si mettono sedute. Poi, quando ogni posto è
stato occupato, contemporaneamente si alzano tenendo la sedia sotto al
culo con le mani e entrano tutti attraverso la porta dentro la stanza
per sistemarsi in ordine sparso attorno al palco. Non sembra esserci una
ragione per questa azione, ma il nostro protagonista è la prima
volta che va a vedere un concerto all’Auditorium e ne accetta le regole
senza interrogarsi. Si mischia agli altri. Tutti sono fermi. Sul palco
sale una donna. Parla. Fa una lezione di storia della musica. L’uomo non
conosce il compositore di cui la donna sta parlando. Dopo pochi minuti
esce disturbando e va ad appagare la sua curiosità. Guarda nelle
altre stanze appoggiando delicatamente la testa agli stipiti. Un uomo in
frac tiene una lezione individuale di violoncello ad un ragazzo in jeans
che non riesce a far uscire dallo strumento alcun suono. Un quartetto d’archi
suona un piccolo concerto informale per pochi intimi. Due donne si baciano
con struggente passione, forse per un addio. Un uomo aspetta fuori e guarda.
Un’altra conferenza, o lezione che dir si voglia. Niente. Un uomo urla
con violenza qualcosa ad un giovane con la divisa con il piccolo stemmino
sul taschino all’altezza del cuore; si azzittisce quando lui si affaccia.
I due lo guardano con occhi molto diversi. Ancora niente. Ancora ancora
niente. Un gruppo di giovani su pattini a rotelle girano tra sedie in disordine,
escono nel momento in cui la sua testa fa capolino, invadono l’atrio. Uno
di questi, solo uno, ha la divisa con il piccolo stemmino sul taschino
all’altezza del cuore. L’uomo non può frenarsi e quando questo gli
passa vicino lo placca con mossa da rugbista. Non sa se vuole parlargli
o scoprire il significato dello stemma quindi si risolve a formulare una
domanda concentrando tutta la sua attenzione sul simbolo della giacca.
Senta, io dovrei andare al concerto, domanda, ma è una frase troppo
breve e il giovane subito lo precede dicendo Mi segua. Comincia a correre.
Anche lui porta dei pattini. L’uomo deve seguirlo a piedi e andare veloce
se vuole stargli dietro. Attraversano tutta la grande sala e poi il grande
atrio e arrivano all’ingresso dove c’è il tavolino e il suo amico,
proprio davanti al portone di casa sua. Ora tutti gli uomini con la divisa
blu con il piccolo stemmino sul taschino all’altezza del cuore portano
i pattini ai piedi. Il suo amico gli va incontro e lui gli dice Ma dov’è
il concerto? Aspetta un attimo è la risposta. L’amico torna al tavolino,
apre cassetti, manda all’aria risme di fogli, poi urla Il concerto inizia
fra dieci minuti! Dov’è la sala? Ogni uomo con lo stemma indica
in una direzione diversa e poi rimane fermo. Uno per volta si immobilizzano
tutti e restano come in un museo delle cere. L’uomo pensa che sono belli,
che sono un’opera d’arte e che vorrebbe che non si muovessero mai più.
Ma il suo amico non sta lì a guardare, lo prende in braccio e si
invola come un Superman sui suoi pattini a rotelle tenendogli il volto
schiacciato sul petto. Tutti gli esseri umani che incontrano sono immobili
come in una fotografia. All’uomo sembra un viaggio di ore. Sente il vento
sulla nuca.
Dopo pochi minuti arrivano in un’ampia sala concerti.
Tutti i posti sono occupati, tranne uno, il suo. L’amico lo depone a terra
e gli indica con benevolenza la sua poltrona. Dice qualcosa ad alta voce,
forse Possiamo cominciare, e poi esce.
Al suo risveglio il nostro protagonista non ricorda di
aver sentito alcun concerto, in sogno.
La sera va all’Auditorium e non c’è niente da
raccontare per la convenzionalità della serata.
Mi scusi - continuò Corsi senza pause - ma ora
vorrei che se ne andasse. Perdoni la mancanza di cortesia ma la luce della
sua lampada, per quanto gentile, comincia a farmi male alle pupille. Sa…
ci ho messo tanto per riabituarle al buio. E poi un’ultima cosa. La sua
presenza sarà sempre benvenuta qui, ma sappia che domani macellerò
Bob e ci farò scorte a sufficienza per un futuro più o meno
lungo durante il quale non prenderò altri maiali da allevare. In
questo periodo mi preparerò per uscire di nuovo fuori di qui. Niente
più parole allora, niente più pensiero, forme, vista, sapere,
desiderio, volontà, sentimenti, movimenti, gesti, colori, ricordi…”.
Sì, disse sicuramente “ricordi” e poi, dopo, una lunga sfilza di
altre parole. Me ne andai prima che avesse finito. Ero sicuro che fosse
pazzo. Tornato a casa mi presi la briga di scrivere:
Checché se ne possa pensare, c’è continuità
tra gli edifici che ospitano le case delle persone, e me, e il garage nel
quale alloggia, o sarebbe meglio dire vive, Corsi. Le vie della città
si animano oltre la loro possibilità di capienza nei periodi festivi
durante i quali una gran folla di persone stanate si riversa nelle strade.
Per un lunghissimo periodo dell’anno sono in massima parte disabitate.
In questi giorni che non oserei dire straordinari la sera i lampioni non
illuminano che le zanzare e i pipistrelli. Non le persone che non esistono
né le macchine, perché sui marciapiedi non ci sono vetture
parcheggiate. Il nostro sindaco è molto orgoglioso di aver risolto
questo problema, anche se in verità qui le macchine non disturberebbero
nessuno perché le strade sono deserte mentre al contrario nei periodi
di superaffollamento la gente non vede l’ora di sfoggiare la sua automobile
e correre e guizzare tra i pedoni terrorizzati.
Comunque il fatto è che nella nostra città
è stato concepito e realizzato il miglior sistema di parcheggi sotterranei
del pianeta. Tutti i mezzi di trasporto, pesanti e leggeri, nei periodi
di inattività, che si avvicinano in verità al sempre, restano
stipati in questi pozzi che si estendono verticalmente nel sottosuolo per
centinaia di metri, con un sofisticatissimo sistema di areazione che rende
vivibile la zona scavata. Ogni famiglia ha un ascensore privato nel suo
giardino attraverso il quale si fa scendere la vettura al proprio piano,
da qui la si guida attraverso strade sotterranee fino ad arrivare al parcheggio.
Le piazze e le vie del sottosuolo sono quasi sempre deserte perché
servono circa quaranta minuti per uscire di casa, prendere l’ascensore
privato che dal salone o da qualsiasi altra stanza della propria casa porta
direttamente nel proprio box nel quale è la propria macchina, accendere
il motore, uscire, guidare nel sotterraneo, raggiungere la piazza del proprio
ascensore, chiamarlo, metterci sopra la macchina, risalire, uscire dal
giardino, immettersi in strada.
Credo che sia questo il motivo per il quale non
ci sono ladri nei parcheggi. La profondità, il buio, la mancanza
di movimento sono fattori determinanti di scoraggiamento per ogni malvivente.
Da un po’ di tempo non ci sono neanche più le ronde della polizia.
E’ dura convincere qualcuno a passare inutilmente una giornata a qualche
centinaia di metri sotto il livello del suolo. Capita invece a volte che
qualche barbone vada a finire i propri giorni in qualche angolo dei piani
più bassi (cioè più profondi). Nessuno può
farci caso, fino al momento in cui si sente la puzza dei cadaveri e allora
bisogna chiamare le autorità atte alla rimozione.
Questi sono i parcheggi. Al mio piano non è mai
accaduto nulla di strano. Nessun ladro, nessun barbone, nessun morto. Per
un periodo ho pensato che Corsi fosse solo un eccentrico, ma ora non posso
non dire che sia pazzo, perché è chiaro che solo un pazzo
andrebbe a vivere lì giù insieme al proprio maiale da macellare.
Voglio ripeterlo: perché è chiaro che solo un pazzo andrebbe
a vivere lì giù insieme al proprio maiale da macellare.
Ora voglio che rimanga scritto per sempre quanto segue:
sebbene ci sia una continuità tra dove abito io e dove vive Corsi,
e tra me e lui (e questo sia il motivo principale del mio avvicinamento),
Corsi è un pazzo. E’ senz’altro un uomo, ma pazzo.
Perciò io farò meglio a non frequentarlo
più, almeno a non andarlo più a trovare.
Ancora: perciò io farò meglio a non frequentarlo
più, almeno a non andarlo più a trovare.
Beh, la moda dei parcheggi sotterranei ora è finita;
sono rimasti per un po’ di tempo questi buchi nelle viscere della terra,
ma poi la natura se li è ripresi, li ha riempiti della sua materia.
La natura è così: se non ci stai attento si riappropria di
quello che le hai tolto. Ora le macchine sono tornate fuori. Stanno ferme
al lato della strada. Le persone che le guidavano hanno imparato negli
anni dei parcheggi sotterranei ad utilizzarle il meno possibile. In genere
così restano dentro casa con le finestre chiuse per la pioggia o
per il caldo o anche solo per non avere rapporti con il mondo di fuori.
Anche Corsi ad un certo punto è tornato in strada.
Quella volta che fu preso a calci dal bar al marciapiede
e lasciato parcheggiato con lo sterno fracassato vicino ad un cassonetto
dell’immondizia se ne rimase svenuto tanto a lungo che le persone che passavano
di lì nemmeno lo notavano perché tutto quello che vedevano
era un sacco di rifiuti, una massa informe immobile senza testa e senza
gambe e senza braccia. Era Corsi. Quando si svegliò era un altro
giorno. Aprì l’occhio più sano, l’unico con cui riusciva
a scorgere qualcosa, e vide una pozza di sangue, ma non fu questo a colpirlo.
Nel sangue c’era il cielo sopra di lui. Guardava in basso a pochi centimetri
dal suo naso e poteva vedere i movimenti delle nuvole e i raggi del sole
andare e venire e un aereo passare e tracciare una riga dritta e poi ancora
le nuvole mangiarsi tra loro, cambiare colore, passare dal rosso acceso
al viola al grigio verso il bordeaux e poteva vedere i raggi del sole bucare
quell’oscurità e riportare il cielo al suo colore consueto: il rosso
che veniva dalla sua testa rotta.
Non c’era quasi più dolore perché aveva
perso tanto sangue da poter sentire solo il freddo. Poi da quel cielo cominciò
a scendere acqua, piccole gocce impercettibili che tornavano nel cielo
che Corsi vedeva coi suoi occhi e lo trasformavano in una pozzanghera di
sangue annacquato sempre più sbiadito. Corsi chiuse l’occhio e sentì
il rumore della pioggia. Prima acuto, esile di acqua fina, aspro e sottile
su di lui e poi d’improvviso profondo, scuro, cupo e torvo, sopra di lui.
Era il rumore dell’acqua che si infrangeva sulle falde dell’ombrello nero
di un uomo che gli si era fermato giusto vicino e che ora lo riparava
dalla pioggia battente. Nero era l’ombrello e nera la strada e nero era
il cielo e il sangue e il vestito dell’uomo e neri erano tutti i panni
che indossava Corsi. Tanti e diversi neri. Lui non li vedeva ma era uguale
perché quello che rimaneva della sua mente ascoltava il secondo
movimento del concerto per pianoforte e orchestra n. 1 in mi minore di
Frédéric Chopin. Il suo occhio vide in lontananza Urbana
che dirigeva il traffico che non c’era.
Era lenta e malinconica come la musica…
e le sue braccia erano gentili e forti…
e suonavano il piano nell’aria umida senza mai essere
nervose…
e tracciavano disegni che rimanevano sospesi e luminosi
nell’aria buia della pioggia…
e neanche le gocce li bagnavano…
e se l’acqua aveva coperto il cielo il cielo si era trasferito
giù sull’asfalto…
e illuminava il mondo dal basso verso l’alto con le luci
delle automobili quando passavano…
che correvano lente portate dai gesti di Urbana la pianista.
E Corsi se ne avesse avuto le forze avrebbe pensato che
era bella…
e se fosse stato sano sarebbe corso ad abbracciarla …
e se avesse potuto parlare le avrebbe detto Oggi ho imparato
una cosa nuova della vita…
e questa cosa non so come chiamarla…
ma vorrei che anche tu la imparassi…
perché mi fa scoppiare lo stomaco dalla gioia
quando ti vedo.
Poi si sarebbe messo in disparte…
e le avrebbe chiesto di continuare a suonare il piano
dirigendo il traffico che non c’era…
e poi sarebbe rimasto in disparte a guardarla…
e avrebbe fatto attenzione a non sbattere le ciglia…
e non avrebbe perso neanche un attimo del suo muoversi…
e avrebbe in quel tempo pensato che avrebbe voluto lui
fare nella sua vita almeno una cosa così bene come Urbana adesso
dirigeva il traffico.
Poi se ne sarebbe rimasto in disparte…
e avrebbe fatto attenzione ad ogni istante del tempo…
e poi se ne sarebbe rimasto in disparte a guardarla…
e poi ancora se ne sarebbe rimasto in disparte.
Se Corsi vide Urbana che dirigeva il traffico o immaginò
di vederla non è interessante saperlo, certo è che quando
l’uomo con l’ombrello nero lo protesse dalla pioggia lui non poté
alzare lo sguardo né riuscì a dire nulla. Si sentiva la bocca
impastata e insensibile e pensò Se non avessi i denti rotti le direi
buongiorno anche se sarebbe una ben curiosa ironia sotto una pioggia rossa
in una giornata dell’apocalisse. L’uomo nella mano libera dall’ombrello
aveva una bottiglia d’acqua limpida che svuotò dolcemente sulla
testa di Corsi. Poi si caricò sulle spalle quel sacco di carne e
ossa e se lo portò a casa.
Per quel che riguarda il primo periodo in cui Corsi rimase
nella casa le notizie in mio possesso sono frammentarie. Quando si svegliò
su un letto morbido aveva la testa fasciata e un braccio ingessato al collo.
Una donna lo stava curando e gli parlava e lui non capiva. Corsi non si
interrogò per nulla su questo problema per via del piacere che gli
dava il farsi accudire. Passarono così alcuni giorni. Poi la donna
non si vide più e tornò l’uomo che lo aveva salvato. Corsi
poté alzarsi dal letto ma camminava a tre zampe, con il braccio
destro che gli barcollava giù dalla spalla ogni volta che doveva
saltellare sulla mano sinistra per portarsi avanti. Era alquanto scomodo.
L’uomo più di una volta si permise di domandargli qualcosa ma Corsi
non poteva capirlo e anche se avesse potuto chissà se avrebbe seguito
il suo consiglio. Fatto sta che imparò così bene a muoversi
su tre zampe che quando l’uomo gli tagliò il gesso che gli imprigionava
il braccio per un lungo tempo rinunciò all’idea stessa di appoggiarlo,
continuando a tenerlo pendulo come una inutile propaggine. Ce ne volle
prima che tornasse alla normalità, e quando quel momento arrivò
non mancò di affacciarsi la noia. Per settimane aveva rivolto la
sua attenzione al suo corpo, al suo riprendersi, ricostituirsi, riamalgamarsi
intorno a se stesso, al suo rifarsi, ritornare, riaccomodarsi, riannodarsi,
ma quando questo si fu ormai incontestabilmente ripreso, ricostituito,
riamalgamato intorno a se stesso, rifatto, ritornato, riaccomodato, riannodato,
gli occhi di Corsi cominciarono sempre più a cercare nuove direzioni
ma non era facile perché a forza di guardare il braccio rotto e
le ferite al costato e le mani e le gambe escoriate e i piedi e a forza
di guardarsi il naso e le labbra che dolorosamente si portava in fuori
con le dita della mano sinistra, i suoi occhi avevano preso la brutta e
irreversibile abitudine di mettere a fuoco solo a distanze minime cosicché
nel momento in cui tutto ciò che c’era stato di malato nel suo corpo
tornò alla banale normalità di un corpo sano e la curiosità
e gli occhi di Corsi andarono alla ricerca di nuove emozioni, la porta,
i disegni della carta da parati, la sedia con sopra i suoi vestiti, il
quadro della madonna, il comodino, il bicchiere d’acqua e la stessa luce
si rivelarono sfocati a tal punto che Corsi non era in grado di distinguerli
gli uni dagli altri. Capitava così che tentava di bere il termometro
o di indossare la coperta o provava a rigirare l’orologio come fosse un
libro o si affannava per spegnere il bicchiere. Per giorni la sua vita
fu così caotica che quando l’uomo entrava a portargli da mangiare
lui si fingeva istintivamente ancora malato e si ficcava nel letto e si
faceva imboccare e servire e riverire e quando l’uomo gli parlava con la
sua voce suadente e incomprensibile e dolcemente gli toglieva la lampada
dalla mano per dargli il bicchiere e lo aiutava a bere e lo imboccava col
cucchiaio lui se ne rimaneva immobile come quando si gratta un cane sulla
pancia. Per alcuni minuti erano entrambi felici. Quando l’uomo si allontanava
per uscire Corsi lo perdeva nella nebbia dei suoi occhi prima ancora che
aprisse la porta e capiva che se ne era andato dal suo odore che svaniva
e che indiscutibilmente sanciva il ritorno della solitudine. Allora febbrilmente
si rialzava e si guardava attorno ma niente di sicuro lo colpiva. Tutto
era incerto.
Era la realtà che era diventata miope: riguardo
a questo Corsi non aveva dubbi.
Cammina per la sua stanza. Ne deve toccare ogni millimetro
del suolo. Fa solo linee rette. Le curve mettono ancora più in difficoltà
i suoi sensi. Sta attento a non correre, d’altra parte non si ferma mai
perché i suoi occhi non trovano nulla di interessante su cui posarsi.
Gli angoli sono sempre uguali, i passi sono sempre uguali, le sue mani
sono sempre uguali, sempre uguale il letto il bicchiere il cucchiaio il
sapore del cibo è sempre uguale. Sempre uguali i suoi piedi le mattonelle
gli scarafaggi che ci camminano sopra le vie le linee tracciate sono sempre
uguali, il quadro della madonna è sempre uguale come il suo naso
la finestra il muro che c’è dietro la porta l’uomo che entrerà
è sempre uguale e la lingua che parlerà il vestito che porterà
la scodella che lascerà sono sempre uguali. Così si ferma
e vede col suo occhio sinistro tutto se stesso riflesso nel suo occhio
destro e senza esitare si fa una preghiera, la richiesta di una promessa
e si dice con una voce leggera: “dimmi tutte le immagini che sono scritte
nel tuo occhio stretto che mi rimangano impresse ma dritte però
e no sghembe dimmi tutte le storie frivole dimmi i cani e i sassi che io
possa ricordarli sempre che io possa tenerli tutti con me dimmi gli urli
e gli stridori dimmi gli umori che io possa riconoscerli tra miliardi dimmi
la luce e tutte le sue ombre dimmi con linee dritte e no non dirmi mai
con linee curve che io possa impararle e ripeterle senza guardare che io
possa ripeterle senza andare storto dimmi il tuo riso la riga che fa la
tua faccia nel riso dimmi subito che io possa stringere tutte le linee
dritte adesso e sentirle mie prima di cominciare a girarmi intorno prima
di fare tutto curvo prima di curvare tutte le tue linee dritte prima di
diventare di diventare io, curvo”.
Entra l’uomo ma Corsi è già ficcato nel
suo letto con in mano un termometro. Lo guarda come stesse leggendo un
libro, poi lo porta così vicino al volto che capisce di cosa si
tratta e lo ripone sul comodino. C’è solo una nebbia grigia davanti
a lui adesso. L’uomo ha le fattezze e la voce indistinguibili. Non solo
Corsi non è in grado di dire se ciò che vede davanti a lui
sia l’uomo o la parete o il quadro della madonna e non solo Corsi non può
interpretare il minimo significato dai suoni emessi dall’uomo, ma Corsi
non è in grado di capire se in un dato momento in cui si sta relazionando
con l’uomo sta ascoltando suoni sconclusionati provenienti da lui o sta
guardando forme confuse provenienti da lui. Corsi non sa dire se in un
dato istante sta ascoltando o sta guardando o sta facendo entrambe le cose
o, al limite, non ne sta facendo alcuna. Che sia in presenza dell’uomo
non ci sono dubbi in quanto è l’odorato che glielo conferma e poi
poco dopo è lo stesso odorato che gli dice che non è più
in presenza dell’uomo.
Non c’era altro lì dentro e non ci sarebbe altro
da descrivere se Corsi avesse continuato ad essere toccato da suoni usati
e sgradevoli o da immagini usate e sgradevoli e da suoni usati e sgradevoli
e da immagini usate e sgradevoli nella stanza che lo ospitava.
Poi qualcosa venne da fuori, si infilò tra le
pareti e invase ogni spazio. Corsi salì sul letto e si appoggiò
con le mani al muro per restare in equilibrio sui piedi. Voleva mettere
la testa il più in alto possibile, distese il collo e alzò
le mani lungo la carta da parati fino a che i polpastrelli toccarono il
vetro freddo che proteggeva il ritratto della madonna. Saltò senza
troppi complimenti l’ostacolo. Anche lassù in alto sopra la Vergine
era la stessa cosa. Tornò a quattro zampe giù per terra ma
non cambiava nulla: continuava ad arrivare nello stesso modo dolce e lieve,
con piccole imprecisioni che Corsi non aveva intenzione di percepire. Ecco,
sì, pensò, questo è suono. La donna che l’aveva curato
nei primi giorni stava suonando il pianoforte in un’altra stanza, Corsi
prese a camminare con passo lievissimo verso la fonte, trovò la
porta aperta, la oltrepassò senza accorgersene, continuò
dritto senza mai curvare, giunse al pianoforte, la donna suonava, lui non
la vedeva e nemmeno immaginava alcuna scena, si alzò sulle gambe
quasi come un uomo e ricadde con le braccia e tutto il suo peso sulla tastiera.
Durante e dopo il tonfo la donna continuò a suonare, Corsi lentamente
scivolò giù e si chiuse attorno a se stesso fino a divenire
un fagotto sotto al pianoforte. Durante quel millimetrico spostamento del
corpo, Corsi credette di dire queste parole, anche se dopo nessuno poteva
ricordare di averle sentite: Io se conoscessi la musica creerei una lingua
di note e la prima nota che farei sarebbe quella che dice Parola così
vedrei subito se il perché non voglio più dire dipende da
come è fatta, dall’alchimia delle lettere che la compongono. Creerei
una lingua con le note per dare un senso alle parole e alle forme e farei
parole stridule e parole dolci ma soprattutto farei parole stridule come
sono io e poi imparerei a suonarle e a cantarle per vedere chi mi capisce
lo stesso e creerei parole suoni da fare con le mani su uno strumento e
sarebbero amari quelli per dire il buio e lievi quelli per il giorno. E
piano imparerei a non capire il suono maldestro delle parole e a non dirle
sì a non dirle più davvero imparerei.
Una volta trasformatosi in quello che aveva un giorno
desiderato, cioè in un fagotto, Corsi se ne rimase inerte ed informe
nel suo posto senza che nessuno lo disturbasse. La stanza era calda e poco
illuminata. L’enorme pianoforte a coda era situato al centro della grande
sala che era per il resto quasi completamente vuota. Una sedia in disparte
ospitava l’uomo vestito di scuro che rimase immobile ad ascoltare il pianoforte.
Poi d’improvviso la donna smise di suonare e prese a parlare: Vorrei prendermene
cura. Tu morirai presto: te ne andresti felice se sapessi di lasciarmi
accanto a lui. Vorrei che divenisse la mia stessa vita e che se ne restasse
sempre così com’è adesso. Toccherebbe a me tenerlo in vita,
svegliarlo, imboccarlo, lavarlo. Gli parlerei ed interpreterei i suoi sguardi
vuoti a mio piacimento lo creerei ad immagine e somiglianza dei miei desideri.
Eh sarebbe bello, ci sarebbe un luogo pieno nel mondo e quel luogo sarei
io. Sarei perfino felice. Ed anche nel momento della tua morte che aspettiamo
da sempre ormai, sarei felice.
La desolazione della stanza del pianoforte era data forse
dalla polvere appoggiata su ogni superficie. La luce era elettrica perché
l’unica finestra aveva le gelosie abbassate. Il tempo si conservava immutato
lì dentro e solo pochi minuti di immobilità erano secoli
e per questo Corsi cominciò a ricoprirsi subito di un velo di polvere
prima gentile poi insistente e rozza che in un attimo creò su di
lui uno spesso strato protettivo. La donna riprese a suonare e la musica
faceva alzare una sottile nube che però non ce la faceva a decollare
per più di qualche centimetro. L’uomo non disse niente e non si
mosse per niente e tutto si fermò per qualche anno. In tutto questo
periodo la donna forse smise di suonare ma mai osò avvicinarsi a
Corsi o a quello che rimaneva di lui ma era felice proprio come aveva immaginato
anche se l’uomo che era seduto in disparte non morì mai. Anzi arrivò
il giorno o l’ora o l’istante in cui abbandonò il suo luogo e senza
essere visto dalla donna si diresse alla finestra e ne aprì le tende
e poi ne aprì le imposte e poi ne aprì i vetri.
Ah, lei è stato fortunato ad essere entrato qui
da ospite. Io ci sono arrivato da padrone anzi in verità ci sono
sempre stato. Di cosa vuole che le parli, di lei o di questo spettacolo
che ho davanti? Sa, c’è stato un tempo non molto lontano in cui
ricordavo ancora come era questo prato nei giorni in cui nessuna anima
viva osava calpestarlo. Quelle sporadiche figure che ci camminavano sopra
o erano pazzi oppure non esistevano affatto. Nella maggior parte dei casi
erano solo qualche idea di chi li vedeva, ma questi, che erano reali, ne
avevano timore e non li raggiungevano mai. A volte sì invece. Ora
non so con certezza nemmeno se c’è stato quel tempo anche se ricordo
quando il prato ha cominciato ad affollarsi. Era come se tutti fossero
usciti da un incubo, come se fosse finita la guerra e ognuno avesse avuto
nuovamente il coraggio di incontrare l’altro. I pazzi, le immagini, i sani
e i reali andavano passeggiando insieme e davvero calpestavano l’erba e
lasciavano impronte. Fu allora che pensai di aspettare. Aspettare che passasse
l’euforia. Ma l’euforia non passò e divenne isteria. Nel periodo
tra l’euforia e l’isteria andavo spesso a mischiarmi a quel brulicare di
vita e lo facevo senza pregiudizi con tanta ingenuità, almeno fin
quando le parole, che in principio erano rade che poi si infittirono fino
a divenire il normale sottofondo al movimento, cominciarono a sovrapporsi
e a mescolarsi le une alle altre al punto che le diverse modulazioni di
ogni voce si andarono tutte a ficcare in un’unica nota cupa che non mutava
e non si interrompeva mai. Fu allora che cominciai a venire qui a questa
finestra e a guardare da fuori quello che accadeva sul prato. E non solo
andò peggio di come avevano previsto le mie paure, ma addirittura
andò peggio di come avrei solamente potuto immaginare: i corpi di
quegli uomini cominciarono ad assumere tutti una stessa indistinta fisionomia
e andarono tutti assieme a formare un cancro che si espandeva senza che
nessuno facesse niente. Era un unico colore pastello che mi trovavo davanti,
un colore che non si modificava e non aveva sfumature e nemmeno si lasciava
confondere con il verde del prato. Capisce: un’unica nota ed un unico colore.
E non solo. Col passare delle mie visite a questa finestra cominciai a
dovermi concentrare per discernere gli attimi nei quali ascoltavo la nota
bassa che veniva dalle voci da quelli in cui guardavo il colore monotono
delle facce e dei corpi, fino al momento in cui non riuscii più
a comprendere se ascoltavo o guardavo o facevo entrambe le cose o, al limite,
non ne stavo facendo nessuna. Che fossi in presenza di uomini era fuor
di dubbio perché era l’odorato che me lo confermava e che poi un
giorno mi confermò che non ero più in presenza di uomini.
Rosa aveva chiuso i vetri della finestra e aveva abbassato le gelosie e
aveva avvicinato i lembi delle tende e prima che potessi pensare qualcosa
mi disse Stai con me riparati sotto il mio seno non c’è nulla che
puoi fare per te e per loro hai provato a immaginarli diversi ma è
la realtà che ti sconfigge non la tua immaginazione. Ora aspetta
devotamente e rispettosamente che la malattia ti finisca. Sarò io
ad accudirti e a prendermi cura del tuo corpo e dei tuoi timori.
Io le ho sempre creduto e le ho sempre fatto fare come
voleva e da quando mi era stata interdetta la finestra aspettavo solo che
la malattia prendesse il sopravvento. Non volevo più essere in questo
mondo, ma non volevo nemmeno andarmene, volevo che qualcuno mi venisse
a prendere. Rosa mi aveva obbligato a bere cinque litri di acqua al giorno
per alleviare quelle sofferenze che non ho mai patito, e io l’ho fatto
per un tempo tale che ora potrei dire essere sempre. Ma ho fatto anche
qualcosa di testa mia, per tenere vive le cellule e non annientarle. Un’ora
al giorno, nel mio periodo di uscita, me ne andavo a fumare al bar. Ricordo
che inizialmente non potevo farlo senza avere sensi di colpa, così
presi a fumare e bere acqua, in modo da stare sul crinale tra il lecito
e il trasgressivo, tra la cura e il masochismo, e al bar, in quella condizione
che mi portava in uno stato di trance, potevo stare dentro al prato che
avevo per tanto tempo guardato dalla mia finestra, con voci e suoni e immagini
e passi e persone che mi vivevano intorno ignare di me e di loro stesse.
Durante quell’ora mi sentivo un privilegiato, un innocuo privilegiato.
Un’altra libertà che mi è sempre stata concessa in casa era
quella di andare a pisciare al bagno. La mattina la scena era abitudinaria:
io dormivo sulla mia poltrona e mi svegliavo quando Rosa si alzava dal
letto, aspettavo di sentire smettere il rumore dell’acqua del lavandino
e poi entravo a mia volta nel bagno. Mentre lei era seduta sul gabinetto
io mi lavavo mani faccia e denti, poi non appena lei finiva e tirava l’acqua
io mi mettevo a pisciare e lei andava a sciacquarsi le mani. Poco prima
che io finissi lei era già fuori diretta in cucina a prepararmi
la colazione che io andavo a ricevere al mio tavolo.
Perché mai le sto raccontando particolari di vita
intima, si chiederà. Beh, la accontento subito. Proprio la mattina
del giorno in cui lei e la sua amica siete venuti nel mio bar la scenetta
di vita quotidiana che le ho descritto ha subìto una variazione.
Una variazione minima e di poca importanza: Rosa ha dimenticato di tirare
l’acqua cosicché quando io sono passato dal lavandino alla tazza
ho potuto vedere con i miei occhi i resti liquidi del suo corpo. Non che
questo mi abbia fatto effetto, ma la sua indifferenza mi ha mostrato il
fondamento della differenza tra me e lei. Rosa, essendo una donna,
non ha mai guardato la sua urina, mentre io prendo ogni volta in mano il
mio pene e la accompagno in tutto il suo percorso e ne controllo il getto
con un sapiente gioco di manubrio, acceleratore e freno e la guardo tutta
non ne perdo nemmeno una goccia e ogni giorno ne controllo il colore e
la quantità e la considero proprio una parte di me che io espello
senza acredine e che mi si ripropone e più di una volta abbiamo
giocato assieme: tanto tempo fa su una spiaggia abbiamo scritto frasi d’amore
e un’altra volta ho innaffiato con un getto spaventoso il vicino di casa
poco simpatico e sono certo che da ragazzo vincevo tutte le gare con gli
amici a chi arriva più lontano. Rosa no, Rosa non la ha mai guardata
e non la nomina, per lei la piscia non esiste, dopo averla fatta chiude
la tazza girando gli occhi alla finestra opaca e poi tira l’acqua come
si tira una tenda o un sasso. Per questo Rosa è aerea e io sono
terrigno. Tutto questo l’ho capito la mattina in cui per la prima volta
vidi la mia urina che si mischiava a quella di Rosa.
Come ogni giorno andai al bar e per la prima volta pensai
che forse non era vero che sarei morto, che era tutta una menzogna, e decisi
il resto. Lei, signore mio, è stato il mio primo atto da tempo immemorabile.
Non che Rosa non lo abbia notato, ma ha creduto di poterci tenere tutti
e due sotto la sua ala protettrice. E’ stato un errore. Adesso siamo in
due. Colga questa opportunità la prego, salti con me dalla finestra.
Non si faccia ammaliare dal potere consolatorio della polvere, si scuota,
venga via, c’è bisogno di lei, c’è estremo bisogno di lei
nel mondo.
Corsi non aveva capito una parola di quello che aveva
detto l’uomo, certo è che dei suoni erano giunti alle sue orecchie
ma il significato di quei suoni gli era completamente oscuro. Il suo corpo
non si muoveva da tempo immemorabile e si chiese per un attimo se era esistito
un momento nel passato in cui si fosse mosso o se era sempre stato immobile.
La soluzione non era alla sua portata da un punto di vista logico in quanto
da un’ottica esperienziale Corsi poteva notare che lo strato di polvere
che lo copriva era spesso poco più di un centimetro. Questo dava
a intendere che era lì da non più di qualche mese, ma se
era vero allora era lecito ammettere un prima, che lui non ricordava assolutamente
e che poneva altri problemi. Il primo riguardava il cibo: se era stato
tanto tempo immobile cosa e come si era nutrito? E se non si era nutrito
come era sopravvissuto, perché era chiaro: Corsi non aveva dubbi
sulla sua appartenenza al genere umano. In un momento della sua vita che
ora non ricordava se ne era fatto un cruccio ma ora aveva accettato la
realtà. E, assodata la sua umanità, come era conciliabile
la sua immobilità? Non poteva infatti negare che fosse totalmente
fermo: si concentrò su ogni parte del suo corpo, anche la più
inutile e periferica, per coglierne un movimento appena percettibile, ma
non trovò nulla a confortarlo. Per settimane era rimasto completamente
immobile in un corpo privo di bisogni.
Corsi per la sua natura non poteva prendere in considerazione
la possibilità di essere morto, cosa che ogni uomo in salute avrebbe
fatto. Come detto, invece, non c’era logica nella sua avventura, e decise
di non costringersi troppo a spiegarla nei particolari. In fondo era lì,
poteva sentire dei suoni provenire dall’uomo che lo aveva salvato e accudito,
aveva coscienza di sé, e se fosse riuscito a muovere qualche arto
avrebbe forse potuto anche togliersi da quel torpore. Provò. E riuscì.
E saltò dalla finestra. E saltarono dalla finestra. E furono in
strada. Uno con due piedi e l’altro con quattro zampe. Senza guinzagli
ma anche senza parole. L’uomo dritto pensava Qual è la strategia?
E Corsi pensava Non esiste strada vuota in cui non si possa incontrare
qualcuno.
Non pioveva nelle strade. Non pioveva più. Camminavano
con i loro sei arti A Corsi facevano male le mani e quando poteva si fermava
a sciacquarle ad una fontanella. Era forse la prima volta che Corsi sentiva
questo tipo di stanchezza, e succedeva perché ora la sua mente non
riusciva più a dirigere il proprio interesse sugli oggetti e le
piante e gli essere animati e inanimati e i movimenti e le immobilità
di tutto ciò che era nel mondo che lo circondava, ma lo guidava
in ragionamenti a tratti logici che prendevano forma venivano guidati erano
alimentati deviati protratti elaborati dalle parole dell’uomo che lo accompagnava.
Quando la voce si soffermava per un attimo su qualche pensiero che potesse
riportare alla mente la stanchezza Corsi si fermava e si sedeva a terra
quasi come un essere umano e si strofinava le mani. Ne cadeva una pioggerellina
di polvere e piccoli sassi che lasciavano il segno sui palmi, prima che
Corsi tornasse a camminare. Poi l’uomo riprendeva a parlare e Corsi a pensare
come se la sua mente fosse mossa da una qualche sorta di logica umana anche
se erano più numerose la volte in cui non riusciva a capire il suo
pensiero da quelle in cui al contrario gli sembrava che qualcosa gli fosse
chiaro.
Si divisero solo una volta. Erano stanchi e seduti su
una panchina in un parco il cui prato continuamente scosceso era uniforme
e di un verde intenso per le piogge battenti con grandi alberi che vi nascevano
sopra e nessuna persona che lo calpestava. L’uomo pensava e diceva e Corsi
si strofinava le mani e pensava, poi l’uomo disse Io devo pisciare e Corsi
rimase in silenzio, si sfregava le mani e pensava Io no. L’uomo disse Allora
io vado dietro quell’albero, tu aspettami qui e si alzò e fece due
passi. Quando si voltò Corsi lo guardava ma quando tornò
a camminare Corsi già si era addormentato. Proprio sotto l’albero
sul cui tronco aveva pensato di orinare c’era una donna distesa e umida.
Non più bagnata, perché ormai non pioveva da un po’, ma umida.
Aveva gli occhi chiusi e l’uomo le si avvicinò con i calzoni già
sbottonati e la scosse ma la donna non si muoveva allora l’uomo la scosse
ancora ma la donna non si muoveva ancora e allora l’uomo la scosse una
terza volta e la girò cosicché se prima era su un fianco
ora poteva guardarla direttamente in volto e poiché la donna non
dava ancora alcun segno le carezzò il viso e disse a bassa voce
per svegliarla senza volerla svegliare Signora, signorina, sta bene? e
a quella domanda sorprendentemente la donna reagì e senza aprire
gli occhi e senza muovere alcun muscolo del corpo e della faccia solo quelli
indispensabili a cacciare le parole disse Mi fingo morta. Allora l’uomo
che ancora aveva i calzoni aperti cercò intorno un altro albero
ma il più vicino era lontano e camminò veloce per raggiungerlo
e per frenare lo stimolo che gli premeva. Prima di pisciare fece l’errore
di voltarsi verso la panchina: i suoi occhi scorsero da lontano Corsi sdraiato
sulla sua panchina e il suo volto sorrise ma gli rimase tra i denti
una smorfia quando vide che un poliziotto si avvicinava al suo amico. C’era
sole e caldo e un vento bollente e umido e l’uomo non capì perché
il suo volto era improvvisamente bagnato. Tirò fuori dalla tasca
un fazzoletto mentre il poliziotto si rivolgeva a Corsi con le sue parole
preferite: Maschio, non si può stare qui, non si può dormire
sulle panchine. Corsi sentiva tutto e capiva tutto anche se in verità
non c’era molto da capire, tuttavia non si capacitava del perché
avesse detto “le panchine” dal momento che lui ne stava occupando a malapena
una, peraltro in attesa che tornasse il suo compagno di viaggio. Mentre
Corsi pensava a quale sarebbe stata la migliore strategia per affrontare
l’attacco il poliziotto gli scosse il corpo appoggiandogli il suo randello
sulla pancia ma non fece in tempo a scuoterlo ben bene e a finire di dire
Guardi che qui ci vengono i bambini che Corsi con gesto felino agguantò
il manganello e se lo strinse con una morsa al corpo e stava quasi per
prendere a tremare per la paura e il dolore che cominciava già a
percepire dei calci e delle mazzate che gli sarebbero arrivate che l’uomo
arrivò trafelato e disse Agente agente laggiù c’è
una donna distesa sotto un albero che sembra morta ma il poliziotto ci
mise un po’ a connettere e a capire cosa gli stesse accadendo e il più
lesto di tutti fu Corsi che aprì subito gli occhi e catturò
la fotografia dell’uomo col braccio disteso e il dito indice puntato e
lasciò la presa e dimenticò i dolori e la paura e si scaraventò
giù dalla panchina e cominciò a correre come un cane arrabbiato
verso la direzione di quell’indice e si perse agli occhi dei due dietro
un declivio e fu tutto così veloce che il poliziotto rinfoderò
la sua arma e chiese un po’ retoricamente Ma che cosa era? e l’uomo mentre
si sedeva sulla panchina rispose Non avevo mai incontrato una persona così.
Il poliziotto fece la mossa di sederglisi accanto e stava per dire E’ qui
che si vede l’efficacia del nostro lavoro ma l’uomo senza degnarlo di alcuna
considerazione riguardo al suo ruolo si alzò e si allontanò
senza voltarsi e poté solo sentire la voce alta da dietro che gli
domandava Ma… quella donna? Poi percepì appena qualche altra
parola sottovoce che messa insieme suonava Qui mi sembrano tutti matti.
Nel momento in cui il poliziotto riferendosi a Corsi
che correva a quattro zampe chiedeva all’uomo Ma che era, Corsi, seduto
con la schiena appoggiata al tronco dell’albero dove l’uomo non aveva pisciato,
si sfregava le mani. Poi nel momento in cui l’uomo riferendosi a Corsi
e ai momenti passati con lui rispondeva al poliziotto Non avevo mai incontrato
una persona così, Corsi, con il culo appoggiato su una radice dell’albero
dove l’uomo non aveva pisciato, guardava il volto morto di Urbana. Poi
nel momento in cui il poliziotto riferendosi a Corsi e al proprio orgoglio
di uomo delle forze dell’ordine diceva E’ qui che si vede l’efficacia del
nostro lavoro, Corsi, con le ginocchia appoggiate a terra alla base dell’albero
dove l’uomo non aveva pisciato, con una mano ruvida accarezzava il volto
caldo di Urbana. Poi nel momento in cui l’uomo si allontanava dalla panchina
e il poliziotto confuso dal pensiero di quello che stava accadendo domandava
ad alta voce all’uomo Ma… quella donna?, Urbana, con il corpo steso all’ombra
dell’albero dove l’uomo non aveva pisciato, apriva gli occhi e incrociava
il suo sguardo con quello di Corsi. Infine nel momento in cui l’uomo si
era già allontanato dalla panchina e poteva appena percepire le
parole del poliziotto che riferendosi a tutta la situazione si diceva Qui
mi sembrano tutti matti, Corsi, in una posizione qualsiasi accanto
all’albero dove l’uomo non aveva pisciato, diceva sottovoce:
“Urbana”.
Non c’era più vento. L’uomo vide i due da una
posizione che li rendeva belli e addirittura si dimenticò di non
aver pisciato. Corsi e Urbana si alzarono senza altre parole e andarono
da lui che li accolse entusiasta dicendo Venite, venite di qua e
li portò ad un laghetto coi pesci, dove si gettarono e poi si spogliarono
nudi e giocarono per ore, forse per mesi con l’acqua un po’ torbida e non
pensavano a niente tranne che a guardarsi cambiare le ombre sui volti e
sui corpi a seconda degli schizzi alzati e della luce sempre più
rossa e poi sempre più flebile del sole. Quando fu buio uscirono
dall’acqua e tutti i loro corpi erano una piaga ma le loro bocche avevano
sorrisi e quando si rimisero i vestiti fradici sentirono freddo e si spogliarono
ancora e rimasero così fino al giorno dopo, senza mai dormire, stesi
a guardarsi le gocce di fango scivolare tra i peli e poi a guardarsele
seccare sulla pelle e poi a scrostarsi con le unghie dolci sui capezzoli
e sulle facce e dure e profonde sulle braccia e sulle schiene. La mattina
asciugò i vestiti, e prima che si rimettessero in cammino l’uomo
avrebbe voluto dire Devo andare a pisciare, ma guardandosi intorno in cerca
di un albero disse Ma perché non c’è nessuno? Corsi pensò
Non c’è strada vuota in cui non si possa incontrare qualcuno e Urbana
disse Andiamo. Prima di uscire dal parco l’uomo si fermò ad un tronco
tagliato, quando raggiunse i due che non si erano fermati si tirò
su rumorosamente la cerniera lampo dei pantaloni.
Erano in strada. In mezzo alla strada. Una persona fortunata
li avrebbe potuti scorgere di spalle, mentre si allontanavano. L’uomo a
quattro zampe procedeva con il culo in alto, mentre gli altri due lo incorniciavano
ai due lati del corpo e tenendosi per mano sembravano proteggerlo nel caso
in cui il cielo gli fosse caduto sulla schiena. Corsi dal canto suo non
si prendeva cura di sé e in assenza di parole altrui occupava la
sua mente cercando di ricordare una ad una tutte le stelle che aveva
visto durante la notte.
Poi si fermò, gli altri due continuarono per un
solo passo sufficiente perché le loro mani superassero la sua schiena
e la sua testa che aveva il volto rivolto verso il basso. Si staccarono
e si voltarono verso di lui che aveva alzato lo sguardo. Gli occhi dei
due erano in quelli di Corsi persi nello spazio tra i loro corpi. Non ci
fu alcuna pausa prima che dicesse:
“l’altrastèrio nefìnga amàto e strida
a mio seno. inpasto masi collùmo li ormi altistèrici mi si
àddono a iose iò nulto vidèo desìdi ai caldii
le portio fischi ne gore. feba cannoìa ei nisidèi e strida
a mio seno e strida a mio seno artoùde”.
Poi riprese a camminare e i due gli tornarono accanto
sicché incorniciandolo ai due lati del corpo tenendosi per mano
sembravano proteggerlo nel caso in cui il cielo gli fosse caduto sulla
schiena.
I tre procedevano a Ovest. Senza alcuna parola. Corsi
piegò la testa e vide sotto di sé un’ombra molto indistinta
a cui non era abituato. Il nero sotto di loro gli si allungava davanti
in un’unica figura che mutava davvero poco percettibilmente. Stabilì
che loro tre insieme erano un unico essere informe proprio come quell’ombra
e voleva dirlo a tutti che aveva incontrato qualcuno, che era parte di
altri e si eccitò per un momento ed ebbe un’erezione come non gli
capitava da così tanto tempo che era una sensazione completamente
nuova per il suo corpo e si mise paura e non si fermò ma rallentò
il passo e strinse lo stomaco e poi si vergognò un po’. I due che
si erano guardati interrogativi per il rallentamento di Corsi non capirono
molto ma compresero che sarebbe stato meglio rimanere in silenzio sull’accaduto
e solo dopo qualche centinaio di metri l’uomo disse Andiamo a festeggiare
e Urbana rispose di sì e Corsi non capiva cosa ci fosse da festeggiare
ma non riuscì a dire niente che i due cominciarono a correre e Corsi
li guardò allontanarsi e poi con le sue quattro zampe li rincorse
e li raggiunse e poi li precedette tanto che divennero gli altri due gli
inseguitori fino a che tutti e tre caddero stremati a terra. Faceva caldo
ed era quasi buio perché erano sotto una galleria. Si vedeva la
luce uscire dalle aperture dietro e davanti a loro. Erano come due mezze
lune appoggiate a terra. Sembravano vicine. Passavano poche macchine e
si sentivano dal momento in cui entravano nell’imboccatura del tunnel.
Erano assordanti già in lontananza e quando arrivavano nelle vicinanze
non ci si poteva non tappare le orecchie con le mani. Corsi non lo faceva
perché se ne rimaneva immobile steso a terra come un morto che cerca
di recuperare le energie. Gli altri due seduti appoggiati con la schiena
al muro stringevano gli occhi e ridevano e cercavano di non farsi invadere
la testa dal rumore.
Arrivai dalla parte opposta a quella da cui erano giunti
loro. I due seduti non mi conoscevano affatto e Corsi non poteva ricordarsi
di me e io stesso non avevo mai incontrato i due seduti ma ebbi l’impressione
di riconoscere la massa a terra che era il corpo di Corsi. Ho ancora adesso
impresso nella mente quel momento: una macchina che era appena uscita dal
tunnel lasciò velocemente spazio al silenzio, io mi fermai e girai
il volto verso l’uomo e la donna seduti che lentamente e con perfetto sincronismo
rilasciarono i muscoli delle loro facce e allontanarono le mani dalle orecchie
e aprirono gli occhi e la prima cosa che misero a fuoco fu la mia figura
che era sul marciapiede opposto. Ci fu un silenzio imbarazzato e solo per
questo la mia attenzione si spostò su Corsi che ancora era immobile
a terra. Ci fu un tempo non misurabile in cui tutti rimanemmo fermi e non
passarono macchine e non si videro persone e non si sentì alcun
genere di suono nell’attesa che fosse Corsi a rompere il vuoto dal quale
eravamo circondati.
Ma Corsi non si muoveva e non dava segni di vita alcuna.
Mi sorprese il fatto che non avesse gli stessi vestiti
che portava l’ultima volta che lo avevo visto nel parcheggio sotterraneo
e che non fosse circondato da quell’odore acre che mi era rimasto nel naso
per mesi dopo il nostro ultimo incontro. Ma non ci fu spazio per pensare
a cosa gli era potuto succedere perché la mia attenzione cominciò
a tentare di scovare il più infinitesimale movimento del suo corpo.
Non posso dire se gli altri due stessero facendo lo stesso perché
non avevo possibilità di distrarmi. Fui attratto prima dal corpo
intero di Corsi, poi dai suoi arti, poi dalle mani nude perché forse
avrei potuto ravvisare lì un qualche minimo spostamento; ma benché
tenessi fisso lo sguardo tanto che mi facevano male gli occhi nel tentativo
di non battere le ciglia non riuscivo a notare alcun cambiamento di stato
e allora andai ad indagare le sue labbra e se il respiro dal suo naso faceva
muovere l’aria ma ero troppo lontano per questo e non volevo avvicinarmi
perché non potevo rompere il silenzio e allora mi concentrai sugli
occhi e le pupille coperte dalle palpebre che tuttavia non tradivano alcun
segno di vita. Poi la mia attenzione e quella degli altri due fu distolta
dalle due aperture della galleria e in tre gesti identici e paralleli voltammo
di scatto le nostre teste verso la mezza luna da cui ero arrivato io. Pioveva
di nuovo. Così forte che l’umido che si era creato con la pioggia
che era già caduta si risvegliò e trasudò dalle pareti
della galleria e la prima goccia che cadde non riuscì ad arrivare
all’asfalto perché si infranse sulla fronte di Corsi i cui occhi
ebbero un sussulto e fu solo allora che entrò un’altra macchina
e tornò a sentirsi il boato del motore e una coppia di innamorati
entrò dall’apertura opposta a quella da cui arrivava la macchina.
Venivano da dove ero giunto io ma nessuno ci fece caso perché tutti
e tre andammo a soccorrere Corsi che era strisciato a terra fino ad appoggiare
la sua faccia alla roccia della parete e aveva tirato fuori la lingua per
leccare l’umido che trasudava. Io conosco quest’uomo dissi ai due mentre
tenevamo a fatica il corpo esausto di Corsi sollevato alla ricerca di qualche
goccia che potesse dargli sollievo. Urbana rispose immediatamente Anch’io
mentre l’uomo rimase concentrato sul suo sforzo per un po’ e solo quando
poté rilassarsi mi guardò e disse Anch’io.
Arrivarono due innamorati e non si fermarono a guardare
la nostra fatica ma ci vennero incontro correndo. L’uomo grosso e anziano
aveva in una mano la mano dell’uomo alto e magro e nell’altra mano una
lattina di birra che mise subito sotto le labbra di Corsi che bevve avidamente.
Poi l’uomo alto e magro tirò fuori da una tasca un pezzo quadrato
di cioccolata. Disse Io sono Ca e Corsi mangiò. Poi l’uomo grosso
e anziano disse Io sono Remo, stiamo andando di là e indicò
con un braccio e un dito distesi l’apertura dalla quale erano arrivati
i tre e verso la quale anch’io ero diretto. Prima che Urbana e l’uomo potessero
rispondere qualcosa Corsi domandò “Perché tornate indietro?”.
Seguimmo Corsi per tutta la galleria fino ad un tombino
poco prima dell’uscita. Corsi ci girò intorno un paio di volte e
si fermò solo quando Remo disse Ho fatto il carpentiere. L’uomo
grosso e anziano piegò il suo corpo pesante sulla grata rimanendo
con i piedi sull’asfalto. Non sembrava possibile che potesse rimanere in
equilibrio. Afferrò con le mani i bracci di ferro e dopo qualche
secondo con un unico sforzo liberò l’apertura. C’era una scala.
Fu un problema portare Corsi di sotto: toccò imbracarlo in una coperta
fatta con i nostri vestiti annodati e calarlo lentamente giù per
il passaggio. Era completamente buio. E stretto. Corsi non aveva problemi
per la sua posizione naturale in cui camminava e doveva aspettarci più
volte. Le nostre voci sarebbero rimbombate se qualcuno avesse parlato ma
l’unica cosa che sentivamo era il rumore dell’acqua e dei passi. Ca estrasse
dai pantaloni altra cioccolata e tutti ne mangiammo un po’. Ad un altro
tombino Corsi ripeté la sua danza e Remo le sue parole e la sua
esibizione e noi tutti la preparazione della coperta ma Corsi così
com’era si gettò di sotto e atterrò sulla cappotta di una
macchina abbandonata lì da chissà quanto. Tutti lo seguimmo
in quello spiazzo sotterraneo che una volta era stato il mio parcheggio.
“Nantistèrni sottomanni d’alghe ante a tabbàccioli
te macca, asopèto ato mollo mullo e no conchi avvia ala partéte
do do. Tronfi cerecchi e no no e nonnò siddò micca
fu, Urba”. Queste furono le parole di Corsi mentre scendeva dal cofano
e noi lo seguivamo e mentre girava intorno alla macchina e noi lo imitavamo.
Pensavo alle mie pupille inadatte a quel buio eppure così generose
da dilatarsi a dismisura mentre Corsi forse ci diceva qualcosa ma i suoi
suoni i pensieri di ognuno le domande lo strusciare dei pantaloni i piedi
sulla cappotta o sul cofano o sull’asfalto vennero interrotti senza appello
dal rumore inatteso di un urto contro un oggetto da parte di Urbana che
si affrettò a dire C’è qualcosa qui e poi forse si piegò
a tastare e tutti la immaginammo cercare con le mani protese e il corpo
piegato in avanti ad occhi aperti come se avesse potuto aiutarsi con la
vista e dopo pochi secondi disse Forse una lampada. Era la mia e dissi
E’ la mia. L’uomo che una volta aveva incontrato Corsi mentre beveva acqua
e fumava aveva ancora molti Minerva ma nel serbatoio era rimasto così
poco olio che a malapena arrivammo alla mia saracinesca che Remo il carpentiere
aprì perché dietro tra le altre cose abbandonate c’era una
tanica di liquido buono a fare la luce. Corsi fece ancora strada e dopo
un pezzo di cioccolata arrivammo al suo rifugio.
La natura se ne era quasi completamente rimpossessata.
Sui muri fradici d’acqua si erano insinuate muffe e funghi e delle specie
vegetali che odiano la luce. Abbarbicate tra le spaccature aperte nel cemento
armato erano le nuove regine e i nuovi re, adesso. Non le toccammo e non
le guardammo, solo facemmo loro un po’ di dolore con la lampada ad olio.
Ah, che buffo. Ora che scrivo di quel momento non posso
di nuovo fare a meno di romanzare quello che è realmente accaduto:
gli istanti in cui tutti alla poca luce ci siamo avvicinati l’uno vicinissimo
all’altro al muro, i nostri sguardi confusi nel vedere quelle specie di
alghe che chissà per quale strada erano arrivate a conquistarlo,
gli occhi di ognuno di noi che si muovevano in direzioni diverse verso
un richiamo ignoto, l’odore di tabacco che mi riportava alla mente i giorni
delle mie chiacchierate con Corsi, la scoperta delle parole che quel tabacco
formava sul muro, il suono della voce di Urbana che le cominciava a leggere,
la musica che ne usciva e che ci cospargeva tutti.
Eh, no. Non potrò proprio fare a meno di essere
soggettivo anche nel riportare su pagina quello che trovammo scritto con
il tabacco masticato sulle pareti del rifugio di Corsi. Le parti che non
ricordo o che ricordo male o che ricordo mutilate o che ricordo illeggibili
perché coperte dalle piante le inventerò con l’accortezza
di metterle tra parentesi quadre.
“Finalmente riesco a sopportarne il sapore, del tabacco.
Era mio nonno che ne usava in quantità inimmaginabili. Ne aveva
scorte per anni ma masticava sempre il più fresco. Nella sua vecchiaia
si era rifugiato in casa e le sue occupazioni erano consumare tabacco e
scaracchiare nelle sputacchiere.
Quando è morto la sua casa era appestata.
Io e mio fratello che eravamo bambini portammo in cantina
sedici scatoloni pieni di tabacco vecchio forse di decenni, in attesa di
prendere una decisione sul da farsi. Una decisione che nessuno si era mai
accollato fino ad ora. Svuotammo la casa. I mobili erano inservibili per
l’odore che mandavano.
Da quando lo conoscevo, mio nonno non l’avevo mai visto
aprire una finestra. Neanche quella del bagno. A lungo mi sono domandato
la ragione della sua vita. Dei suoi atti senza prospettiva. Aveva stritolato
il mondo intorno a lui, lo aveva reinterpretato secondo i suoi bisogni
e desideri più primordiali. Ma poi aveva finito per crepare e sprecare
tutto.
Alla sua morte io e mio fratello buttammo tutto. Lavammo
e dipingemmo i muri e cambiammo i pavimenti. Ma non ci fu nulla da fare:
chiunque entrava in quella casa, anche dopo mesi dalla ristrutturazione,
si tappava il naso e scappava fuori. Noi la vendevamo ad un prezzo ridicolo
ma i clienti scappavano ancor prima di vederla. Anche io odiavo quell’odore.
Era acre e pesante e ti entrava nel naso. La casa è ancora lì.
Forse. Il tabacco è rimasto in una cantina dimenticato dai ricordi
di tutti. Ma
quando ho cominciato a vomitare ogni volta che mi sentivo
parte del mondo il vecchio pazzo mi è tornato su con un conato vuoto,
e l’ho odiato per essere andato via senza avermi cercato, per aver fatto
una rivoluzione personale che lascia nel limbo quelli tutti gli altri.
Allora quel tabacco l’ho portato qui e ho imparato a
masticarlo ed è ancora peggio di come potessi immaginare perché
quello più vecchio si è mischiato alla muffa e il sapore
che rilascia è per veri maschi. Ho imparato anche a fumarlo. Lo
chiudo nelle pagine fine di una bibbia che qualcuno mi regalò e
io non ho mai letto ma per scrupolo ho sempre portato con me. Finalmente
si rivela utile. Ogni oggetto ha il suo tempo.
Ora mastico e attacco i boli al muro.
Fumo e spengo i mozziconi sul muro.
Ogni bolo ed ogni mozzicone spento mi aiutano a disegnare
una lettera cosicché non mi sento troppo solo in questo rifugio
in cui sono venuto a dimenticarmi. Scrivo. Come ho sempre fatto, in fondo.
Scrivo qui da 1419 resti di [tabacco. Ne ho avuti di stupori. Ma ho sempre
camminato eretto. Tutto ciò che ho intorno mi ha allappato ed è
per questo che mi prendo altri tempi e altri sapori. Me ne sto anche fermo
ad ascoltare la fame mentre il mio maiale si trangugia suo padre. Me ne
sto anche fermo a sentire il tempo passare senza che possa colpirmi. Qui
sotto non ho tempi e] priorità, non ho [parole se non quando uno
strano uomo con due ciuffi biondi ai lati del cranio viene a trovarmi con
la sua lampada ad olio. Voglio dimenticare il ricordo ma prima di dimenticarlo
voglio ricordarmi che gli devo ricordare che viviamo su morti che facciamo
ogni giorno da qualche altra parte del mondo e anche qui sotto le nostre
case. Devo ricordarmi di ricordargli che io ho deciso di diventare uno
di quei morti senza morire però ma solo ricominciando da solo a
partecipare.
Che stupido. Ho detto all’uomo buffo che ho subito un
abbandono. Non che l’abbia desiderato, ma l’ho fatto.
Ho scelto e basta.
I sentimenti non c’entr]ano.
Reprimo fino a dimenticare la curiosità avida.
Del fuori di qui.
Non mi domando più che ne sarà del mondo,
delle sue strade vuote di gente.
No non voglio morire ma rinascere e decidere il mio destino.
So che solo non avrò alcuna possibilità ma sono certo: non
c’è strada vuota in cui non si possa incontrare nessuno. Ho fiducia
negli uomini, non nel genere umano che detesto. Trotterello intorno, gli
occhi si sono abituati al buio fosco, le parole no al silenzio. Ma dalla
mia parte ho il tempo.
Per chi registro il mio passa[to? Per altri un giorno.
Per l’uomo che viene qui. Ma non mi lamento. Ho ancora Bob che mangia con
me i resti del padre di Bob.
Ho un dubbio: dove andranno i miei ricordi quando li
avrò dimenticati]? Tanto a cui non penso più da tempo si
è rifugiato. Ne ho paura. Incontrerò qualcuno con cui mi
costruirò, mi edificherò. Con il fare.
Forse ho offeso l’uomo della lampada ad olio perché
a lungo gli ho riso davanti senza riuscire a parlare. Ma mi sono reso conto
che la sua presenza mi porta ricordi e coscienza. Me ne libererò
la prossima volta che ver me ne sono liberato, l’ho semplicemente cacciato
via. Me ne duole ma ho bisogno di dimenticare e per farlo devo essere libero.
Le scorte stanno per finire. E’ arrivato il momento di macellare Bob e
l’ho fatto senza passione. Lo sapeva. Ne era certo anche più di
me che sarebbe successo. Questo è stato il mio ultimo assassinio.
Qui [sotto devo scrivere a quattro zampe, tanto vale
rimanere così: ho tutto a portata di mano. Ci sarebbe spazio per
tutte le casse di tabacco su questo muro, ma presto smetterò perché
scr]ivere comincia a darmi nausea. ”.
La voce di Urbana era calda mentre tutto il resto era
freddo e umido. Corsi era seduto a terra a gambe stese e rivolto lontano
da ogni sguardo. Urbana si interruppe per un po’ poi disse Il resto è
solo muschio e funghi. Remo disse Ci deve essere una infiltrazione da qualche
parte. Ci fu una risata di fronte alla quale Corsi rimase impassibile.
E anche Ca che quando tutti si furono calmati disse Io lavoro alla banca
del seme e Corsi si voltò verso di lui e senza fatica gli disse
“Andiamoci”.
Fu davvero sorprendente perché tutto lì
sotto terra ancora funzionava perfettamente. Erano forse anni che avevo
deciso di abbandonare la macchina, eppure lei non mi aveva dimenticato.
Salimmo tutti e sei, uscimmo dalla saracinesca scardinata da Remo, arrivammo
all’ascensore che ci portò in superficie, aprii il cancello con
la chiave che ancora avevo e ci lanciammo in strada.
L’aria aveva un bel profumo. Tenevamo tutti i finestrini
aperti e ci pioveva addosso. Faceva caldo. Ca parlava e noi lo ascoltavamo:
Io faccio il portantino dello sperma. La gente che viene,
dopo aver risposto ad un po’ di domande, si chiude in uno stanzino asettico
che odora di ammoniaca. C’è un televisore al centro di ogni muro
dove vengono proiettate immagini richieste dall’uomo per avere una eccitazione
produttiva. Abbiamo oltre cinquecento videocassette porno, di ogni genere.
Il donatore ne sceglie quattro nella nostra saletta del cinema, poi
sta a noi mandarle sui televisori dello stanzino. C’è chi chiede
di masturbarsi con immagini di sesso canonico, chi con scene omosessuali,
o con gruppi, o donne e animali, o solo animali che si accoppiano, o bambini,
o vecchi, o con immagini violente, stupri, sgozzamenti, torture, omicidi.
Abbiamo dei clienti a cui la banca tiene particolarmente perché
il loro seme è considerato di grande qualità e per questo
richiestissimo e pagato profumatamente. I loro nomi sono segretissimi,
soprattutto per gli acquirenti del seme. Possono essere messi in relazione
con la provetta solo dietro pagamento di una lauta tassa per lo svelamento
del segreto. Per accontentare i nostri preziosi clienti più affezionati
e depravati il direttore della banca ogni mese rinnova l’intero parco delle
videocassette. I donatori che hanno più difficoltà con il
proprio sesso o che semplicemente non amano masturbarsi, o quelli che non
disdegnano essere clienti della prostituzione hanno nella nostra banca
la possibilità di pagare una piccola quota e farsi accompagnare
nello stanzino da una delle nostre segretarie. Il periodo di permanenza
dei due assieme è anche soggetto alla disponibilità economica
e alla magnanimità del cliente donatore. Il nostro direttore per
rientrare con le spese porta anche avanti una piccola attività ai
limiti del lecito: con quattro microvideocamere invisibili poste in corrispondenza
dei televisori registra gli amplessi degli uomini che chiedono di accompagnarsi
con una o più segretarie. In seguito nella centralina di montaggio
vengono prodotti veri e propri film con l’attenzione di non svelare mai
i volti noti e meno noti che ne sono interpreti. I nostri rapporti con
i produttori del porno più estremo quindi sono ottimi. Certo, il
nostro direttore si rode il fegato per questa caduta di stile ma si rincuora
sempre dicendosi e dicendoci che è un male necessario per continuare
a far vivere la nostra missione che aiuta donne mediocri ad avere figli
migliori di quelli che il loro patrimonio genetico potrebbe permettere
loro.
Beh, in tutto ciò io accompagno il donatore nello
stanzino e gli riapro la porta quando suona il campanello. Io entro, prendo
il bicchiere con le mani inguantate, lo pulisco con una pezzetta mentre
una donna entra a sterilizzare l’ambiente. Porto lo sperma ancora caldo
al banco delle analisi dove viene controllato in ogni dettaglio e schedato
in base alla qualità. Torno a riprenderlo dopo qualche giorno in
una provetta che inserisco nel frigorifero i cui estremi sono scritti sul
libretto che ogni provetta ha di sé. Del bicchiere di sperma ottenuto
non ne rimane che poco più di un millimetro per un centimetro. Il
seme è a questo punto pronto per la vendita. Formalmente non me
ne curo più, ma per un periodo ho studiato l’appartenenza di ogni
provetta, perché ero riuscito a capire il metodo per risalire attraverso
il numero d’ordine all’identificazione del padre. Non c’era alcun motivo
alla base della mia curiosità, solo che era buffo guardare i nostri
clienti conoscendo la qualità del loro sperma. Dottor Fulgenzi,
frigorifero nove stanza sei: un vero ariano secondo i nostri analisti.
Onorevole Madela stanza due frigorifero tre. L’Onorevole Madela, quando
si è presentato per la sua terza donazione è stato accolto
dal nostro unico segretario di sesso maschile. Ci spiace Onorevole, ma
in questo momento non abbiamo bisogno di nuovo seme. La chiameremo noi
al momento opportuno, se non le dispiace.
Era notte fonda. Remo avrebbe voluto scardinare qualche
apertura ma non ce ne fu bisogno perché Ca ci aprì con le
sue chiavi personali. E’ una persona di fiducia del direttore, perché
è un mite, uno da cui il direttore non si aspetterebbe mai, ad esempio,
l’omosessualità. Entrammo tutti e quando fummo dentro Ca con un
solo interruttore accese tutte le luci e aprì tutte le porte della
banca del seme. Neon. Luminoso e triste. Ferro. Freddo e luminoso. Marmo.
Triste e freddo.
Ci sparpagliammo per le diverse stanze.
Solo quella dei televisori rimase inviolata.
Corsi anche rimase solo e si mise in cerca della stanza
sei. Avrebbe voluto dire Non mi seguite, vi chiamo io al momento opportuno
ma non disse niente anche perché trovare la sua porta si rivelò
più facile del previsto. Entrò, ma i frigoriferi avevano
le maniglie troppo in alto affinché le potesse aprire ma nessun
pensiero ebbe il tempo di passare nella sua testa perché fu raggiunto
da Urbana che gli disse So perché siamo qui e non puoi farlo da
solo. Durante queste e forse altre parole apriva ad uno ad uno i nove frigoriferi
ed estraeva i nove cassetti contenenti un numero imprecisato di provette
e li metteva a terra vicini. Poi ad una ad una aprì le provette
appoggiando i tappini su un tavolo di ferro. Corsi era seduto sul marmo
e la guardava in attesa.
Urbana prese una manciata di dieci provette aperte, uscì
e fu di ritorno dopo un minuto. Disse a Corsi Ora sono vuote, la lascio
qui e le appoggiò sul tavolo.
Poi prese un’altra manciata di dieci provette, uscì
e fu di ritorno dopo un minuto. Disse a Corsi Il seme se lasciato fuori
della sua temperatura muore, si secca e appoggiò le provette vuote
sul tavolo.
Poi prese un’altra manciata di dieci provette, uscì
e fu di ritorno dopo un minuto. Disse a Corsi Con queste fanno trenta.
Chiuse la porta della stanza e aiutò Corsi a spogliarsi
e a sedersi su una sedia di ferro. Gli diceva Non c’è motivo di
avere vergogna. So che è la prima volta per te ma ormai è
la prima volta anche per me.
Si spogliò e aiutò con le mani Corsi ad
avere un’erezione.
Poi si sedette sopra di lui e fecero l’amore e mentre
lo facevano Urbana gli disse Questo non è per noi perché
la prima volta lo si fa sempre per entrare nel mondo, ma la prossima sarà
per noi, la prossima volta sarà per noi.
Sentì presto che Corsi non riusciva a contenere
il suo piacere e allora lo estrasse da sé, prese con la mano destra
la sua mano destra e insieme presero il membro di Corsi.
Con la mano sinistra Urbana teneva un bicchierino.
E anche Corsi con la mano sinistra teneva il bicchierino.
Dopo un’ora l’uomo cominciò a richiudere le provette
sfiatate e a rimetterle nelle loro posizioni originarie come segnato sul
registro. In quel momento Ca ultimava il trattamento del seme di Corsi
con cui riempiva le trenta provette ripulite da Urbana, Corsi era vicino
a Urbana, Remo metteva insospettabilmente fuori uso l’impianto video della
sala tv e canticchiava e io mi godevo tutta la scena. Poi tutti insieme,
eccetto Corsi, ci dilettammo a rimettere le vecchie provette con il nuovo
seme nelle loro posizioni originarie.
Fuori di lì era ancora tutto da fare. Ce
ne restammo in silenzio a camminare ed era quasi l’alba.
Corsi faceva avanzare prima la mano destra, poi il piede
sinistro, poi il piede destro, poi la mano sinistra, poi la mano destra,
poi il piede sinistro, poi il piede destro, poi la mano sinistra. Non andavamo
in nessun posto né andavamo in cerca di qualcuno ma da come camminavamo,
da come ci ignoravamo ci guardavamo ci seguivamo ci aspettavamo ci toccavamo
ci calpestavamo ci spogliavamo ci allontanavamo ci univamo ci mangiavamo
ci legavamo ci sorpassavamo ci traducevamo ci scaldavamo era chiaro
a tutti quelli che ci incrociavano che non c’era strada vuota in cui non
si potesse incontrare qualcuno.