I morti non ci sono, per definizione verrebbe da dire.
Le nostre parole si preoccupano però di inscrivere i morti, che
non ci sono, nella generale intelligibilità del mondo. I morti per
le nostre parole sono di solito morti per disgrazia, volontariamente, o
perché era giusto. I primi, i morti per disgrazia, a volte sono
ricordati in frasi dove inseriamo le parole "guerra" e "destino"; i secondi,
quando la circostanza o la conversazione rendono inevitabile parlarne,
si associano a un'idea di imprudenza, di azzardo, o di fallimento; talvolta,
è implicato l'eroismo. Gli ultimi generalmente erano parenti, e
si parla di loro tenendo lo sguardo basso, astenendosi da espressioni che
implichino un giudizio negativo.
I morti, quindi, erano parenti: erano amici, nemici,
o sconosciuti. Erano, perché ora sono nulla; e questo è un
particolare, ancorché importante, che volentieri dimentichiamo o
nascondiamo dietro a varianti ed omissioni del linguaggio, con cui giochiamo
col tempo e col nulla. Trascuriamo senza cattiva volontà quella
comune silenziosa abitudine dei morti di essere nessuno e di essere niente,
di partecipare solo di verbi al passato; forse perché senza riflettere
sentiamo che il loro mondo quieto divide un lungo confine con il nostro,
e si dice varchi innumerevoli usino aprirsi al tempo giusto - mentre noi
vorremmo continuare ad esserci: ad essere amanti, amici, padri, madri,
per sempre. A volte però, passando in treno lungo piane piovose
in giorni grigi e lugubri, tra gli ulivi fradici e le case in pietra dove
non abita più nessuno, il nome estraneo di qualche sito secondario
ci rammenta quel nulla e proviamo la tentazione di sentirci già
morti, di abbandonarci a un torpore simile al sonno dove la prodigiosa
varietà delle forme del mondo resti preclusa agli occhi dell'intelletto
e del cuore.
Ma i morti hanno lasciato una grafia, delle foto
dove hanno espressioni irrintracciabili e un modo superato di portare i
vestiti. E pure quegli stessi vestiti, giacche per comparse di film in
bianco e nero, che ci prende la tentazione di provare quando le troviamo
in fondo ad un armadio, per immaginarci il mondo visto da là dentro.
Solo i morti recenti non ci sembrano ancora lontani da noi e dal mondo
delle cose che mutano, ci ricordiamo ancora vivamente del tempo in cui
essi avevano un corpo, che magari ci era familiare e noi potevamo vedere,
toccare, lungo i giorni nostri e loro. Un giorno, questa sensazione è
svanita e loro non sono più vicini a noi: li troviamo uniti alla
folla incredibile di tutti gli altri morti, traghettati sull'altra sponda
del nulla.
Vicini o lontani da noi nel tempo, abitano una
regione del nostro pensare dove gli anni li lavano con pazienza, di una
pioggia uniforme e fitta: e finiscono per assumere consistenza di silenzi,
di cose scordate o non dette. Appaiono sempre un po' più lontani,
il suono della la loro voce si ricorda un po' meno distintamente. Se li
pensiamo con l'animo distratto, li immaginiamo come un popolo silenzioso
di persone sagge e pensose, un po' assenti, che si aggirano per i selciati
grigi di una città nebbiosa; e quando il cuore si incammina verso
quelle piane offuscate, ci sembra di diventare sordi e leggeri come il
fumo o la nebbia.
A volte pensiamo che dormano, e che dormendo sognino
di noi. Si dice che il loro sogno sia la nostra vita, bagnata in quel mare
che chiamiamo realtà; si dice che i morti aspettino la fine del
mondo.
Ma i morti sono come una nostra statica ombra,
stanno orizzontali e fermi mentre noi camminiamo. Quando ci corichiamo
per dormire, ci avviciniamo a loro. Che avevano un tempo un volto, un'apparenza
mutevole, una persona. Li pensiamo a volte in postura di commiato, seri,
con la mano alzata e il capo lievemente voltato all'indietro ed un sorriso
incerto, come nell'atto di salutare il nostro mondo ed entrare in quello
infinitamente più vasto del tempo, dove resteranno ad attenderci;
dove andremo, forse ad incontrarli.
Questa è la nostra speranza, il nostro terrore
ultimo.
PS: I diritti di questo racconto sono
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