Le beau est la preuve expérimentale que l'incarnation est possible
Simone Weil, La pesanteur et la grâce
Pino Blasone
Nonostante Raffaello
Altre Annunciazioni
Le fonti letterarie
Appena modificato in più lingue europee, il termine “annunciazione” deriva dal latino adnuntiatio. In ambito cristiano, notoriamente esso è per lo più impiegato con riferimento biblico. Tale accezione è meglio resa dall’originale greco euangelismos (εὐαγγελισμός), “buona novella”, prefigurante quella contestuale dei Vangeli o del Nuovo Testamento: più in generale, vale a dire il kerygma. Il termine è peraltro associato al concetto di una proclamazione, s’intende della “Madre di Dio”, con ciò alludendo alla trasposizione dal piano umano a quello divino implicita nell’annuncio.
Nella versione di gran lunga più conosciuta, l’annunciazione del miracoloso concepimento e della futura nascita di Gesù, da parte dell’arcangelo Gabriele alla vergine Maria, è narrata nel canonico Vangelo di Luca (I, 26-38). Nessun particolare vi è contenuto sull’ambientazione dell’evento, salvo un cenno alla località di Nazareth in Galilea. L’espressione “entrato da lei” (εἰσέλθων πρὸς αὐτήν) riferita al nunzio angelico suggerisce un ambiente interno, ma talora può indicare un semplice avvicinarsi o presentarsi a qualcuno.
E’ l’antica tradizione dei vangeli così definiti apocrifi a specificare qualcosa di più in merito. Nel Vangelo della nascita di Maria (IX, 1-4), l’angelo entra nella camera della Vergine per rivolgerle il famoso saluto – Ave, gratia plena… (Χαῖρε, κεχαριτωμένη…) – e recarle il suo sorprendente annuncio. Nel Protovangelo di Giacomo, o Natività di Maria (XI, 1-3), Maria è uscita dal suo alloggio con una brocca ad attingere acqua, in un cortile o comunque in uno spazio aperto. Quindi, un primo incontro con l’angelo sarebbe avvenuto presso un pozzo o una fonte.
Le diverse ambientazioni vengono conciliate sia nel “Protovangelo” sia nel Libro dell’infanzia del Salvatore, apocrifo giuntoci in due differenti redazioni (Codice Arundel 404, 33-34; Codice Hereford 0.3.9, 33-34b), e nel Vangelo dello Pseudo Matteo (IX, 1-2). In questi casi, l’incontro miracoloso si svolge in due tempi. Dapprima, l’angelo sarebbe apparso vicino a un pozzo o una fonte. In seguito, avrebbe completato il suo annuncio nella camera della Vergine. Inoltre, nel più tardo Vangelo di Bartolomeo (II, 1-22), Maria narra agli apostoli l’incontro come avvenuto nel Tempio del Signore.
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Quest’ultima ambientazione somiglia a quella che sarà adottata in alcune Annunciazioni pittoriche rinascimentali, inserite in interni di edifici sacri. Le più note sono quella dell’olandese Jan van Eyck risalente al 1436 circa, oggi alla National Gallery of Art di Washington, e quella di Barthélemy d’Eyck nella Chiesa di St. Madeleine ad Aix-en-Provence (1444). Più particolare è un’Annunciazione del pittore e miniatore francese Jean Fouquet, nel “Libro delle Ore” di Étienne Chevalier, attualmente al Musée Condé di Chantilly. In realtà l’illustrazione, databile intorno alla metà del secolo XV, ritrae l’interno gotico della Sainte Chapelle di Bourges. La coincidenza è comunque indicativa di un atteggiamento mentale consimile.
Nella letteratura apocrifa, più o meno invariato resta il senso del discorso dell’angelo, così come quello della risposta di Maria. Più descrittiva del Vangelo canonico e quasi fungendo a esso da commento, la prima tende tuttavia a porre in maggior risalto il turbamento di Maria provocato dalle parole del messaggero del Signore, se non il valore autonomo del suo successivo consenso: atto di fede ma anche di libero arbitrio, per quanto formale questo possa apparire in un’ottica razionalistica. Tale autonomia risalterà altresì, se si confronta l’Annunciazione evangelica con quella descritta nel Corano (III, 42-47 e XIX, 16-21).
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Poco tollerata o oggetto di ostracismo in seno alle chiese, la tradizione religiosa dichiarata apocrifa è rimasta semi-ignorata per secoli. Le prime raffigurazioni a essa ispirate sono antiche. Ma nell’arte bizantina ne abbiamo tracce durature. Nell’ambito si può includere l’Annunciazione di anonimo, raffigurata a mosaico nella Basilica di San Marco a Venezia (secolo XI circa). Essa è ambientata in un esterno, nei pressi di un pozzo cui Maria attinge acqua con una brocca, mentre l’angelo alato scende dal cielo.
Chiaramente ispirata al Protovangelo di Giacomo, la stessa iconografia troviamo in un mosaico del 1315 circa, nella Chiesa del Santo Salvatore detta della Chora a Istanbul, oggi Museo Kariye. Anche più tardi, scene analoghe si danno nella miniatura e nella pittura sacra dell’Europa orientale e dell’Armenia. Per quanto minoritaria, quella dell’Annunciazione al pozzo o alla fonte diventa una popolare tipologia figurativa. Ancora di recente, essa è stata ripresa in un dipinto nella Chiesa dell’Annunciazione a Nazareth – dove la tradizione è a tutt’oggi presente – e nei rilievi dello scultore Luigi Mattei, sulla “Porta Santa” della Basilica di Santa Maria Maggiore a Roma.
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Nella stessa arte bizantina finirà col prevalere una tipologia più aulica, ad esempio con la Madonna in trono, a sottolinearne la maestà. Permane la costante di uno sfondo dorato, comune alle scene sacre. Nella cristianità di cultura latina, la raffigurazione della scena dell’Annunciazione è dipesa soprattutto dall’essenziale descrizione che ne fa il Vangelo di Luca, ma anche dalla sua indeterminazione circostanziale. Questa lasciava un margine di libertà interpretativa all’immaginazione dell’artista, che può far filtrare la propria realtà nella rappresentazione.
Tanto riguarda, in particolare, lo sfondo e l’ambientazione. Di solito, la preferenza va a un interno. Non mancano però ambientazioni esterne e perfino la scelta di un ambiente intermedio, come può essere un portico, o comunicante con l’esterno: ad esempio, tramite una porta o una finestra aperte. Il complesso rapporto fra dentro e fuori diventa, anzi, un carattere ricorrente. Non di rado, esso coinvolge la relazione fra interiorità personale ed esteriorità del mondo.
Nella lunga storia delle rappresentazioni dell’Annunciazione, ciò va ad aggiungersi e a fondersi con altre tensioni dialettiche, indotte o favorite da ragioni compositive. Si possono citare quelle tra sfondo e primo piano, ripetizione e differenza rispetto a un modello, presenza e assenza di uno dei personaggi in causa. Più in generale, fra sacro e profano e tra l’annunciare, il rivelare e il raffigurare, livelli diversi della rappresentazione. Ogni epoca, area culturale e individualità, combina gli elementi in gioco e risolve le tensioni fra loro in base alle proprie istanze.
Con continuità nel solco della tradizione, le variazioni sono innumerevoli. Esse riescono a essere quasi sempre “altre”, al punto da poterne ricavare suggestioni per intravedere evoluzione e crisi di una civiltà. Sussistono comunque personalità o correnti, per cui il tema è significativo al di là di una produzione occasionale. Qui ci limitiamo a pochi artisti esemplari e alle opere più notevoli. Spesso complementari fra loro, le relazioni principali di cui si tiene conto sono da un lato tra ambientazione o sfondo e scena in primo piano; dall’altro, fra annunciante e annunziata, comprese le eccezioni in cui la presenza del primo sia sottintesa.
Annunciazioni moderne
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Attendibilmente non a caso, in epoca moderna almeno un esempio si rifà alla letteratura apocrifa. E’ un’Annunciazione del 1879, di Edward Coley Burne-Jones, oggi alla Lady Lever Art Gallery di Liverpool. La Madonna vi compare in piedi, accanto a un pozzo su cui è poggiata una brocca. Sul lato opposto della composizione, è sospeso in aria l’angelo annunciante. Il tutto è immerso in un’atmosfera di filologico estetismo, dominato dall’architettura neoclassica di un palazzo sullo sfondo.
Sulla facciata dell’edificio, un rilievo scultoreo è una citazione delle Annunciazioni del Beato Angelico. Esso raffigura ben altro angelo, che caccia Adamo ed Eva dal Paradiso Terrestre impugnando una spada. Il pittore inglese aveva dipinto e dipingerà altre Annunciazioni, così come a suo tempo aveva fatto l’Angelico. Ma quelle di Burne-Jones sono per lo più uno specchio malinconico e nostalgico, dello spirito di tempi profondamente mutati. Le sue Annunziate sono lontane dall’esprimere la forza rigeneratrice di una “seconda Eva”, ben più di quanto lo fossero quelle angelicate ritratte dall’Angelico.
Nel dipinto qui in questione, lo sguardo dell’Annunziata non è rivolto all’angelo, come nella maggioranza delle Annunciazioni. Né si distoglie dalla visione in un attimo di smarrimento come nel polittico senese del 1333, di Simone Martini e Lippo Memmi, oggi alla Galleria degli Uffizi di Firenze. Viceversa, esce dal quadro e sembra oltrepassare lo spettatore in direzione di uno spazio trascendente. In ciò somigliante a quello di una rinascimentale Vergine Annunziata di Antonello da Messina, tuttavia esso non ne possiede la pregnante intensità.
Lo sguardo dell’Annunziata di Burne-Jones si direbbe piuttosto perso nel vuoto lasciato da un’assenza, o al limite da una perdita di spontaneità e genuinità della fede religiosa. In linea con la lezione preraffaellita di Dante Gabriel Rossetti, maestro dell’autore e a sua volta autore di Annunciazioni, comunque quella del 1879 è un po’ un compendio attualizzato dei più illustri precedenti del genere.
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Se un confronto contemporaneo va fatto, in effetti il termine di paragone cui risalire è Ecce ancilla Domini di Rossetti (1850, attualmente alla Tate Gallery di Londra), dipinto improntato a un maggior rispetto della tradizione canonica. Il titolo, “Ecco la serva del Signore”, è ripreso dalla versione latina del Vangelo di Luca. Esso esprime l’accettazione dell’insondabile volontà divina. Ma, nell’interpretazione del pittore vittoriano, pure il presagio di un destino di sofferenza. Tant’è che quest’Annunziata adolescente già richiama alla mente un’Addolorata, così ritratta in se stessa e rannicchiata sul suo letto.
Il gesto di ritrarsi di fronte all’apparizione ricorda l’atteggiamento analogo, nella citata Annunciazione di Simone Martini e Lippo Memmi. Nell’opera di Rossetti come in quella di Burne-Jones lo sguardo della Vergine è perso nel vuoto, benché qui non rivolto a chi osserva il quadro. Esso sembra piuttosto assorto in un’altra visione, quella appunto di un mistero doloroso. In piedi nella sua camera, un angelo senz’ali le porge dei gigli, simbolo di purezza per antica convenzione. Le ali degli angeli non sono, del resto, una convenzione? Dalla finestra aperta vola dentro una colomba bianca, allegoria dello Spirito Santo.
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Pur non facendo parte della scuola dei Preraffaelliti, il pittore francese James Jacques Joseph Tissot fu legato a essa da qualche affinità, almeno per quanto riguarda i soggetti a carattere religioso. Fra questi la sua Annunciazione, oggi al Museo di Brooklyn, è databile al decennio 1886-1896. Tissot soggiornò in Inghilterra e viaggiò in Palestina. Probabilmente, ciò spiega la fedele ambientazione in una casa del Vicino Oriente.
Nessuna apertura visibile mette in comunicazione quest’interno con l’esterno. Alla verticalità delle composizioni moderne su citate, subentra una maggiore estensione orizzontale dell’inquadratura. Seduta su un giaciglio-tappeto e avvolta da veli bianchi, la Madonna è assorta nella sua visione a occhi chiusi. Davanti a lei, l’apparizione dell’angelo è ridotta a poco più di una sagoma luminosa. Di lui, si scorgono appena il volto e le ali ripiegate.
Se tuttavia si mette a fuoco quest’ultima immagine, si noteranno lineamenti decisamente femminili. Né pare qui in gioco la vecchia questione un po’ astrusa e morbosa del sesso degli angeli. Piuttosto, il viso angelico rimanda lo sguardo dell’osservatore a quello seminascosto della Vergine. Non sarà improbabile l’impressione di rilevare una certa specularità fra i due volti, quasi che l’artista abbia voluto rappresentare nell’angelo l’inconscio della donna.
Va da sé, un inconscio personale in grado di comunicare con una dimensione soprannaturale, magari attraverso un atto di auto-coscienza. Quanto sappiamo della vita privata di Tissot, incline allo spiritualismo fino a indulgere allo spiritismo in voga all’epoca, sembra poter avvalorare un’ipotesi del genere. D’altro canto, era imminente l’avvento della psicanalisi. Resta il fatto di un’allusiva corrispondenza tra i due personaggi della raffigurazione.
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La dissoluzione della figura angelica intrapresa da Tissot raggiunge il culmine nell’Annunciazione del 1898 di Henry Ossawa Tanner, artista afro-americano. Il quadro si può ammirare al Museum of Art di Filadelfia. L’angelo non è che un ectoplasma luminoso, in contrasto col realismo del resto della scena, anch’essa ambientata in un povero interno orientale (ma potremmo ben trovarci in qualche luogo dell’America Latina). In quest’opera di Tanner, annunciazione e denuncia sembrano conciliarsi in una maniera tale, che non spiacerebbe a un “teologo della liberazione” quale Gustavo Gutiérrez o a un pedagogista come Paulo Freire.
In effetti, vi si può avvertire un interesse critico sociale, che è raro riscontrare in altre Annunciazioni: salvo forse che in un’opera del Tintoretto, nella Scuola di San Rocco a Venezia, per altri versi ammirata da John Ruskin. Unici oggetti sono vasellame e tessuti. Quasi come in una cella, né porte né finestre sono visibili. Così come nella raffigurazione di Tissot, la chiusura dell’ambiente inquadrato è totale. La luce tende a essere artificiale o, meglio, interiore. Seduta sul suo giaciglio, una giovanissima Maria è tornata a guardare verso l’apparizione, con atteggiamento perplesso più che interdetto. Solo le mani, congiunte e strette in grembo, ne tradiscono l’emozione.
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Sebbene lontano dal senso di interiorità suggerito da Tissot e da Tanner, va pure segnalato Ancilla Domini, dipinto circa nel 1896 da Rupert Charles Wulsten Bunny (attualmente alla Art Gallery of South Australia, Adelaide). Autore di varie Annunciazioni, il pittore australiano risentì dell’influsso preraffaellita inglese. Fu buon conoscitore dell’iconografia tradizionale. Più elementi simbolici di quest’ultima compaiono nella sua composizione: una brocca, un leggìo, rose sparse; una di esse in una mano di Maria, abbandonata giù lungo un fianco.
Uno stelo fiorito di gigli sta in mano all’angelo col viso in ombra, che torna a essere alato. Di fronte a lui, la Vergine è inginocchiata in una stanza illuminata attraverso la porta aperta e schermata da una tenda. Alle spalle di lei, una parete affrescata mostra il biblico antefatto della cacciata di Adamo ed Eva dall’Eden, così come nei quadri di Burne-Jones e dell’Angelico. E’ il ricordo di una colpa atavica, che avrebbe infranto lo stato di innocenza primigenio, ma anche suscitato l’autonoma coscienza del bene e del male in un’umanità mortalmente “gettata nel mondo”.
Annunciazione e Rivelazione
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L’ambientazione torna a essere esterna in un dipinto del 1914, dell’inglese John William Waterhouse, oggi nella collezione privata Sotheby. Non più il chiuso di una stanza, come nei casi di Rossetti, Tissot, Tanner e Bunny. Nemmeno un cortile, come nell’Annunciazione di Burne-Jones. Bensì un giardino cinto da mura, e dalla facciata di una casa. Si tratta dell’abitazione di Maria, in ginocchio su un tappeto davanti alla porta d’ingresso. In posizione eretta di fronte a lei, l’angelo alato le offre dei gigli in dono.
La Vergine non solo guarda verso l’angelo, ma appare pronta a dialogare con lui nonostante un gesto di meraviglia. La colomba simbolo della divinità, che ancora compariva nel quadro di Rossetti, è scomparsa. In compenso un leggìo, altro elemento della tradizione iconografica, attesta l’educazione sacra della Madonna, su cui insistevano non solo i vangeli apocrifi: esiste una fantasiosa iconografia popolare, su Sant’Anna che le insegna la lettura. Perfino il fuso per filare, lasciato cadere a terra, si ricollega a una tradizione non canonica (altre volte, nelle raffigurazioni dell’evento, si era trattato di un arcolaio o di una matassa).
Infatti nei testi qui sopra citati si narra di una Maria impegnata, insieme ad altre vergini prescelte, a filare e a tessere veli o stoffe per ornare il “Tempio del Signore”. Più importante è il riferimento a una Madonna letterata, condizione femminile eccezionale per l’ambiente, la mentalità e l’epoca dell’evento. Il particolare comincia a essere valorizzato dall’iconografia sacra italiana nel Trecento, nella forma di un libro poggiato su un leggìo o su un cuscino. L’Annunziata non è intenta a filare né ad attingere acqua, bensì a leggere o a pregare. La lettura del testo sacro viene interrotta, o piuttosto integrata, dalla visione del sacro stesso.
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Già nell’Annunciazione a mosaico di Pietro Cavallini (1291 circa), nella Basilica di Santa Maria in Trastevere a Roma, un libro chiuso figura in una mano dell’Annunziata. Lo sfondo della scena è dorato e la Madonna è seduta su un trono, secondo un uso ancora bizantino. Nell’Annunciazione di Simone Martini del 1333, il libro in mano all’Annunziata è socchiuso. In quella affrescata dal fiorentino Agnolo Gaddi nella Cattedrale di S. Stefano a Prato, esso è realisticamente aperto sulle sue ginocchia. Nelle Annunziate di Antonello da Messina, il libro sfogliato verrà spostato in primissimo piano, davanti all’immagine della Madonna.
Il testo sacro che ispira la raffigurazione è così diventato protagonista della rappresentazione, non solo come significato ma anche in quanto significante. Sorge il dubbio che ciò poteva accadere solo attraverso il tema dell’Annunciazione. Nell’intenzione del pittore siciliano, si tratta di un libro dell’Antico Testamento più probabilmente che del Nuovo. Ma non manca un’illustrazione contemporanea, quella qui su citata di Jean Fouquet nel “Libro delle Ore” di Étienne Chevalier, in cui il libro chiuso rappresenta l’Antico Testamento, mentre un altro aperto è palese simbolo del Nuovo (nell’Annunciazione di Gaddi, entrambi i libri figurano aperti).
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In effetti, è difficile immaginare qualcosa che si collochi sulla soglia della modernità come le Annunziate di Antonello. In confronto, perfino le Annunciazioni moderne appaiono meno attuali. Ciò tuttavia è avvenuto al costo di un sacrificio: la visione dentro la visione, quella dell’angelo, è stata esclusa dal campo visivo. In pratica, essa è stata sostituita dal testo sacro, in quanto rappresentazione del sacro stesso: quasi prefigurazione di una incarnazione della Scrittura, oltre che del Verbo in essa annunciato. Il “taglio” dell’angelo è coinciso altresì con quello dell’ambientazione, riassorbita dallo sfondo. Siamo di fronte a una cesura che assume una valenza epocale.
Nell’Annunciazione del veneziano Lorenzo Lotto del 1527-’29, oggi nella Pinacoteca di Recanati, il rapporto fra presenza e assenza – dell’angelo annunciante – sarà proposto in maniera meno drastica, più ingenua ma suggestiva. Maria è ritratta in primo piano, rivolta verso l’osservatore esterno, nell’atteggiamento di chi riceve una visione estatica. L’Annunciazione vera e propria è dipinta alle sue spalle e contiene elementi e personaggi tradizionali, disposti in una prospettiva che attraversa un ambiente domestico e uno all’aperto. In più vi compare un gatto, colto nell’atto di fuggire qualcosa che l’animale percepisce ma si presume visibile alla sola Annunziata, e allo spettatore del quadro. Tuttavia l’angelo proietta un’ombra sul pavimento, quasi per meglio simulare una fisicità della sua presenza.
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Gli oggetti raffigurati nelle Annunciazioni hanno per lo più portata simbolica, perfino la brocca in quelle ispirate ai vangeli apocrifi. L’Annunciazione sta dentro la Rivelazione, così come il libro che contiene entrambe può rientrare nella raffigurazione. Per un attimo, si torni a osservare il mosaico bizantino nella Chiesa della Chora a Istanbul. Si noterà che il pozzo, cui Maria è in procinto di attingere acqua con una brocca, somiglia molto a un fonte battesimale. Se il libro rappresenta la rivelazione religiosa, la brocca è allusione alla Madonna stessa, “vaso di elezione” in cui sarà contenuta la linfa della redenzione, a sua volta metafora collegata col nascituro Salvatore. Per quanto suggestivo, quest’ultimo simbolismo non valorizza gran che la consapevole autonomia di Maria.
Per riscoprirne una figura tutt’altro che sprovveduta o passiva, conviene tornare al Vangelo di Luca (I, 46-55). Ed ecco una Maria subito dopo l’Annunciazione, che – nel cosiddetto Magnificat – profetizza e anticipa il messaggio di Gesù, anteponendo i timorati ai superbi, gli umili ai potenti, gli affamati ai ricchi. Sia pure una tantum e nel contesto di un discorso etico-religioso, ella lo fa con toni che in tempi più vicini a noi la farebbero passare per una persona socialmente o civilmente impegnata. La “timida” vergine, almeno così come ritratta in alcune Annunciazioni, è già assurta al ruolo di “Madre di Dio” e Advocata nostra. All’annuncio dell’angelo ha fatto seguito prima un pronunciamento, poi una denuncia del mondo, da parte di lei.
Ambientazione e spazio sacro
In margine, è da ribadire che il problema dell’ambientazione non è affatto nuovo, in quel particolare segmento della storia dell’arte che è la storia delle Annunciazioni. Esso è strettamente connesso e orientato dalla percezione di uno spazio sacro. Per non pochi pittori barocchi questo era proiettato in alto, fuori o dentro la composizione, là verso dove era puntato il dito dell’angelo annunciante o diretto lo sguardo della Vergine, altrimenti rivolto in basso in un moto di introspettivo pudore. Per un rifondatore gotico bizantineggiante quale Simone Martini, il problema tuttavia era risolto a monte.
Spazio sacro e ambientazione coincidevano nello sfondo dorato, con qualche concessione all’arredo o alle architetture e alla profondità della visione. La realtà del mondo – circostante o personale – torna a far irruzione nel quadro tramite l’ambientazione, perfino quando alcuni artisti opteranno per un luogo di culto. In tal senso e in buona parte, la storia delle Annunciazioni nell’arte occidentale lo è di una scissione e di una ricomposizione. Ciò, a tal punto, che le composizioni dei Preraffaelliti e dei loro seguaci potrebbero ben chiamarsi “ricomposizioni”.
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D’altronde, già per l’Angelico lo spazio sacro veniva surrogato da ambienti ascetico-fiabeschi. Altrimenti, il problema dell’ambientazione è collegato con quello della presenza o assenza. Nelle Annunziate di un artista prossimo alla modernità, come Antonello da Messina, si è detto come esso fu affrontato non rappresentando esplicitamente il sacro, anzi escludendo il personaggio dell’angelo delegato a rappresentarlo. Eppure, Antonello era partito da Annunciazioni convenzionali, quali quella rovinata oggi al Museo Bellomo di Siracusa o i frammenti raffiguranti l’angelo e Maria al Museo Nazionale di Messina.
Si osservi lo sfondo delle due Annunziate, rispettivamente alla Pinacoteca di Monaco e al Museo Nazionale di Palermo. Come per le Annunciazioni di Martini, esso è di nuovo monocromatico. Ma intanto è diventato scuro, quasi a far risaltare una solitudine, un’inquietudine tutta umana della figura femminile ritratta. Nell’ultimo quadro, indirette allusioni al sacro sono un gesto della mano e un leggìo. Lo sfondo scuro è subentrato a quello dorato bizantino. Attraverso la pittura del Caravaggio, esso diventerà indice di una sensibilità moderna in una serie di dipinti sacri, come la Vergine Annunziata del secentista napoletano Bernardo Cavallino oggi nella National Gallery of Victoria a Melbourne, o l’Annunciazione di Artemisia Gentileschi al Museo di Capodimonte a Napoli.
Altro esempio, un Angelo annunciante e una Madonna annunciata attualmente al Museo Civico di Correggio, di ignoto emiliano del secolo XVII, si stagliano entrambi su uno sfondo scuro uniforme. Specialmente l’angelo è ispirato al modello di un’Annunciazione di Guido Reni oggi nella Pinacoteca di Ascoli Piceno. Benché i loro sguardi non si incontrino, la corrispondenza fra l’uno e l’altra è talmente accentuata, da suscitare l’impressione di un’intima specularità. Sorge spontanea una domanda, senza plausibile risposta: si tratta di due facce della stessa persona? Se si accostano frontalmente le due figure, il risultato è molto simile a un’Annunciazione pure di anonimo in una collezione privata a Roma. La differenza è che in quest’ultima compaiono anche dei gigli in mano all’angelo e un libro aperto davanti alla Vergine. L’altra mano dell’angelo indica il cielo, quasi a suggerire che grazia trascendente e purezza d’animo sono strumenti necessari perfino per una corretta esegesi del testo sacro.
La tentazione di una lettura psicanalitica, in chiave junghiana, è qui forte. In tal caso l’angelo rappresenterebbe l’animus, componente maschile dell’inconscio, là dove Maria sarebbe ovviamente l’anima, elemento femminile. Va da sé, un’ipotesi del genere coinvolgerebbe l’intera storia figurativa delle Annunciazioni. Si può però tranquillamente rispondere a una domanda implicita. L’oscurità di Antonello, di Cavallino o di Artemisia e di questi pittori seguaci della lezione di Reni, è la tinta della profondità della psiche, là dove l’archetipo viene proiettato. Da fenomeno pervadente ma esteriore, il sacro è diventato illuminazione interiore, eclissando ogni accessorio profano nella scena. D’altro canto, la trasposizione dal piano umano a quello divino è diventata un mediato confronto-incontro fra divino e umano.
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Annunciazione e narrazione
Preceduto dall’avanscoperta dei “Nazareni” tedeschi e in parte influenzato dal critico inglese John Ruskin, quello dei cosiddetti Preraffaelliti può essere considerato uno dei primi tentativi postmoderni nella storia dell’arte europea. Recuperare le tracce del passato per trasfigurarle in icone del presente, o in suggerimenti per un futuro. Nel corso di tale rivisitazione, i modelli della pittura fiamminga e italiana sono stati privilegiati. Fra questi ultimi, il Beato Angelico fu autore di circa una decina di Annunciazioni.
Varie, le possibilità di ambientazione e di stile da lui esplorate, pur restando invariato l’impianto compositivo di base. Ad esempio, una costante ereditata dalla tradizione medievale è quella dell’angelo inginocchiato davanti alla Vergine, di solito seduta in posizione preminente. Le riflessioni mariane di San Bernardo, San Bonaventura, San Tommaso, e la poesia di Dante e Petrarca, avevano preparato il terreno. Ma non si può ignorare un paradosso: nelle raffigurazioni moderne questo rapporto viene spesso invertito, con una diversa percezione di quello fra il sacro e l’umano (o tra il maschile e il femminile?).
Per quanto concerne lo stile, si va dall’atmosfera fiabesca di un’Annunciazione del 1450 circa a quella mistica dell’Annunciazione con San Domenico, entrambe al Museo di San Marco a Firenze. Come per altre del pittore toscano, la prima è ambientata in uno spazio esterno, limitato da un portico. La seconda, in un interno conventuale, privo di aperture tranne il vano di una porta. Qui si ha l’eccezione di una Madonna inginocchiata, davanti all’angelo in piedi.
Un persistente sfondo dorato vuoto è attestato dall’Annunciazione e Adorazione dei Magi, pure al Museo di San Marco, e dai pannelli raffiguranti l’angelo e Maria del Trittico di Perugia, al Museo Nazionale dell’Umbria. Nelle rappresentazioni dell’Angelico sussiste un ulteriore livello, narrativo. Esso fa da sfondo sia all’Annunciazione nel Museo del Prado di Madrid, sia a quella nel Museo Diocesano di Cortona, sia a quella nel Museo della Basilica di Santa Maria delle Grazie a San Giovanni Valdarno. Vi è raffigurata la scena della cacciata dall’Eden, conseguente al peccato originale di Adamo ed Eva. Anche in questo caso compare un angelo, incaricato dell’ingrato compito.
Mansioni quali l’annunciare e il custodire sono tradizionalmente – e dialetticamente – associate alla figura angelica, in quanto epifania del sacro. L’angelo annuncia il Nuovo Testamento mentre custodisce l’Antico, garantendone il rinnovamento e il compimento nella continuità della tradizione biblica (in alcune icone russo-bizantine, ciò è simbolicamente rimarcato da un drappo rosso, che collega una sinagoga e una chiesa sullo sfondo). Ma l’Angelico tramite la sua raffigurazione adombra un terzo compito, più apocalittico: quello dell’Angelo del Giudizio universale. La Storia sacra è evocata non solo in funzione del presente, bensì della proiezione di un futuro, in cui è chiamata in causa la responsabilità umana.
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Specialmente nell’Annunciazione al Museo del Prado, le due scene sono poste quasi sullo stesso livello, a indicarne la reciproca complementarietà. In un dipinto del 1435 circa, alla National Gallery of Art di Washington, la più popolare vena narrativa del senese Giovanni di Paolo vi aggiunge una terza scena: lo scorcio interno di un San Giuseppe, ignaro davanti a un camino. L’espulsione dal paradiso terrestre equivale a una perdita, a una caduta, a una dannazione. L’annuncio di Gabriele a Maria lo è di un’incarnazione del divino, ma anche di una redenzione e di una salvazione dell’umano. E’ però “necessario” che essa passi attraverso la sofferenza di una passione e l’adesione a una fede, in vista di una salvezza ultraterrena il cui conseguimento è tuttavia calato nella Storia tout court.
Accettazione e condivisione di un tale destino sono interdipendenti e conseguenti l’una all’altra. Se la teologia del passato evidenziava l’aspetto della necessità di questo processo, quella odierna – si pensi a Rudolf Bultmann o a Jürgen Moltmann – ha rivalutato il fattore della decisionalità umana. A quest’assunzione di responsabilità la Madonna per prima non poteva sottrarsi, benché il suo essere “piena di grazia” divina ne favorisca e orienti la scelta. Le braccia incrociate sul petto, particolare ripetuto in cento Annunciazioni, sembrano esprimere il libero assenso, oltre a essere un gesto di umile saluto e di sincero omaggio.
Quelle braccia incrociate sono altresì una prefigurazione del sacrificio del Cristo sulla croce, riscatto “cruciale” nella simbologia e nell’ideologia cristiane. Fatto sta che in almeno due Annunciazioni dell’Angelico, quella del 1432 al Museo del Prado di Madrid e un’altra del 1450 circa al Museo di San Marco a Firenze, le mani incrociate compaiono anche sul petto dell’angelo, creando un effetto di arcana simmetria. La corrispondenza assume il valore di un appuntamento con l’assoluto.
L’intesa tra annunciante e annunziata suggella un nuovo patto fra umanità e divinità, concezione di un concepimento, che rispecchia l’incipiente Umanesimo religioso dell’Angelico. Evidentemente non senza molteplici motivi le Annunciazioni di Simone Martini e del Beato Angelico, e la Vergine Annunziata di Antonello da Messina, sono considerate approdi artistici del Medioevo e del Rinascimento. Il fascino che esse esercitano le ha rese modelli imitati eppure inimitabili.
Un annuncio della modernità?
Frutti di complesse elaborazioni, tutt’altro che produzioni ingenue, le Annunciazioni tardo-medievali e del primo Rinascimento riflettono esiti diversi, preannunciano atteggiamenti anche contrastanti poi enucleati da una modernità allora in gestazione. Dal canto loro, il tardivo sforzo dei Preraffaelliti di restaurare lo spirito di tali modelli da un lato finisce per evidenziarne convergenze e diversità. Da un altro punto di vista, esso si colloca in un periodo storico, in cui l’antica spinta religiosa verso la redenzione viene recuperata e convertita in quella laica verso l’utopia.
La nostalgia dell’Eden ha lasciato il posto ad aspettative più terrene o perfino rivoluzionarie. L’incapacità o la non volontà di risolvere tale contraddizione condannerà soprattutto gli epigoni del movimento a un estenuato estetismo o a un simbolismo ambiguo, non più in grado di reggere il confronto con le avanguardie artistiche del tardo Ottocento e dei primi del Novecento. Questi pittori decadenti non si occuparono solo di arte sacra. Le loro incursioni nella mitologia sono frequenti. Si direbbe quasi che essi avessero bisogno dell’immaginario, in quanto filtro o schermo nei confronti della realtà circostante.
Una parentesi va dedicata a quei precursori dei Preraffaelliti, che furono definiti Nazareni. Come i primi, che con loro ebbero contatti e li imitarono, essi formarono una vera e propria confraternita, detta di San Luca nel ricordo improbabile dell’evangelista che si tramanda fosse anche pittore. A differenza dei primi, rimasti in Inghilterra, i secondi si trasferirono dalla Germania a Roma. Ivi operarono nella prima metà dell’Ottocento, per meglio avvicinarsi alla pittura e alle atmosfere italiane. Contrariamente ai Preraffaelliti, inoltre non ritennero troppo “moderna” l’arte di Raffaello Sanzio, specialmente il primo Raffaello.
Inciso nell’inciso, neanche un amante dello stile gotico come il filosofo tedesco Ernst Bloch condividerà l’antipatia dei Preraffaelliti per Raffaello. In Spirito dell’utopia, egli ne esalta la spazialità, fino ad accostarla a quella recepita dalle avanguardie artistiche dei primi del Novecento: “Raffaello, con tutti i suoi singolari contrasti, chiarisce in questo senso più di quanto sia dato verificare nell’opera più significativa di Leonardo. Oggi non solo le cose stanno nello spazio, ma lo spazio sta nelle cose, è attivo e può formare uno sfondo incomparabile come nel Pantheon romano o nelle cattedrali gotiche”. E’ pur vero che, nell’Annunciazione di Raffaello nella Pinacoteca Vaticana (1502-03), c’è un eccesso di spazialità. Le figure di Gabriele e di Maria sono distanziate fra loro, quasi perse in uno spazio architettonico interno, aperto su uno sfondo paesaggistico convenzionale. Come in certe Annunciazioni di Sandro Botticelli, qui non tanto lo spazio, quanto la prospettiva fa da protagonista.
Nella Storia sacra, l’Annunciazione è il primo atto di una nuova Rivelazione che annuncia la parousia, “presenza” sia pure transitoria della divinità nel mondo. In quanto tale, essa viene a collocarsi in un tempo e luogo determinati. Per ragioni divulgative e per scarsa conoscenza, o con licenza poetica, molti artisti l’hanno ambientata nei loro tempi e luoghi. Lo scrupolo di qualche fedeltà al tempo e luogo originali è soprattutto moderna. Il caso dei Nazareni e dei Preraffaelliti è singolare e sintomatico. Sia gli uni sia, in parte, gli altri ambientarono le loro composizioni nei tempi e luoghi in cui erano ambientati i loro modelli. Il presupposto è che gli autori di questi ultimi si fossero meglio avvicinati alla “verità” degli eventi raffigurati.
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La transizione dal romanticismo al decadentismo nella cultura europea dell’epoca non basta comunque a spiegare certe differenze, perfino religiose e politiche, fra i due movimenti. Tra le loro opere o da loro ispirate non mancano Annunciazioni, così fedeli ai modelli da potersi quasi confondere con produzioni originali. Si va da quelle di Johann Friedrich Overbeck e di Johann von Schraudolph (1814 e 1828; Öffentliche Kunstsammlung, Basilea) fino a Il saluto angelico di Eugène-Emmanuel Amaury-Duval (1860; Musée d'Orsay, Parigi), artista francese influenzato dai Nazareni e dai Preraffaelliti.
L’annunciazione di Maria di Von Schraudolph e quella di Amaury-Duval, peraltro – abbastanza curiosamente – apprezzato ritrattista di nudi femminili, rasentano l’oleografia edificante. Ma, nel secondo caso, l’angelo torna a inginocchiarsi davanti alla Vergine in atteggiamento deferente, dettaglio focalizzato dal titolo. E attraverso il portico raffigurato, gotico nel primo quadro e classico nel secondo, la visione si schiude su un altro elemento coprotagonista delle scene sacre nella pittura italiana rinascimentale. Qui l’ambientazione paesaggistica prevale su quella dell’intimità domestica, preferita nelle Annunciazioni fiamminghe.
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Ciò è talmente vero, che a volte il primo piano pare quasi un pretesto per mostrare lo sfondo di un paesaggio campestre o di uno scorcio urbano. Nel caso frequente della dimensione naturale, occorre ammettere che essa integra così efficacemente quella del sacro, da ergersi a testimone cosmico dell’evento rappresentato, in particolare se lo sguardo dello spettatore viene lasciato libero di spaziare in un’illusione d’infinito.
Il paesaggio naturale traspariva già nell’Annunciazione di Antonello da Messina attualmente al Museo Bellomo di Siracusa, attraverso le finestre di un interno dipinto con la cura appresa dai provenzali e dai fiamminghi. Tuttavia, è nella celebre Annunciazione di Leonardo da Vinci alla Galleria degli Uffizi di Firenze che esso diventa un’ambientazione pressoché assoluta, anzi rappresentazione dell’assoluto. Non ci sono pareti o muri, recinti o siepi, e nemmeno portici tali da limitare una visione panoramica. La vera visione non è tanto quella dell’angelo in primo piano, quanto quella di una natura trasfigurata sullo sfondo. Anche a prescindere dal contenuto religioso della raffigurazione, vi si avverte un presagio della modernità. Ma, quale modernità, quale assoluto?
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Il presentimento del mutamento epocale nelle Annunziate di Antonello, anticipatrici della pittura caravaggesca, era altro da quello di Leonardo. Quest’ultimo è meno inquieto e più luminoso. Una concezione tendenzialmente panteistica lascia poco posto a confini netti fra esteriorità e interiorità, tra contemplazione e raccoglimento, fra luci e ombre. Né c’è un esplicito richiamo alla contrizione o al pentimento, non tanto perché questi sentimenti risultino ormai ingiustificati, quanto perché – in una prospettiva paradossalmente atemporale – l’annuncio dell’angelo evoca un ritorno all’Eden possibile qui e ora.
Al tomismo ancora medievale dell’Angelico, al suo sguardo fuori dal mondo o rivolto indietro nella Storia sacra, è subentrato il platonismo rinascimentale. Questo restituisce all’uomo un credito a oltranza e qualche opportunità in più da saper spendere anche per il futuro. Che cosa c’è al di qua del quadro di Leonardo, oltre il semplice e singolo spettatore? Presumibilmente, la Storia umana, in quanto compito della realizzazione e del compimento di un senso. Essa si rispecchia in due livelli della raffigurazione: l’attualità dell’evento, in primo piano; la pienezza del paesaggio, sullo sfondo. E, in fondo, finirà per scoprirvi un riflesso di se stessa: un porto, delle navi, l’attività quotidiana del mondo, sottratta e riscattata dalla sua anonima inconsapevolezza.
Fra i tre grandi del maturo Rinascimento italiano, si è accennato alle Annunciazioni di Raffaello e di Leonardo. Non sappiamo quale sarebbe stata una di Michelangelo Buonarroti. Di lui, restano due disegni preparatori. Uno di questi, più tradizionale, è servito per un modesto dipinto di Marcello Venusti in S. Giovanni in Laterano a Roma (1555). Più interessante, l’altro schizzo (1547) oggi al British Museum di Londra. Rimasto allo stadio di abbozzo, forse anche per ciò esso attesta il potenziale innovativo e il travaglio compositivo esplicati nelle famose Pietà scultoree. La sproporzione tra un piccolo angelo sospeso a mezz’aria, sussurrante all’orecchio della Vergine, e il risalto statuario di quest’ultima in primo piano contrasta con la tradizione iconografica, salvo che per alcune Annunciazioni bizantine “al pozzo” o “alla fonte”.
In ogni caso il tema dell’Annunciazione si presta, di per sé, all’espressione di una “coscienza anticipante”. Per dirla di nuovo con Ernst Bloch, un esame più approfondito delle Annunciazioni nella storia dell’arte attendibilmente si rivelerebbe una storia del “principio speranza”, in un crescente sforzo di auto-rappresentazione simbolica. Che esso non vada né possa essere dissociato da un “principio responsabilità”, questa è un’altra questione, la quale non può essere elusa. Ma neppure l’assunzione di responsabilità esula del tutto dalle raffigurazioni dell’evento, affidata eminentemente alle espressioni del volto e alla mimica gestuale della Vergine. Le variazioni di quest’ultima, rivelatrice di una più libera e pensosa attenzione da parte degli artisti, meriterebbero uno studio specifico.
Allora, sarebbe magari più facile capire i versi di Rainer Maria Rilke in Verkündigung: Die Worte des Engels, ovvero “Annunciazione. Le parole dell’Angelo”, poemetto pubblicato nel 1902 in una raccolta significativamente intitolata Das Buch der Bilder (“Libro delle immagini”). Lì, il poeta tedesco recita: Du bist nicht näher an Gott als wir;/ wir sind ihm alle weit./ Aber wunderbar sind dir/ die Hände benedeit./ So reifen sie bei keiner Frau,/ so schimmernd aus dem Saum: “Tu non sei più vicina a Dio di noi./ Sì, noi tutti ne siamo lontani./ Eppure stupiscono le tue mani,/ benedette quelle tue mani./ Così chiare esse sbocciano dal manto,/ nello splendore che ti avvolge”. Rilke tornerà sul tema nel 1912, nella raccolta Das Marien-Leben (“Vita di Maria”), ma senza ottenere lo stesso sconcertante effetto.
Qualcuno si chiederà che fine abbia fatto oggi l’angelo, se abbia ancora qualcosa da annunciare, o se intanto sia stato ridotto al silenzio. A un tale interrogativo si può cercare di rispondere citando un attualissimo passo di Walter Benjamin, in Sul concetto di Storia (1940): “C’è un quadro di Klee che si chiama Angelus Novus. Vi è rappresentato un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la bocca è aperta, e le ali sono dispiegate. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che noi chiamiamo il progresso, è questa bufera”.
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