Pino Blasone
Memorie di Ismene
Prima che io Ismene nascessi, c’era a Tebe la famigerata Sfinge. Grandi ali pennute, screziate di più colori: simili a quelle che si immaginano dei geni, i quali fungono da messaggeri fra cielo e terra. Si vocifera che fosse inviata dalla dea Era, per punire i miei concittadini a causa di qualche sgarbo nei suoi confronti. O dal divino Apollo, geloso dell’antica e mutua predilezione fra il dio rivale Dioniso e i devoti Tebani. Dei un po’ troppo umani, tanto da risultare permalosi.
Le parti basse del mostro erano di leonessa, la femmina del più nobile fra gli animali selvatici e feroci. Altri dicono invece di cagna, con una punta di domestico disprezzo o, peggio, con battute da postribolo. La parte superiore del busto e il viso erano inequivocabilmente di donna. Si concorda che entrambi fossero belli e seducenti. La dote più umana era la voce, salmodiante e suadente. La voce della Sfinge era l’equivalente dello sguardo di Medusa, o del canto delle Sirene.
Nondimeno, la “semi-vergine” era capace di bestiali ruggiti. All’occorrenza, le labbra sensuali si spalancavano e trasfiguravano in tremende fauci. Allora, il suo aspetto antropomorfo rivelava un’essenza antropofaga. Quanti non erano in grado di risolvere gli indovinelli, che elargiva ai malcapitati, erano destinati a essere sbranati senza pietà dalla megera incantatrice. Si sostiene altresì ella fosse stata istruita negli enigmi, dalle apollinee Muse. Va da sé che in breve i viandanti più avveduti disertarono Tebe e dintorni, con grave danno per la città. Agli spauriti e contrariati cadmei non rimase che arginare la fame dell’insaziabile ospite, con offerte di vittime animali.
Si è pure insinuato che del solo Edipo la Sfinge si fosse invaghita. Mossa a compassione da una specie di invidioso amore, gli avrebbe proposto un facile enigma, più per risparmiarlo che per metterlo alla prova. Si sarebbe poi suicidata, gettandosi nel vuoto da un’alta rupe: c’è chi dice per la disdetta di aver udito la soluzione, e chi sostiene per la delusione di non sentirsi desiderata. Quella volta, le ali semi-divine rimasero ostinatamente chiuse e inerti. Nell’impossibilità di possedere lo sprezzante eroe senza togliergli la vita, la sua umanità incompiuta l’avrebbe tradita e perduta.
Chi o, meglio, che cosa era la Sfinge? Com’è uso tra noi greci, si contano opinioni discordi e perfino contrapposte. Mi piace anzitutto riassumerne alcune, dal vago sapore teologico. Gli ex-indovini aggiornati vi intravedono un’idea primitiva della divinità, più vicina alla magia che alla religione. Quasi una dea decaduta, i suoi connotati stridono o prevalgono sulla denotazione benefica, la quale si addice a ogni nume che si rispetti in una società civilizzata.
Non senza nostalgia, ribattono le sacerdotesse che la Sfinge era un’espressione delle forze della natura. Queste possono venir assecondate o scongiurate, secondo le convenienze. Meritano pur sempre di essere venerate, in quanto tali, se non altro perché non si ritorcano contro di noi. Né le ultime sibille dimenticano di rimarcare il genere femminile di una tale apparizione, riflesso di un’epoca in cui una tradizione matriarcale teneva testa al crescente potere maschile.
Ci sono poi le interpretazioni dei filosofi, o le riduzioni dei sofisti. I primi argomentano che la Sfinge sia la proiezione di una percezione ciclica del tempo e di una visione naturale del mondo, contrastante con un ordine barbarico con essa connesso. La fiducia nella possibilità di un progresso avrebbe distinto il giovane Edipo, rendendolo empio agli occhi degli dei. Contestano i secondi che si tratti di una fantasia onirica, la quale rimanda ai recessi dei nostri animi. Il carattere composito ben si accorda con il misto di repulsione e di attrazione, che la sua figura insiste a esercitare su noi.
Dal canto mio, penso che la Sfinge rappresenti un po’ tutte queste istanze, non meno degli albori di quella razionalità che è diventata un vanto della nostra cultura. Il suo tempo ormai eclissato è l’età mitica delle Chimere e delle Sirene, del Minotauro e di Medusa. Nessuno di tali ibridi mostri è stato però latore di un enigma che si sforzi, per quanto ingenuamente, di sondare i misteri delle nostre esistenze o di illuminare l’identità contraddittoria propria di ciascuno di noi.
Ciò vale in particolare per i componenti della mia famiglia, dai miei fratelli Eteocle e Polinice a nostro padre – nonché fratellastro – Edipo, da mia sorella Antigone a nostra madre Giocasta. Chi più chi meno, essi erano portatori di un’intima contraddizione. Più in generale, partecipavano di una contraddizione costitutiva delle nostre personalità, fra la presunzione di essere delle persone uniche e i vari personaggi che siamo indotti a recitare sulla scena dell’esistenza.
A ben vedere, ad altro non allude il più celebre enigma della Sfinge: “Chi è l’essere con un solo nome, che al mattino cammina a quattro zampe, a mezzodì con due e alla sera con tre?.” Basti riflettere su quel “solo nome”, indizio spesso trascurato dagli interpreti. Per la precisione, Edipo talora riferiva che il mostro avesse sibilato: “una sola voce.” Ma si affrettava a spiegare che ogni nome non è se non una labile emissione di voce. Quindi, il senso del discorso non cambia molto.
Più avanti con gli anni, nostro padre commentava con un gioco di parole: – Non meno della Sfinge, noi siamo tutti deformi. Nasciamo pressoché informi. Ci illudiamo di attingere la pienezza di una forma, mentre questa già si corrompe e trasforma.
C’è della verità, in queste massime. A maggior ragione, la Sfinge era in grado di trasformarsi. Da quando Edipo ne ha provocato la morte simbolica, non siamo più capaci di riconoscerla. Estromessa dalla natura, l’essenza dell’ultimo mostro sacro si è camuffata nella storia, dilatandosi in una dimensione non di rado diabolica.
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Per un verso o per l’altro, l’ombra della Sfinge si è allungata sui destini dei miei familiari, prefigurandoli. I loro pretesi misfatti e le inaudite sventure hanno fornito ispirazione a poeti e artisti, materia di riflessione ai pensatori, modelli di riferimento ai terapeuti delle anime. Pochi si sono dilungati sulla mia sorte, forse perché sono la sola a essere sopravvissuta. Probabilmente, il mio personaggio è apparso il meno problematico, elementare addirittura o accomodante. Così come ritengo alla maggior parte di voi, più che di impersonare un ruolo a me in effetti è stato concesso di vivere una vita, per oscura e modesta che sia. Resta da verificare se ne sia valsa la pena.
Nella nostra adolescenza, ogni qual volta io e mia sorella ci specchiavamo insieme per gioco, ricordo che prima o poi lo spettro della Sfinge tornava ad affacciarsi alle nostre spalle. Intuibilmente, gli interrogativi sulla natura del mostro non ci coinvolgevano più di tanto. Tuttavia, l’orgoglio di sapere che Edipo l’aveva sconfitto, ottenendo in premio un regno e in moglie nostra madre, non era sufficiente a cancellare quella minaccia vendicativa. Ancor oggi esito a specchiarmi, per timore che la sua immagine sovrasti la mia o vi si sovrapponga nello specchio. Inoltre, per non dover prendere di nuovo atto del vuoto lasciato dal volto e dalla persona di Antigone.
Chiunque a suo tempo abbia avuto occasione non dico di ascoltarne le parole, ma solo di incrociarne gli sguardi, ha avuto modo di accorgersi di chi fra noi avesse meglio ereditato la capacità di reggere la vista della vergine deforme, se non di risolverne gli insidiosi indovinelli. È per questo che ci tengo a riportare un parere pertinente di lei, già adulta. Intanto, il dramma di Edipo si era consumato. Divampava la guerra tra i nostri fratelli, per la successione al trono di Tebe. Mal consigliato dal nostro zio materno Creonte, il quale nutriva mire di governo, pare che Eteocle non avesse rispettato i patti, rifiutando di cedere il regno al fratello ad anni alterni come convenuto.
Mio promesso sposo, il compianto Ati era appena caduto difendendo la città dall’esercito raccolto da Polinice, rifugiatosi ad Argo. Un dettaglio perverso è che gli assalitori avevano adottato proprio l’insegna della Sfinge, per incutere terrore ai tebani, i quali ne rammentavano l’esperienza. Dagli spalti delle mura, si poteva scorgerne l’effigie balenare sugli scudi, o in cima agli elmi. Con la sinistra messinscena, Polinice non si rese conto di star rievocando il mostro, pronto a infierire su di noi. Forse neppure gli importava, abbagliato dalle Furie ostili, decise ad annientarci.
Confesso di aver odiato mio fratello per il male insensato che mi procurava, per il rinnovarsi del dolore causato dal suicidio di Giocasta, dall’accecamento e dall’esilio di Edipo. Dal canto loro, entrambi i nostri fratelli non avevano mai perdonato nostro padre, attribuendogli la colpa della fine di nostra madre. Per questo loro accanimento, Edipo era giunto a maledirli. Dopo la sua morte, l’odio li aveva rivolti l’uno contro l’altro. Enumerando tali funesti trascorsi, io mi lamentavo in preda allo sconforto, e all’impressione suscitata dall’avverarsi dei peggiori sogni premonitori.
– In fin dei conti, – disse Antigone, mentre si sforzava a oltranza di consolarmi – la Sfinge raffigura il fondo di bestialità che riaffiora in ognuno di noi. Di più, esprime la sofferenza di non poterne aver mai ragione, nonostante i ripetuti sforzi di sfidarla.
A differenza di mia sorella, ho sempre sperato possibile trovare la via per accettare quel fondo animalesco e conciliarlo con una superiore umanità. Malgrado tutto, devo riconoscere che tale errore mi ha aiutato a sopravvivere. Il prezzo da pagare è stato il sentimento di una ricorrente, incolmabile solitudine.
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Che si tratti di un episodio reale o di un incubo a occhi aperti, non ho validi motivi per dubitare della storia dell’incontro con la Sfinge, quale narrata da nostro padre, anche se ogni volta mutava qualche particolare di minor rilievo. Ignara o noncurante delle valutazioni che si sarebbero date di lei, in carne e ossa ella amava accovacciarsi tra le rocce nei pressi dell’abitato, in attesa di sacrifici cruenti da parte degli esausti tebani o tendendo agguati là dove la strada si restringe e il passaggio è obbligato. Vi passò intenzionalmente nostro padre in viaggio da Corinto, determinato a emulare le imprese di altri noti uccisori di mostri, magari senza colpo ferire.
E fu quanto avvenne. Egli usò l’acume per ottenere lo scopo. Fornì giusta risposta agli enigmi prescelti dal mostro, in special modo a quello che concerne l’essenza precaria dell’uomo. A differenza che per Perseo, il quale pure si servì dell’accessorio di uno specchio per vincere Medusa, non ci fu bisogno di spada. Certo a lui arrise la fortuna, sia nella circostanza presente sia per le conseguenze immediate dell’impresa. Edipo sposò la vedova regina. Ascese al trono della città liberata, secondo quanto pattuito. Ma il lieto fine della favola era un inganno degli dei, ai danni suoi e di Giocasta, e di noi figli che presto allietammo la reggia con la nostra infanzia.
Il divario di età fra la matura sovrana e il consorte imponeva che venissero assicurati degli eredi, in un periodo relativamente breve. Giunse tuttavia il giorno dell’amara scoperta, presagito da una pestilenza che aveva colpito la popolazione e di cui non si riusciva a capire quale colpa contaminante fosse il motivo. I responsi in merito degli oracoli erano ambigui ad arte, per non farsi comprendere o per lasciarsi facilmente fraintendere. Fu l’indovino Tiresia a chiarire l’arcano all’incredulo re. Dopo un’ansiosa ricerca, vennero poi puntuali le conferme dei testimoni, di quanto accaduto molto tempo prima. Evento anche più infausto, ne venne al corrente pure la regina.
In prime nozze, ella aveva sposato il re Laio, cui era stato pronosticato che sarebbe stato ucciso dal figlio. Per evitare il pericolo, il padre superstizioso e snaturato aveva sottratto l’infante appena nato a Giocasta. Lo aveva consegnato a un servo, perché lo facesse morire. Questi lo aveva appeso per i piedi con una fune ai rami di un albero, in cima a un monte frequentato da fiere voraci. Ma il pianto del futuro Edipo, vale a dire attendibilmente “piedi gonfi”, aveva attirato l’attenzione e mosso la pietà di un pastore e di sua moglie. Essi avevano accolto il bambino. Lo avevano cresciuto, finché lo avevano affidato ai regnanti di Corinto, che lo adottarono come figlio a causa della mancanza di prole. Al principe claudicante, era rimasta la singolarità del nome.
Oltre ad acquisire una buona istruzione, cosa rara dati i tempi perfino per un nobile, egli aveva sviluppato la vocazione dell’eroe o l’inquietudine dell’avventuriero. Queste doti discutibili, specialmente se sommate insieme, lo avrebbero riportato fino a Tebe. Ma prima di intercettare la Sfinge, lungo il percorso, lo attendeva l’anticipo di un’atroce beffa del destino. Senza conoscerlo, Edipo aveva incontrato il padre naturale, in viaggio anche lui per consultare il solito oracolo. All’epoca, le vie erano maledettamente accidentate e strette. Durante una banale lite per una questione di precedenza, in un accesso d’ira Edipo si era scontrato con Laio e con i suoi sgherri.
Benché inconsapevole, il principe aveva assassinato il re di Tebe e insieme ucciso il proprio padre. In seguito si era congiunto con sua madre, generando con lei dei figli. Si apre, qui, una serie di interrogativi di prammatica. Che cosa avreste fatto al posto di Edipo, una volta aperti gli occhi sui propri trascorsi? Che cosa avreste fatto, al posto di Giocasta? Che cosa avreste fatto, al posto dei maggiorenti tebani? Soprattutto, come vi sareste comportati al nostro posto, in una situazione del genere? Tali quesiti hanno ricevuto diverse risposte, in base al senso di giustizia e alle esigenze compositive di vari autori, che si sono prodigati nel rielaborare la vicenda in veste letteraria.
Rendendo omaggio all’inventiva di tutti, sceglierò le versioni che meglio si adattano alla verità dei fatti, così come io l’ho conosciuta e in parte vissuta sulla mia pelle. Se nel mio racconto qualcosa non quadra con la variante che vi ha maggiormente commossi o convinti, siete liberi di attribuirne la colpa a un difetto di memoria, o a una tara della mia sensibilità. Alla fin fine, resto pur sempre figlia e sorella di un parricida incestuoso, la sorella di due fratricidi, la figlia e la sorella di due suicide. Ce n’è abbastanza, per turbare le menti più forti. Ciononostante, mi è stato addebitato di non essermi lasciata travolgere. Perlomeno, non al punto da assumere quale norma di vita la tragicità dell’esistenza, per facilitare il compito catartico del drammaturgo di turno.
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Giocasta ci abbracciò a lungo senza lacrime, tutti e quattro quanti eravamo. Poi andò a chiudersi nelle sue stanze, dicendo che desiderava riposare. Sebbene fossimo abbastanza cresciuti, le notizie degli eventi filtrate fino a noi dai piani alti della reggia erano talmente frammentarie e confuse, che lì per lì non ci rendemmo conto che quello era l’ultimo addio di nostra madre. Un sospetto subentrò col passare del tempo, e con l’assenza prolungata di segni di vita provenienti dall’interno del gineceo. Polinice allora corse a chiamare la servitù, che avvertisse nostro padre.
Edipo ordinò di forzare le porte. Irruppe per primo nella camera regale. Ormai esanime, Giocasta era appesa per il collo con una fascia a una catena che pendeva dal soffitto, di quelle che sostengono pesanti lampade di bronzo. La fibula, che fermava il manto su una spalla, si era sfilata. Il panno era caduto, lasciando seminudo il corpo della regina. A quella vista, il re non si trattenne dall’urlare selvaggiamente. Invano tagliò la fascia con la spada, adagiando il cadavere sul letto.
A gesti, egli cacciò fuori dalla stanza quanti vi erano affacciati. Richiuse le porte dietro le sue spalle. Quando esse si riaprirono, sospinte lentamente, l’uomo che ne uscì barcollando reggeva ancora in una mano la spilla acuminata. Dal gioiello d’oro stillavano gocce di sangue, tracciando di chiazze rosse il pavimento in mattoni. Riuscii appena ad accorgermi delle orbite di lui pure insanguinate, prima che la mano premurosa di un’anziana nutrice celasse la scena ai miei occhi.
Se non altro per distrarci dall’orrore della descrizione, è il caso di accennare a un’altra parziale interpretazione del nome Edipo. Nella nostra lingua, esso vorrebbe dire: “colui che sa”, anzi “che vede.” In chiave ironica, l’erudito significato avrebbe preannunciato la menomazione inflittasi da nostro padre, per punirsi delle presunte colpe o per non dover assistere oltre alla vista dei loro effetti. Gli indovini, prevedibilmente il cieco Tiresia in testa, avrebbero provato a convincerci che nella cecità risieda una virtù, la quale conferisce una visione previdente delle cose.
Si sa che i normali vedenti difettano di certe facoltà. Esse si acuiscono in quelli ritenuti meno fortunati. Sull’origine della sua cecità, Tiresia ci aveva fornito contrastanti spiegazioni. La più intrigante è che lui da ragazzo avesse visto la nudità di Atena, per straordinario accidente. A seguito dell’empietà la vergine dea della scienza e della tecnica lo aveva accecato, e compensato con la scienza dell’invisibile, quasi a suggerire che quella delle cose visibili mal si accorda con l’eros. Se è vero che gli dei stanno un po’ ovunque, non solo sul monte Olimpo, non credo che essi abbiano avuto parte nello sfregio di Edipo. Tanto meno, che vi abbiano riposto un occulto insegnamento.
Fatto sta che, il giorno successivo, Creonte ci convocò nella sala del trono. Il tristo figuro se ne stava compunto in piedi, a fianco del seggio vuoto, dove non giungeva la luce del sole e il chiarore delle fiaccole contendeva con l’ombra. Egli confermò ufficialmente il decesso di sua sorella. Ci informò delle prossime esequie, giustificando il gesto di nostra madre con la vergogna provata per la pubblica rivelazione dell’incesto, incompatibile con la dignità del suo rango.
Nostro zio aggiunse che la regalità di nostro padre era uscita gravemente compromessa dall’intera vicenda. Comunque, lui non sarebbe stato più in grado di governare. Di conseguenza Creonte stesso si vedeva obbligato ad assumere la reggenza temporanea, come già dopo la morte di Laio. Quale primo atto doveroso, aveva riunito il consiglio degli anziani della città per deliberare.
– Per il bene comune, – seguitò il futuro tiranno – a malincuore il senato ha deciso di invitare Edipo ad allontanarsi da Tebe, a tempo indeterminato. Una volta che egli sia partito, essendo gemelli, voi eredi maschi regnerete per un anno a turno. S’intende, sotto la mia iniziale tutela. E voi, dilette nipoti, siete padrone di restare in patria o di seguire vostro padre nel suo esilio consensuale. Quest’ultima soluzione non sono tanto io a raccomandarla, quanto la pietà filiale. È bene che un uomo ferito nel fisico e nell’animo goda dell’assistenza, che voi sole potete dargli.
Fu così che io e Antigone abbandonammo una gioventù fatta di amicizie del cuore e dei primi amori. In breve, svaghi e comodità domestiche divennero oggetto di rimpianto. Le cure familiari si restrinsero alla persona di nostro padre, tramutatosi nel nostro terzo fratello. Il pellegrinaggio che insieme intraprendemmo in terra di Grecia non incontrò facili accoglienze. Piuttosto, reazioni imbarazzate o umilianti repulse. Finalmente una città ci diede asilo sul suo territorio, purché scegliessimo di soggiornare fuori delle sue mura. Un luogo, il borgo di Colono, sembrò gradito a Edipo. Teseo in persona, sovrano di Atene, volle degnarsi di venirci a ricevere.
Credo per la prima volta, il vincitore della Sfinge caduto in disgrazia e l’uccisore del Minotauro nel Labirinto di Creta ebbero occasione di conoscersi e di intendersi, solidarizzando dopo aver confrontato le rispettive convinzioni. Noi non fummo ammesse al colloquio. Né nostro padre ritenne di doverci mettere al corrente. Dopo la scomparsa misteriosa di Edipo, verificatasi da lì a poco, fu Teseo a riferirci come essi avessero discusso dell’avvenire dell’Ellade, auspicandone l’uscita dall’arcaica barbarie sotto la guida di una monarchia illuminata. Antigone ricevette la positiva impressione che quanto nell’animo di Edipo era stato un sogno utopico, appunto allora nella mente dell’ateniese cominciasse a tradursi in un progetto realistico.
Purtroppo, la conversione di Teseo coincise con la definitiva uscita dalla scena di Edipo. C’era a Colono un boschetto, sacro alle Furie nella loro versione pacificata, che va sotto l’appellativo di Eumenidi. Sentendosi prossimo alla fine, il cieco avvertì giunto il momento di riconciliarsi con esse e con se stesso. Non senza averci ringraziate e benedette, si scusò per averci procurato privazioni e sacrifici. Come chiamato da voci che lui solo poteva udire, superò il tracciato del recinto e vi penetrò, malgrado noi cercassimo di trattenerlo. Teseo si offrì di accompagnarlo per un tratto. Soltanto ai sacerdoti, e a pochi altri iniziati, era consentito varcare quella soglia.
Questo limite rappresentava il confine tra la vita e la morte. Passato qualche tempo, quando il re di Atene ricomparve fuori dal fitto degli alberi, recava sulle braccia le spoglie di Edipo. E il suo viso era rigato di lacrime. La scena suscitò una profonda emozione specialmente in mia sorella, che da allora in poi non riuscì quasi più a distinguere tra le due figure. Al contrario, io ho sempre ritenuto che una differenza rilevante vi fosse e che essa non vada affatto a svantaggio del personaggio di nostro padre. Ho pure concepito un dubbio: che l’infatuazione ideale di Antigone avrebbe concorso non poco, per vie traverse, a farne la sfortunata eroina che in tanti conoscono.
Teseo proclamò che lo spirito di Edipo era stato assunto in cielo. Fece seppellire il corpo nel bosco santo ed erigere un tumulo di pietre grezze sul sito. Non era ancora trascorso il periodo del lutto, quando mia sorella interruppe il silenzio di rito, per rivolgermi queste parole: – Mi sono consultata con Teseo. La morte di nostro padre ci esenta dal bando. Sai anche tu le voci provenienti da Tebe, di come Creonte semini discordia tra i nostri fratelli, e quanto ciò abbia angustiato e indisposto Edipo. Torniamo in patria, per scongiurare il pericolo di una guerra civile o limitarne la portata, nella peggiore delle ipotesi. Dobbiamo fare quanto nostro padre avrebbe desiderato.
* * *
Non mi fossi lasciata persuadere, nell’interesse nostro e soprattutto di Antigone! Ma lei ricorse a ben altri espedienti. Tirò in ballo il mio sentimento per il giovane Ati e il suo per nostro cugino Emone, figlio di Creonte e di Euridice. Rimasti a Tebe, entrambi rischiavano di venir travolti da un conflitto, che si prospettava incombente. Lo ammetto, la voglia di rivedere Ati e di poterlo riabbracciare ebbe un peso, nella decisione di aderire alla richiesta di mia sorella. Diversamente da quest’ultima, ho poco confidato nelle possibilità delle figlie di Edipo di influire per il meglio nelle vicende politiche, senza divenire inconsapevoli strumenti di altrui mire.
Sulla volontà di tornare in patria, diciamo che influì la nostalgia dei nostri ricordi condivisi. Secondo l’uso tebano io e mia sorella, per esempio, eravamo state menadi o baccanti in età precoce. Esse sono le sfrenate seguaci dei riti di Dioniso, che su noi ragazze esercitavano un fascino speciale. Il dio dell’ebbrezza, delle passioni e del teatro, in qualche modo ci era addirittura imparentato. Sua madre Semele era stata figlia mortale dei nostri antenati Cadmo e Armonia. Il fanciullo concepito con l’immortale Zeus, re degli dei, si era compiaciuto di tornare nella città materna per diffondervi il suo culto. Ma il severo re Penteo lo aveva giudicato immorale e lo aveva fatto arrestare.
Non da ieri Tebe è patria di donne libere o ribelli, e di qualche tiranno ottuso. Fatto sta che il divino giovinetto ispirò fieri consigli alla prime baccanti, che corressero a liberarlo e lo portassero in trionfo. Fra quelle, c’era la madre di Penteo. Ebbre e invasate dal dio irato, esse scambiarono il re per un animale selvaggio. Si avventarono su lui, facendone scempio. Da allora i sovrani della città hanno imparato a temere e venerare il nome di Dioniso, a tenere in considerazione i pareri femminili. Per nostra disgrazia, Creonte è stato un’eccezione che ha confermato tale regola.
A noi donne sono riservati i canti e le danze notturne, celebrazione delle origini del culto. Ciò non toglie che giovani di entrambi i sessi siano ammessi ai riti e alle feste diurne. Fu in quelle liete riunioni che conobbi Ati, accompagnato da nostro cugino. La prima volta, Antigone ed Emone si appartarono per conto loro. Io e Ati rimanemmo soli, in cerca di parole che tardavano ad affiorare sulle nostre labbra. E fu lui a rompere il silenzio, perché gli leggessi un’iscrizione su una tavoletta di creta, che mi mostrò. Un souvenir, che gli era stato portato in dono dal santuario di Delfi.
Sorrisi della circostanza. Gli promisi che, se lo desiderava, gli avrei insegnato a leggere e anche a scrivere. Questo sarebbe stato, calcolavo tra me e me, un impegno non sgradito. Presto tuttavia confessò di saper leggere abbastanza, da decifrare la scritta sull’oggetto: “Conosci te stesso.” Mi regalò la tavoletta, dichiarando che tanto a lui non serviva più, da quando aveva conosciuto i suoi sentimenti nei miei confronti. Mi schermii, protestando che una conoscenza così improvvisa non dava molto affidamento. Ma pensai che era pur vero questo doversi rispecchiare in altri, per meglio capire se stessi. Neppure il saggio Tiresia sarebbe stato così scaltro.
Accettai in pegno il dono, che ancor oggi conservo, finché io e Ati ci fidanzammo. Dopo il nostro ritorno a Tebe, avrei fatto un brutto sogno. Vidi i festeggiamenti per le nozze, alla luce del giorno felice. Ma poi la sala si oscurò. Le torce subito accese stentavano a illuminarla. Quando si tornò a distinguere con chiarezza, Ati era scomparso dal posto dello sposo. Sua madre si alzò e mi assalì maledicendo la mia famiglia, reclamando che le rendessi il figlio. Confidai l’incubo ad Antigone. Lei mi esortò a non seguire in ciò il modello di Edipo, a non sopravvalutare i fantasmi della mente. Più ancora che presentimenti, essi sono travestimenti delle paure dell’animo.
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Al culmine della sua gloria, nostro padre si era vantato di aver vinto l’arcaico potere della Sfinge, risolvendo il celebre indovinello. Esule e cieco, si sarebbe accorto di quanto la soluzione fosse parziale, di come essa fosse il riproporsi di un enigma ben più difficile. – Niente – allora si corresse – è più enigmatico dell’uomo stesso.
La sua enigmaticità, la trasmise ad Antigone. Non è esistita donna meno decifrabile, nei suoi comportamenti, disputano di lei i filosofi. Per me, era mia sorella. Meglio di Edipo, penso che ella cercasse di preservare quanto di buono pur c’era nel tempo antico, di fonderlo con il nuovo di un’aurora tempestosa. Se a non capirla fosse stato il solo Creonte, lei ancora vivrebbe.
Si è sparlato di una mia gelosia verso Antigone, per la predilezione a lei accordata da Edipo. E di una meschina invidia nei suoi riguardi, perché la sorte mi avrebbe strappato Ati risparmiando il suo Emone, durante la guerra che sarebbe scoppiata fra Eteocle e Polinice, tra Tebe e la città di Argo le quali rispettivamente li sostenevano. O di un aperto dissidio quando, a costo della vita, la mia sorella minore si sarebbe opposta agli arbitrii di Creonte. Io avrei criticato la sua condotta mascolina, giustificando il destino remissivo riservato a noi donne dalla natura o dai costumi. Avrei addirittura teorizzato la sottomissione all’autorità, qualunque ne sia la fonte o la natura aberrante. Nulla di più ingiusto, di tale incomprensione nei miei confronti.
Non nego che i nostri temperamenti divergessero, orientato il suo da un nobile e impulsivo entusiasmo; il mio, più cauto, da un pratico buon senso. Ma non ho mai mancato di affetto né di lealtà, dedicati ad Antigone. Se mai c’è qualcosa di cui possa pentirmi, è un’eccessiva ammirazione e accondiscendenza. In determinate circostanze, un atteggiamento più fermo da parte mia avrebbe forse contribuito a salvarla. Non era facile farsi ascoltare da lei. Tanto meno dai nostri fratelli, benché la prima si battesse inerme per la pace comune e i secondi per fini privati. Quando arrivammo a Tebe, il conflitto era in atto. A niente valsero i nostri sforzi per ricondurli a un ragionevole accordo. Eteocle e Polinice finirono con il trafiggersi a vicenda in duello.
La città era provata ma salva. Composte per lo più di argivi, le truppe assedianti avevano subito tali perdite, che si ritirarono. Creonte ne approfittò, per attribuirsi il maggior merito della vittoria e per insediarsi alfine sul trono. Noncurante di una conciliazione fra i cittadini o tra i greci in generale, adottò drastiche misure contro i partigiani di Polinice, dichiarato traditore della patria. Si tennero sontuosi funerali per Eteocle, e per i patrioti caduti in battaglia. Sprezzando ogni precedente convenzione o senso di umanità, però il despota vietò che le salme dei nemici fossero seppellite o rese ai familiari che ne facevano richiesta, a iniziare da quella di Polinice.
Un risvolto futile e spietato sembrava escogitato apposta per finire di colpire la nostra discendenza, e per scoraggiare ogni legittimo pretendente al potere regale. Infatti, sarebbe stato condannato a morte chiunque contravvenisse a un tale editto. Chi doveva tenerci in particolare a seppellire Polinice, se non noi stesse o la vedova Argia, che peraltro gli aveva dato un figlio? Cadere in questa trappola avrebbe significato prestarsi al gioco perverso dell’usurpatore. Si aggiunga un’antica credenza, diffusa non solo tra noi greci. L’anima, di chi non avesse ricevuto adeguata sepoltura o cremazione, sarebbe stata condannata a vagare senza pace su questa terra.
Antigone era suggestionata da questa fosca prospettiva, quasi quanto angosciata dall’ennesima offesa arrecata alla stirpe di Edipo. Cercai di demistificare, osservando che nulla ormai poteva davvero nuocere o giovare ai nostri dissennati fratelli. Quanto al tiranno, conveniva pazientare finché prima o poi un dissenso popolare si opponesse alle sue vessazioni, e magari si muovesse con l’intento di rovesciarlo. Altrimenti, come avremmo potuto agire da sole? Le feci notare che lei si era pur sempre promessa al figlio di Creonte, corrisposta nei sentimenti. La incoraggiai a non trascurare questo interesse vitale, piuttosto che votarsi a un culto mortale.
Ottenni l’effetto contrario. Mia sorella mi rinfacciò di non saper perdonare a Polinice la responsabilità della morte di Ati. Obiettò di non voler reclamare il diritto al seppellimento di nostro fratello in base a un movente personale, bensì a una motivazione generale, che nostro padre avrebbe certo approvato. Ne fece una questione di principio. Ho imparato a diffidare delle questioni di principio, sovente diventate gli alibi dietro cui si celano le Sfingi dei nostri tempi. Replicai che non avrei assecondato il proposito che aveva in mente. Antigone minacciò di inviare, con Argia, una petizione segreta al re di Atene, che intervenisse a ristabilire il diritto violato a Tebe.
Inorridii, al pensiero di quanto sarebbe potuto accadere. Teseo non si sarebbe lasciato sfuggire il pretesto di soccorrere le figlie di Edipo, sue protette, e di restituire le spoglie dei guerrieri argivi alle loro vedove. Anzi, si sarebbe proposto quale successore morale e vendicatore dell’eroe. Si sarebbe fatto un vanto di trapiantare, nell’arretrata Tebe e a favore della Grecia, la civiltà da lui stesso coltivata nell’Attica. In caso di un rifiuto di Creonte, di cedere a un ultimatum, non avrebbe esitato a usare le armi contro una città stremata. Tutto ciò, per poter esclamare che un nuovo ordine regnava tra le sue rovine, dove gli ultimi cadmei così liberati si aggiravano come in un labirinto.
Da ultimo, mia sorella dichiarò che avrebbe agito da sola, che me ne restassi pure tranquilla. Sottoposta a tale ricatto morale, come già in passato acconsentii. Promisi di aiutarla nella nuova avventura, a patto che si trattasse di un’azione dimostrativa. Nottetempo, salimmo sul colle dov’era custodito il corpo di Polinice. Mentre io vigilavo, Antigone vi sparse su una manciata di polvere. Un seppellimento simbolico. Ma fummo tradite dall’abbaiare dei cani e dalla luna piena, affacciata a curiosare tra le nubi. Le sentinelle si destarono dal dormiveglia. Ci riconobbero e trascinarono al cospetto del re, mia sorella principale imputata e me in quanto complice.
* * *
Prima, Creonte mostrò di montare su tutte le furie. In breve si calmò, come se avesse previsto e si fosse augurato un incidente del genere. – Del resto, – dovette pensare – sennò che gusto ci sarebbe a esercitare il potere? Solo responsabilità e grattacapi. Ogni tanto, ci deve pur essere qualche piccola soddisfazione o rivincita.
Ovviamente, non disse niente di ciò. Invece, ripeté tra sé e sé, con malcelato e irrisorio compiacimento: – Signorine di buona famiglia, buone a nulla.
Alzò di nuovo la voce, per farsi sentire meglio: – Ci vuole ben altro per prendermi in giro, o per farsi gioco della legge. Un editto, scritto a chiare lettere in un pubblico editto. Comunque, siete pur sempre mie nipoti. Confessate, dichiarando di pentirvi del crimine. Farò finta che l’abbiate commesso senza intenzione. Vi farò passare per illetterate, o incapaci di intendere e di volere, in modo da potervi assegnare una condanna minore, libere di tornare da dove siete venute.
Ci infastidì quel suo rievocare con confidenza il legame di parentela, quasi una viscida catena da cui riuscisse impossibile liberarci, almeno in questa vita. Di fronte al nostro silenzio, lo zio ipocrita tornò a inquietarsi. Chiamò le guardie quali testimoni, per incuterci soggezione e simulare un regolare processo. – Quand’è così, facciamo dunque sul serio. – proseguì – Non meritate la mia clemenza. In più, mi fate perdere tempo prezioso, che potrei dedicare a faccende più importanti. Ditemi subito chi è colpevole. Mi risparmierete di interrogare queste brave persone.
Antigone fece un passo avanti, per parlare. – Tu sai già come si sono svolti i fatti. – esordì – I tuoi sgherri te lo hanno certo spifferato. Perciò, facciamo a meno di questa farsa. Io ho agito del tutto da sola. Ismene è stata semplicemente a guardare. Lei era anche avversa al mio gesto, di cui mi assumo ogni responsabilità. Non ritengo di aver commesso un crimine, bensì un sacrosanto dovere. So leggere e scrivere, perché nostro padre ha richiesto che il cieco Tiresia ce lo insegnasse. Mi appello alle leggi non da te scritte ma a quelle eterne degli dei, incise dalla natura nei nostri cuori. Tu ci istighi a violarle: il peggior sacrilegio, di cui un vedente possa macchiarsi.
– Saputa e orgogliosa, come Edipo. – ribatté Creonte al culmine della stizza, con tono provocatorio – Ne riconosco l’alterigia e l’impostura. Degna figlia di un sovrano imbelle, seduttore di materne vedove e maestro in giochi di parole. Quanto inferiore a Orfeo, che usò l’arte della musica per vincere il canto infido delle Sirene e l’ignoranza di pietà degli dei inferi! Questa volta non ci sarà una Sfinge indulgente, disposta a lasciarsi infinocchiare e a tollerare le vostre insolenze. Per la sicurezza dello Stato, occorre che ciascuno faccia il suo mestiere sino in fondo. Fino a prova contraria, il mio è di governare e di giudicare. Sconterai una pena esemplare e imparziale.
Ognuno a sua misura, pensai dentro di me, ha una Sfinge che lo aspetta al varco. Essa viene a giorno con estrema lentezza, come in uno specchio opaco e deformante. È evidente, quella di questo pover’uomo è un impasto di sete di dominio e di invidioso livore. L’ingenuità temeraria della figlia-sorella di Edipo non ha fatto che metterne a nudo l’intima bassezza. Ma il suo vero volto è la follia. Probabilmente neanche lui potè prevedere che, da lì a poco, per prenderne atto avrebbe dovuto assistere non solamente alla morte di mia sorella ma anche al sacrificio dei propri intimi.
Le mie proteste di condividere l’operato di mia sorella, e di volerne spartire la sorte, ebbero il solo esito di farmi scacciare a forza dalla reggia in cui erano trascorse le nostre infanzia e adolescenza. Quanto ad Antigone, fu detenuta sapendo che la sua condanna si sarebbe eseguita da sé. Le modalità previste erano terribili: rinchiuderla in un ipogeo, per lasciarvela morire. Non per niente, la memoria popolare recita che sono i vivi a seppellire i defunti, mentre Creonte era un morto che seppellì i viventi. Sconvolta, corsi ad avvisare Emone e Tiresia dell’accaduto perché distogliessero il despota dall’insano proposito, che almeno sospendesse o convertisse la pena.
Inutilmente, Emone si scontrò verbalmente con il padre. Questi si spinse ad accusarlo di essersi lasciato traviare da Antigone. Nemmeno un’eventuale discendenza dai due giovani, che avrebbe potuto vantare legittimi diritti alla successione regale, si rivelò un argomento cui Creonte fosse sensibile o adatto a convincerlo. Le insistenze del figlio non fecero che accrescere l’irritazione del tiranno. Sguainata la spada, a sua volta esasperato nostro cugino fu tentato di ucciderlo. Ma non trovò il coraggio di compiere un delitto, che lì per lì avrebbe avuto qualche effetto salutare.
Là dove aveva fallito Emone, riuscì il vecchio Tiresia. Egli conosceva un punto debole di Creonte, di credersi un abile statista. Gli fece presenti le ultime nuove da Atene, portate da fidati informatori. Altrimenti, come farebbero i vati a spiare il futuro? Vedendosi negata la restituzione dei corpi dei propri cari per le onoranze funebri, le vedove e le madri di Argo avevano rivolto le loro suppliche a Teseo. Il re le aveva accolte volentieri, meditando di ingiungere all’“usurpatore” di Tebe di ritirare il suo editto con la minaccia di un intervento armato. Proprio ora, la morte di Antigone avrebbe fatto precipitare la situazione. L’accanimento del fato volle tuttavia che l’accorto indovino arrivasse tardi sulla scena del dramma, e al successo nel suo scopo.
Creonte si figurò se stesso già spodestato, dopo aver atteso che ben tre sovrani si succedessero sul trono e averne favorito il ricambio. Valutò che la città non avrebbe potuto resistere a un attacco diretto da Atene, la quale prudentemente si era tenuta fuori dalla guerra fra Tebe e Argo. Grazie all’offensiva diplomatica di Teseo, ora tra le sue alleate si contavano Argo e Corinto, città di cui era stato principe ereditario l’amico Edipo. La setta dei vincitori di mostri aveva mirato lontano. Essi avevano saputo combinare leggende e demagogia, per fondere le storie in una storia.
Mancava solo la sottomissione di Tebe, perché l’egemonia ateniese si estendesse a buona parte dell’Ellade, e oltremare fino a Creta. Il despota tornò sulle proprie decisioni. Dichiarò di aver inteso impartire ad Antigone solo una lezione, forse alquanto esagerata. La posta in causa era il rispetto di leggi scritte, il cui grado di certezza nessun legislatore avrebbe dovuto più ignorare. Non era questo il mostro informe contro cui aveva combattuto, lo stato aleatorio del diritto? Ordinò che la tomba venisse prontamente riaperta, e che la sepolta viva ne fosse estratta con gran cura.
* * *
Come ci si attende dai sepolcri, ciò che riemerse fu un corpo inanimato. La differenza era che il suo era ancor caldo. Le membra erano flessibili. I lunghi capelli erano sciolti. La bellezza giovanile non potrà sfiorire, nella memoria di chi l’abbia osservata da viva o da morta. La figlia minore di Giocasta si era impiccata con la fascia che nostra madre aveva impiegato allo stesso fine, e che Edipo le aveva donato perché la custodisse per ricordo. Neppure l’imposizione della morte aveva avuto ragione di lei. La sua breve esistenza era stata la rivendicazione di una libera scelta.
Non altro ricercando che questo, Antigone si trovò a pagare un prezzo troppo alto, per diventare o restare una protagonista. Un destino migliore non arrise alle comparse di questa storia. Il buon Emone non resse alla vista della tragica scena. In preda al dolore per la perdita, e al rimorso di non aver osato estirpare la radice dell’esito, si tolse la vita con la spada che si era rifiutata di trafiggere il padre padrone. A una simile sorte volle associarsi la paziente Euridice, con un duplice intento: accompagnare il figlio nell’aldilà; sottrarsi alla convivenza con l’odioso tiranno. Vi chiederete, o ve lo state già chiedendo, come mai io non abbia seguito il loro esempio.
È la domanda cui non posso rispondere, perché in ciò io e la Sfinge è come se fossimo una sola personalità. Per me stessa, è difficile capire chi sia l’interrogante e chi l’interrogata, chi la persona e chi il personaggio. Non so risolvere l’enigma. E questo mi divora pezzo per pezzo, giorno dopo giorno. Costretta a vivere ad Atene, nel palazzo dorato del generoso Teseo, mi sento l’ostaggio di una lucida normalità. Avrei preferito la sorte di Creonte, sprofondato nella demenza per non guardare ai frutti della sua delirante politica: scrittore di lapidi, anziché di leggi. In tale congeniale mania, il dio Dioniso gli ha lasciato una via di uscita dalla consapevolezza della realtà.
Quando il re di Atene ha fatto il suo ingresso a Tebe, l’ex despota gli è venuto incontro, per donargli la raccolta di epitaffi di cui si professa autore. Il trionfatore si è mostrato comprensivo, indicandogli un posto in fondo al suo seguito. Poi, ha pronunciato un applaudito discorso. Egli imputava alle maggiori famiglie cadmee, e al loro diverso tornaconto, le colpe delle sofferenze della città. Per precauzione, disponeva la deportazione dei loro principali esponenti, giustificando la confisca dei beni in quanto pubblico risarcimento. Teseo mi ha chiamata infine al suo fianco, per rendere onore a Edipo e ad Antigone, esaltati quali martiri della libertà e modelli per l’intera Ellade.
– Bestiali o umani che siano, – ha concluso l’oratore in bellezza – l’era dei mostri è ormai un patetico ricordo. Noi tutti vi abbiamo posto fine. È il tempo pacificato di far prosperare la patria comune e di fondare colonie tra i barbari, per diffondervi la nostra civiltà e la nostra industria. Se mai toccherà mobilitare nuovamente un esercito, che sia per difendere i sacri confini, per dissuadere quanti attentino alla sicurezza e minaccino gli interessi di noi greci. Dall’interno o dall’esterno, più nessuno impunemente tramerà ai nostri danni e a vantaggio di pochi approfittatori.
Mi sono sentita a disagio, così esibita come un cimelio e insieme quale un trofeo. Né mi ha convinto l’insistenza sulla nostra grecità, con discredito di altre genti. Quasi che, disperando di neutralizzare lo spettro della guerra, Teseo ci preparasse a esportarla oltre i nostri incerti confini. Eppure Cadmo, progenitore della mia stirpe, era fenicio. Fenicia era sua sorella Europa, rapita dal divino Zeus mutatosi in toro. L’eroe si spinse a cercarla tra noi, in Beozia, prima di fondare Tebe e di insegnarci i rudimenti della scrittura. Sposò Armonia, il cui bel nome suona invito alla concordia tra i popoli. Ai giorni nostri, perfino l’attuale sposa del re di Atene mi risulta che sia una straniera.
* * *
Ad Atene, ho imparato ad apprezzare l’artificio del teatro. Mi affascina l’abilità degli attori di uscire da una ruolo per entrare in un’altro, togliendo o calando una maschera sul volto. Mi sorprende la loro facilità di evadere dal proprio tempo, per migrare in un altro tempo o in un altro luogo. Mi consola la facoltà concessa agli spettatori di dimenticarsi di sé per la durata dello spettacolo, e di immedesimarsi nei personaggi, prendendone la parti o le distanze. Nonostante la finzione, o appunto grazie a essa, il teatro è un anello di congiunzione fra la memoria dei miti e le nostre esistenze. Le cure delle apollinee Muse, applicate allo spirito inquieto di Dioniso.
Tutto ciò non toglie che l’età dei mostri e degli eroi sia troppo recente, per poterci ritenere al riparo dai suoi influssi. Moglie cretese di Teseo, Fedra mi onora di essermi amica. Ella è figlia del re Minosse e sorella di quell’Arianna, che con un gomitolo di filo aiutò l’ateniese a penetrare nel tortuoso Labirinto. Ivi nell’isola ventosa, era relegato Asterio, detto Minotauro. Fratellastro delle due principesse, si favoleggia che fosse il parto strabiliante di un rapporto contro-natura. Né manca chi sospetta che fosse un automa, fatto costruire da Minosse per incutere terrore ai suoi nemici.
Mostro dall’aspetto più rozzo della Sfinge, la sua parte inferiore era umana. La testa era di toro. Egli non proponeva indovinelli. Non possedeva la seduzione del canto delle Sirene, né uno sguardo che tramuta in pietra come quello di Medusa. Tanto meno, dispensava la saggezza innocua dei centauri o il sarcasmo scanzonato dei satiri. Le sue fauci non emettevano voci, ma solo brutali muggiti. Su richiesta di Minosse, si tramanda che per rinchiuderlo Dedalo avesse progettato un edificio in cui fosse facile perdersi, risultando quasi impossibile trovare una via di uscita.
Con la vergine alata, il Minotauro condivideva l’inclinazione antropofaga. Le vittime venivano sbranate senza indugi, a iniziare da quanti mostravano di non tollerare la sua vista, ingigantita e moltiplicata da grandi specchi predisposti dall’attico Dedalo. Per sopperire alla gravosa necessità, i cretesi avevano imposto alla non lontana Atene il frequente tributo di un carico di giovinetti. Il giovane principe della città si confuse tra loro, sulla nave che li trasportava, con la vela abbrunata a lutto. Il racconto è assai noto. Teseo uccise Asterio a colpi di clava, salvando i suoi concittadini. Le due complici sorelle salirono sulla sua nave, per sfuggire all’ira del padre Minosse.
Particolari meno noti, me li ha narrati Fedra stessa. Lungo la rotta, il futuro re trovò il modo di disfarsi di Arianna, abbandonandola durante uno scalo nell’isola di Nasso. Teseo si inventò che il dio Dioniso l’avesse lì incontrata, facendola sua sposa. Una versione attendibile è che la principessa si sia tolta la vita, per la delusione d’amore e per il disonore. La punizione del cielo non tardò, in quel tempo di sommaria giustizia. Il vincitore del Minotauro dimenticò di issare una vela bianca per il proprio ritorno, come promesso al padre Egeo. Scorgendo da lontano il lutto, l’anziano re credette che il figlio fosse perito. Si gettò dall’alto a capofitto, nel mare che da lui ha preso nome.
Mentre parlava, Fedra piangeva rinnovando una pena. – È una vecchia storia. – le ho sussurrato – È vano rivangare il dolore.
– Nessuno più di te può capirmi. – ha incalzato la narratrice – Solo con te posso confidarmi. Sono colpevole non meno di Teseo, dell’abbandono e della fine di mia sorella. A sua insaputa, già allora noi due eravamo amanti. E io non ho ricevuto la mia punizione. Pensavo di esserne esentata. Ma oggi so che non è così. Gli dei non sono tanto forze e ritmi della natura, quanto passioni dell’animo, che non cessano di ripetersi per tormentarci. Eccomi di nuovo innamorata, questa volta a insaputa di Teseo. Per giunta, del suo stesso sangue.
Fedra doveva essersi infatuata di Ippolito, nato da una precedente relazione di Teseo. Probabilmente il giovane la evitava, sconcertato dalla prospettiva. Per discrezione, ho finto di stupirmi. Non ho potuto fare a meno di obiettare: – Io non ho alcuna responsabilità nella morte di mia sorella. Di sicuro, tu esageri la tua. Ma non sta bene mescolare le due cose. Ciò premesso, posso comprendere il tuo sentimento e sconsigliarti di dargli un seguito. Antigone ha rinunciato ai suoi, per una passione che reputava maggiore, e che nessuno dei nostri dei può rappresentare.
La straniera mi ha fissato con aria di commiserazione. – Voi greci – mi ha detto, forzando ad arte l’accento esotico – siete una miscela di moralismo e di sofismi. Una perenne contraddizione. Salvo poi non saper uscire da un labirinto, se non con il nostro aiuto. Ciascuno ha gli dei che si figura, o i semidei che si merita. Ebbene, non cambierei con le vostre Sfingi nessuno dei nostri Minotauri. Non la soluzione di qualsiasi enigma, con un semplice gomitolo di filo. I miei numi sono Eros e Afrodite, dei dell’amore e della bellezza. I vostri, Artemide e Core, dee sterili o funeree. Devi concedermelo, nelle nostre carni le frecce degli uni e degli altri hanno effetti ben diversi.
Mi sono pentita delle mie frasi incaute. La regina di Atene non aveva tutti i torti. L’avevo ferita e offesa, sia pure a fin di bene. Avevo mentito, sapendo di mentire. E lei, risentita, aveva reagito con simmetrica intemperanza. Ma non c’era poi quest’abisso, tra la passione di Fedra e quella di Antigone. Forse, non c’era nemmeno tra le passioni che avevano perduto Edipo e Creonte. O con quelle che stavano per perdere Fedra, Ippolito e Teseo: anche a causa delle prolungate assenze di lui, in giro per il mondo per civilizzarlo a ogni costo, su misura ideale della Grecia.
Per un attimo, negli occhi di Fedra ho rivisto una luce, che mi aveva lasciata sgomenta in quelli di Antigone. Era certo l’irrazionale bagliore, che Edipo asserì di aver colto nello sguardo impersonale della Sfinge, mentre esso lo trapassava come se fosse un oggetto di vetro fenicio. Nel bene o nel male, eroi ed eroine avevano bruciato le loro vite osando grandi cose, inseguendo i propri sogni o fuggendo dagli incubi. Magari senza mai riuscirvi, come il misero Creonte. Il paradosso è che la somma delle loro volontà aveva concorso al tramonto di un mondo e all’alba di un altro, capace di indagare ogni enigma, ma di occultare quello che tutti li genera e rinnova.