J. W. Waterhouse, Miranda and the Tempest, 1916
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Pino Blasone
La Madonna Bianca*
– Vengono qui in vacanza. Pensano forse di entrare in una bella pittura – commentò il vecchio, divagando – Dipingono, scrivono, si innamorano. Ma, il mare, non lo conoscono. Lo attraversano in barca, magari a nuoto, in un giorno di bonaccia. Poi, si trovano in mezzo a una tempesta, e non sanno che pesci pigliare. Allora, non ci sono né santi né madonne a cui raccomandarsi. Anche se ci fossero, loro non ci crederebbero. Io li avevo consigliati, di non uscire, che il tempo non prometteva niente di buono. E' un vero peccato, ma non poteva che finire così...
L'ispettore cominciò a raccogliere le sue carte sulla scrivania. Una faccenda fastidiosa, e delicata. Avrebbe potuto rispondere che il proprietario della barca risultava un velista abbastanza esperto, che altre volte si era trovato in difficoltà e se l'era cavata felicemente, ma lo ritenne superfluo. Ormai, era tutto definito. Si era trattato di una disgrazia, dovuta magari in parte ad avventatezza. Anche se fosse stato possibile verificare l'illazione di un litigio a bordo, per insorti motivi di gelosia, le cause più probabili del naufragio restavano di ordine naturale. La stessa presenza di due marinai dell'equipaggio escludeva l'incidenza di fattori secondari.
C'era – è vero – la complicazione imbarazzante di quel corpo cremato sulla spiaggia. Ma questa circostanza si era rivelata, per altri versi, paradossalmente utile. Conoscendo le simpatie e le amicizie politiche degli implicati, c'erano motivi per ritenere che una scelta rappresentanza della Carboneria locale avesse assistito al singolare rito funebre. Nonostante la riservatezza, o proprio per questo, gli informatori avevano svolto un lavoro proficuo di identificazione, confermando precedenti sospetti e procedendo alla schedatura. Per il resto, le direttive dall'alto parlavano chiaro, trattandosi di stranieri e di letterati di un certo rispetto.
In ogni caso, lui aveva terminato il suo compito. Fece apporre una croce da parte dell'ultimo testimone, in calce alla sua deposizione. Lo fece accompagnare fuori, e fece introdurre l'incaricato del console inglese, che attendeva in anticamera.
– Non si preoccupi – esordì, con voce piuttosto bassa e in tono deferente – Rimetterò oggi stesso al giudice le risultanze dell'indagine. Per quanto mi riguarda, non è emerso nulla di realmente anomalo. La cosa potrebbe risolversi in pochi giorni. Resta il presunto spregio della normativa, sulla quarantena delle salme degli annegati. Ciò non è di mia competenza, bensì dell'ufficiale sanitario. Ma penso che la vedova, o chi per lei, si disimpegnerà con il versamento di una modica ammenda. Dopo di che, le sarà prontamente resa la cassetta delle ceneri, custodita con ogni riguardo. Salvo, ovviamente, un reclamo motivato, o opposizione scritta, da parte dei familiari diretti dell'estinto.
L'ispettore riaccompagnò di persona il fiduciario nell'anticamera, rassicurandolo ulteriormente e salutandolo con una stretta di mano. Il pescatore era ancora lì, seduto su una panca. Licenziò anche lui, raccomandandogli di mantenersi reperibile, qualora il giudice avesse deciso di convocarlo. "Evenienza improbabile", pensò con qualche sollievo, mentre si avviava a pranzo. "Se e quando prevarranno," soggiunse, filosofeggiando su altro argomento, "io sarò già in pensione da un pezzo. Intanto, questi patrioti avranno tempo e modo di diventare come tutti gli altri. Sarebbe sufficiente limitarsi a rendergli l'esistenza difficile, tanto quanto loro a noi".
Il vecchio si era allontanato a piedi, in direzione opposta, scuotendo ogni tanto il capo. "Dove mai avrebbe potuto andarsene, e perché?" ripeteva a se stesso: "Con tutti questi forestieri, un giorno finiremo per muoverci anche noi come dentro un quadro, senza accorgercene. Ma, il mare, almeno quello continuerà a fare di testa sua. Nel bene, e nel male". Tuttavia, siccome era un discreto cristiano, c'era qualcosa che gli rimaneva da fare. Come per tutti gli annegati che aveva visto durante la sua esistenza. E non erano pochi. Anche se questi erano forestieri, e uno di essi non era seppellito né in terra né in mare. Al ritorno nel paese di origine, avrebbe infilato due ceri per le loro anime, davanti all'immagine della Madonna Bianca. Altri due, ne avrebbe acceso per i marinai. Ma più in alto, poiché di essi presto in giro nessuno si sarebbe più occupato, mentre dei signori si sarebbe continuato a parlare a lungo.
Il pescatore si arrestò perplesso, colto da intima rabbia: "Possibile che i due non avessero protestato, esigendo di cercare un riparo per tempo, impedendo a quegli incoscienti di fare gli eroi a loro spese? Quale follìa aveva vietato di regolarsi come l'altra barca, o come qualsiasi equipaggio sensato? Che imperativo c'era, di raggiungere Genova a tutti i costi? Quale urgenza, da perdere incautamente di vista l'altra imbarcazione? Perché mai, il secondo marinaio non era stato ancora ripescato? Un tentativo disperato di ammutinamento, la perdita del controllo del mezzo... E lui, miracolosamente in salvo, aveva creduto bene imbarcarsi per chissà dove? Ma, per fare ciò, sarebbe pure occorso qualche aiuto. Forse, essi si erano trovati in difficoltà o in avarìa, già prima del nubifragio...".
Troppe fantasie e interrogativi in sospeso, cui sarebbe spettato alle autorità inquirenti dare plausibili risposte, sempre che ne avessero avuto voglia. Frastornata, la mente del "lupo di mare" si rifugiò in considerazioni morali sulla fatalità e sul destino, e in popolari superstizioni. La leggenda udita fin da bambino narrava che la Madonna Bianca era stata trovata su una barca alla deriva, tanto tempo prima. Dei suoi occupanti, nessuna traccia. Forse, proveniva dall'Oriente, e era il residuo del bottino di certi pirati. Questi l'avrebbero abbandonata volutamente, colti da timore religioso nel mezzo di una tempesta. O non erano sopravvissuti ai loro misfatti e all'ultimo sacrilegio.
Altri sostenevano che sarebbero stati dei cristiani, assaliti dai miscredenti, a metterla in salvo in quel modo. Quanto al colore insolito, esso sarebbe stato causato dalla lunga esposizione ai raggi solari e alla salsedine. Come usava in Oriente, quello originale doveva essere bruno, su un abbagliante sfondo dorato. Comunque fossero andate le cose, era stato giudicato un evento miracoloso. E i vecchi non si sbagliavano. La sacra immagine, collocata nella chiesa principale e divenuta oggetto di culto, non aveva mai cessato di proteggere o soccorrere i marinai, e di dispensare grazie alle loro donne. Certo, a patto di un po' di fede, e di molta pazienza. Almeno questa, non era davvero mancata. Ma, entrambe, ormai nei giovani difettavano. Specialmente, se c'era in più qualche soldo di mezzo. E, di conseguenza, anche il senno.
* * *
Lord Byron zoppicava leggermente in giro per la stanza, a causa di una malformazione congenita. Era visibilmente angosciato e contrariato. Avrebbe potuto già ripartire per Pisa, se non fosse stato per quella triste incombenza. Stringeva fra le mani una copia del libro delle poesie di John Keats, identica a quella che aveva rinvenuto in una tasca dell'amico esanime, spinto dal mare sulla spiaggia di Viareggio. Proprio il volume aveva favorito il riconoscimento, reso difficoltoso dalla lunga permanenza in acqua. Non lontano, si era arenati i corpi di Edward Williams, a sua volta amico di Shelley, e di Charles Vivian, uno dei marinai. Era stato Edward a insistere perché sfidassero il tempo incerto, parere facilmente condiviso dall'impetuoso skipper.
Avrebbero dovuto raggiungere insieme il porto di Genova, per ricevere dei conoscenti e compatrioti. Più fortunatamente o prudentemente, Byron sulla sua barca – il Bolivar – era riuscito a tornare indietro. Come tutti, egli ignorava che cosa fosse precisamente accaduto sull'altra imbarcazione prima del naufragio, e se ciò fosse rilevante. Né gli interessava francamente troppo. L'unica che sembrava inquieta su questo punto era Jane, moglie di Edward e già oggetto delle gentilezze di Shelley. "Sensi di colpa di una civetta volgare, ed esibizionista", sentenziò impietoso fra sé, disapprovando il rapporto di familiarità che aveva legato gli Shelley all'altra coppia, in particolare durante quella memorabile estate.
A ogni buon conto, era stato il primo a proporre che venisse rispettata la volontà espressa una volta, quasi di sfuggita, dall'amico: che il suo corpo venisse cremato. Prima, nella contingenza presente, di una noiosa perizia medico-legale. Quel genere di verità non avrebbe giovato a nessuno, né vivo né morto. Semmai, nuociuto a più d'uno. Che la gente seguitasse pure a giocare con certe curiosità morbose. Lui ne aveva abbastanza ed era stanco, di tutte quelle storie. Aveva convenuto, con l'amico scomparso, che era tempo di dedicarsi a ben altro. Solo che, adesso, avrebbe dovuto tener fede al patto da solo.
Il problema delle libertà individuali andava demandato alla piccola borghesia: che se la sbrigasse essa d'ora in poi, e continuasse a sporcarcisi le mani. Troppe vittime inutili e innocenti, provocate anche senza volerlo, su una via ancora senza uscita o riservata a pochi. Come, del resto, i singoli o i più potevano essere davvero liberi, senza liberazione dei popoli?
Il suo pensiero riandò con malinconia e non senza rimorso alla figlioletta Allegra, affidata a un convento e deceduta di recente, sacrificata sull'altare del proprio egoismo. Pure il comune amico Keats si era spento a Roma un anno prima, consunto dalla tisi. Avvertiti dal medico curante, Byron e Shelley non erano giunti in tempo per assisterlo, ma per partecipare alle sue esequie, e per vederne gli effetti personali bruciare nella pubblica via, in osservanza alle severe norme sulle malattie contagiose. Sulla sua tomba romana egli aveva voluto questa anonima frase: "Qui giace uno, il cui nome fu scritto sull'acqua".
A lui Shelley aveva dedicato l'ultimo poema: una elegìa intitolata allusivamente Adonais. Byron aveva deposto il volume della sua opera, appartenuto a Shelley, sopra la salma di quest'ultimo: che ardesse insieme ad essa. Compresa l'ode Su un'urna greca, il componimento più letto e amato. "Ben venga la fine del Romanticismo!", aveva poi sussurrato alla madre di sua figlia, che era rimasta ad assistere la sorellastra convalescente. Sicuro che non lo avrebbe capito, ma avrebbe riferito alla vedova di Shelley. Lei, sì, avrebbe compreso e ricordato.
Era la donna – forse la sola – che Byron sentiva di stimare di più, nonostante non lo desse a vedere e i loro trascorsi rapporti fossero stati tesi: soprattutto a causa del proprio cinico comportamento nei confronti di Claire e di Allegra, rispettivamente sorellastra e nipote di Mary. Si accorse, nello stesso tempo, di averla sempre in fondo temuta: fin dal loro primo incontro, nell'estate di sei anni prima. Percy e Mary Shelley, già protagonisti di una romantica e scandalosa fuga dall'Inghilterra, erano alloggiati nei pressi di una villa da lui affittata in Svizzera. La stagione era malauguratamente piovosa. Una sera il padrone di casa aveva proposto ai suoi ospiti di impegnare il tempo, scrivendo ciascuno un racconto "gotico", in una specie di gara.
Una volta migliorato il clima, nessuno aveva ultimato il compito: incluso Byron, che aveva iniziato una storia di vampiri, poi imitato da altri nella sua scia. Ma eccetto la diciannovenne Mary, la quale in un febbrile slancio aveva steso addirittura un romanzo. La commissione improvvisata si trovò incredula di fronte a un piccolo capolavoro: Frankenstein, ovvero il moderno Prometeo, agghiacciante metafora sulla ragione umana che produce mostri, pur nel suo sforzo di liberazione, e della Natura che si vendica inesorabile. Sui rischi della scienza applicata al progresso storico, senza uno sviluppo adeguato della sensibilità e della cultura.
In un primo momento, Byron aveva giudicato il sottotitolo pretenzioso. Si rendeva ora conto che solo una donna avrebbe potuto scrivere un'opera del genere. Di più,il suo sesto senso vi aveva variamente adombrato i loro stessi destini, ormai sottilmente intrecciati. Essi avrebbero presto iniziato col mietere una vittima: Harriet, prima moglie di Shelley, suicida nel fiume Serpentine a Londra, mentre incinta da un altro uomo. Percy e Mary poterono sì sposarsi, ma il primo non avrebbe più riavuto i due figli del precedente matrimonio, affidati ai suoceri da una austera corte di giustizia inglese.
Da allora, erano passati quattro anni di precaria convivenza coniugale. L'ombra incombente di Harriet, la nostalgia per i figli da parte di Shelley, la morte di altri tre bambini avuti da Mary, avevano travagliato il loro rapporto, finendo per logorarlo, nonostante continui viaggi e un contestato successo letterario. Un aborto subito da Mary a rischio della propria vita, di lì a poco la disgrazia fatale, avevano completato l'opera, o portato a segno la maledizione: esito tragico di un soggiorno in Italia, in cui erano state riposte tante speranze.
O, forse – concluse Byron, nel suo monologo interiore –, era la fragile Mary a portarsi dietro un suo demone: fin da quando la madre Mary Wollstonecraft, nota scrittrice illuminista e femminista, era morta di parto dopo averla data alla luce; o da quando – ben più di recente – la sorellastra Fanny si era tolta la vita, in una crisi di sconforto.
Ultimamente, il romantico Shelley aveva cominciato a interessarsi più o meno "seriamente" ad altre donne. Ma, anche, a figurarsi oscuri presagi, che trovavano esca in una sensibilità provata e nella sua immaginazione poetica. Insieme a Williams e a Byron, guidati da un archeologo, aveva visitato nei paraggi gli scavi di un'antica villa romana. La loro attenzione era stata attratta dal reperto di una statua femminile, priva della testa. La guida si era dilungata sulll'incerta identificazione della dea rappresentata. Gli studiosi avevano avanzato varie ipotesi: che si trattasse di Igea, protettrice della salute e figlia di Esculapio, dio greco della medicina. O della romana Egeria, ninfa acquatica che presiedeva alle gravidanze e ai parti.
Lui stesso propendeva per Leucotea, la "dea bianca", protettrice dei marinai. L'archeologo giustificava la sua tesi con il culto antichissimo, sulla costa tirrenica e ligure, di una misteriosa deità marina, di cui rimarrebbero tracce nella toponomastica. Assimilata già dagli etruschi a Leucotea, poi dai romani a Venere o a Diana, essa avrebbe peraltro spiegato la tradizione cristiana della Madonna Bianca, custodita a Porto Venere. Tant'è che analoga leggenda si ripresenta per una effigie venerata in una chiesa di Sovana, in Maremma.
La spettrale apparizione aveva comunque vivamente impressionato Percy Shelley. Sulla via del ritorno, il poeta aveva confessato a Byron come non avesse potuto fare a meno di associarla a Harriet. Più volte, in seguito, questo ricordo gli avrebbe evocato la stessa immagine: finché la suggestione non avrebbe assunto forza e ricorrenza di una allucinazione ossessiva. Prima che Harriet-Leucotea lo richiamasse nel profondo dei suoi amniotici abissi: simile, altrimenti, all'albatro ferito a morte, nella "ballata" famosa di Samuel Coleridge.
* * *
La porta si spalancò bruscamente, come sospinta da una corrente d'aria. La figura femminile comparsa nel vano dell'ingresso aveva il capo velato di scuro, e reggeva un involucro non troppo voluminoso fra le mani, quasi protendendolo in avanti. Interrotto nei suoi pensierì, Byron trasalì, volgendosi in quella direzione e arretrando di un passo.
– Ho saldato l'ammenda – disse semplicemente la donna, con voce ferma e inespressiva. Lord Byron le si fece incontro sollecito, prendendo delicatamente l'involucro tra le sue mani. Non potè evitare un lieve tremito, quando le dita sfiorarono quelle di lei. Erano fredde, praticamente gelide, benché fuori facesse ancora caldo. Il peso della cassetta era leggero, quasi inconsistente. Pure, le braccia del celebre poeta e del nuotatore provetto si piegarono, ricevendola in consegna.
– Non avreste dovuto alzarvi e avventurarvi da sola – protestò con ostentata dolcezza, non trovando altro da ridire.
– Credete? – rispose Mary Shelley, togliendosi il velo dal capo. Il volto era pallido e i lineamenti tirati, improntati a una severa bellezza nordica. Con un certo imbarazzo, il gentiluomo posò l'urna su un tavolo e si affrettò a prendere una sedia, per accostarla alla donna, che avrebbe dovuto essere ancora convalescente e malferma.
– Non siete mai stato così gentile, signor Byron. Nemmeno verso mia sorella Claire.
In un altro momento, Lord Byron non avrebbe tollerato un simile tono di indisponenza nei suoi confronti, da parte di nessuno. Neppure di una donna. O tanto meno. Ma improvvisamente si rese conto di trovarsi di fronte alla vedova del suo più caro amico, se non dell'unico. Che lei poteva permetterselo, e lo sapeva. Era però certo che non ne avrebbe abusato. Per il comune rispetto e affezione a quelle ceneri. Ciò che non capiva bene, è dove volesse arrivare, con quelle frasi di larvato rimprovero. Coinvolgerlo in un complesso di colpa? Il suo sguardo si fece più deciso e interrogativo.
– Non mi sento così debole come pensate – riprese la sua interlocutrice, con voce fatta repentinamente suadente – Ma vi chiedo lo stesso di accompagnarmi. A compiere fino in fondo le sue volontà. Voi eravate il suo migliore amico, non è così? Vi prego di far preparare un calesse. Non vi impegnerò per molto.
Questa volta, Byron temette di trovarsi di fronte a un compatibile stato di alterazione della donna. Un senso di pietà e di complice curiosità lo spinse ad assecondarla. Seguendo le sue indicazioni, fece approntare un calesse e si pose alla guida di persona, rimettendo la cassetta nelle mani affusolate della compagna di percorso. Questo non fu molto lungo. Per quanto relativamente insolita, la prima meta era ragionevole e tradizionale: egli osservò mentalmente, con un certo sollievo. Lasciata la vettura ai margini dell'abitato, si incamminarono verso la chiesa principale.
Appena entrati, Mary si diresse all'altare, davanti all'icona della Madonna Bianca. Essa era illuminata da uno sfolgorìo di candele, china con maestà su un Bambino reso indistinto dal deterioramento della pittura su tavola. Benché notoriamente non credente, Mary sembrava affascinata da quella immagine, che doveva conoscere abbastanza bene. Tolse due residui di cera consumata dai loro supporti, e vi infilò due candele nuove, accendendole con cura. Poi, si inginocchiò raccogliendosi in una specie di preghiera. Byron uscì discretamente sul sagrato, dove attese ammirando la costruzione medievale, sorta sulle rovine di un tempio dedicato a Venere. Quando la donna uscì, gli passò davanti camminando in maniera automatica, senza nemmeno guardarlo. Aveva con sè l'involucro scuro dell'urna e lo portava davanti a sè, abbracciato sul seno come un bambino. Il poeta tornò a preoccuparsi e la seguì zoppicando, riuscendo a stento a tenerle dietro.
Giunsero all'estremità opposta dell'abitato, in una antica loggia gotica, aperta a picco su un dirupo. George Byron ricordò di essere approdato da quelle parti, dopo aver compiuto la traversata a nuoto della baia, proveniente da Lerici. Una piccola banda musicale lo aveva accolto sul molo, suonando una marcetta per festeggiare l'impresa sportiva. Era accaduto di recente, ma sembrava trascorso molto tempo. Allora il mare era calmo, assolato e azzurro: come quando, in altra occasione, lui stesso aveva osato varcare a nuoto lo stretto del Bosforo. Adesso i flutti si infrangevano con fragore sulle rocce sottostanti, sollevando miriadi di spruzzi bianchi di spuma.
Il poeta non poté fare a meno di osservare in silenzio quanto fosse differente, in fondo, da Shelley. Egli non amava affatto Ariel, lo spirito inquieto della Tempesta scespiriana o l'angelo caduto di Milton, che l'amico aveva voluto quale nome infausto alla propria imbarcazione. Bensì la scontrosa confidenza nel solcare gli spazi sereni, l'ascetico dominio sulle profondità dell'io. Là dove questo si emancipa dal nulla, ancora comunicante con il tutto, e da cui procede la corrente simbolica dell'ispirazione.
Mary si era intanto affacciata a uno degli archi, con lo sguardo perso sul mare e il velo stretto con una mano intorno al collo, dagli orli svolazzanti. Così fasciata, la sua figura ricordava vagamente la statua senza testa che tanto aveva colpito Shelley, quale una ragionata immaginazione poteva ricostruirla.
Fu allora che avvenne qualcosa di imprevisto, che il letterato e l'artista trovò altamente suggestivo. I raggi del sole si fecero largo tra le nubi. Il vento calò d'intensità, cambiando nello stesso tempo direzione. Le onde parvero placarsi, rifluendo gradualmente nel loro alveo naturale e immenso. Come trasfigurata, Mary aveva poggiato l'urna sulla balaustra traforata davanti a sé. A un tratto, la aprì meccanicamente e vi immerse una mano, sollevando una manciata di polvere. Prima che l'altro potesse rendersene pienamente conto, la disperse nell'aria con un gesto ampio e lento di seminatrice. Portate dal vento, le ceneri oscillarono e andarono a posarsi in parte sull'acqua, in parte sugli scogli, dove il mare le avrebbe prelevate e fatte proprie.
Istintivamente, Byron si slanciò verso la cassetta, la richiuse e la sfilò da sotto le mani della vedova, per preservare gli ultimi resti dell'amico assente. Lei oppose una debole resistenza. Poi, si accasciò sul petto dell'amico ritrovato, quasi svuotata del suo antico demone. Le sue lacrime erano calde, come quelle della piccola Allegra. Anche le dita, che Byron strinse fra le sue, avevano recuperato il loro umano calore.
* * *
Passarono circa altri vent'anni, prima che Mary Wollstonecraft Shelley – come continuava a firmarsi – tornasse in quegli stessi luoghi, insieme all'unico diletto figlio, sopravvissuto fra quelli avuti da Shelley. Non solo quest'ultimo e Keats, ma anche Byron nel frattempo era scomparso, della giovane generazione dei romantici inglesi. Coerentemente con il progetto concordato con Shelley, egli si era recato a combattere per l'indipendenza della Grecia. Ivi aveva raggiunto patrioti greci e si era unito a volontari italiani, ma era stato stroncato da una poco eroica malattia.
Quanto alla scelta del paese, non era esso la culla della civiltà occidentale? Tanto valeva, allora, iniziare da lì. Una moderna laica Crociata avrebbe dovuto mirare a quello, quasi come a una sua ideale Palestina. Non più Gerusalemme, ma Atene; quanto a Roma, sarebbe giunta la sua occasione e il suo turno, in una Europa di libere patrie. Se non altro, sarebbe stata questa l'eredità e la prospettiva del Romanticismo, culturale e politica. Prima di partire, era tornato a farsi vivo in incognito nella sua patria, di passaggio per sistemare le proprie faccende. Si era presentato dopo la prima della riduzione teatrale del Frankenstein, al Lyceum di Londra. Era in compagnia del poeta e patriota Ugo Foscolo: esule in Inghilterra, un po' come Shelley e Byron erano stati, volontariamente, in Italia e altrove.
All'italiano e oriundo greco, appena scarcerato per debiti, Mary avrebbe dedicato una biografia letteraria. In quella occasione, le sue attenzioni erano state rivolte soprattutto al vecchio amico, che era venuto a salutarla, forse per l'ultima volta. In presenza di altri, aveva evitato di rievocare direttamente i comuni ricordi personali. Dopo aver criticato la rappresentazione scenica, cui aveva appena assistito – che semplificava la sua opera a una banale storia dell'orrore –, si era soffermata sulla trama del nuovo romanzo, che aveva iniziato a stendere.
Shelley, Byron, Claire e lei stessa, vi comparivano sotto mentite spoglie, proiettati in un mondo di "fantascienza", minacciato da una ultima catastrofe. Ma questa, nella forma di una pestilenza, sarebbe scaturita non tanto dalle coscienze traviate, quanto dall'interno della stessa natura. In fondo, la natura umana non è una emanazione e prolungamento di quella universale? E' qui che va ricercata la radice inestirpabile del male. La scienza e la tecnica stesse, non rischiano di scatenare quel distruttore, che è in agguato dentro di noi? Una visione pessimistica globale, anche rispetto al suo esordio narrativo.
Foscolo aveva allora rammentato un precedente classico: quello del poema Sulla natura di Lucrezio, nella letteratura latina. Le aveva inoltre chiesto quale titolo avesse intenzione di dare, a una vicenda così inedita e coinvolgente, sebbene amara. "L'ultimo uomo", aveva risposto l'autrice, come in realtà avrebbe fatto. Dal canto suo, lo scettico Byron si era limitato a sorridere, come era sua abitudine in certi casi, a volte irritante. Aveva però aggiunto una battuta, che, pronunciata da lui, suonava un acuto complimento: – "L'ultima donna", io direi, piuttosto.
Più che alla fine dell'umanità nel romanzo, Byron aveva chiaramente alluso a quella visione del mondo che era stato il Romanticismo, e che aveva coinciso con l'appassionata eccessiva stagione della loro gioventù, nel bene e nel male. Mary aveva colto il doppio senso al volo, associando la battuta con il ricordo della frase sulla "fine del Romanticismo", che Byron stesso aveva sussurrato a Claire, e che questa le aveva puntualmente riferito. In effetti, lei si sentiva ora una superstite: in quanto donna "creativa" nel gruppo, tutt'al più garante di una precaria continuità. Recentemente, nel sentimento della sua desolazione era stata confermata dalla lettura dei Canti di Leopardi, poeta italiano suo coetaneo, a lei particolarmente caro e avvertito come affine.
Il naufragio di Shelley aveva siglato quello di una generazione, che aveva sognato un modo di vivere diverso – più umano, o "sovrumano": almeno rispetto all'umanità della propria epoca –, e aveva cercato di realizzarlo, sia pure in maniera individualistica e disordinata. Un po' come tutte le giovani generazioni. Forse, più di altre. Adesso, tutti i protagonisti avevano pagato di persona.
Dopo che il tempo biologico aveva curato le ferite e riempito ogni vuoto col suo stesso fluire, Mary poteva tornare a confrontarsi – tranquillamente rassegnata – col vuoto più grande, incolmabile, assoluto: sorgente e frantoio di ogni cosa o creatura. Rappresentazione di quel vasto instabile non-io, in cui ciascun io assume e dissolve la propria identità – per dirla con Coleridge, nella scia del pensiero di Schelling –; sulla sua superficie si era arrischiata la barca di Shelley, e vi si era inabissata.
* * *
Durante un viaggio a Parigi, Mary era stata assiduamente corteggiata da Prosper Mérimée. L’allora promettente narratore si era "perdutamente" innamorato di lei. Troppo legata alla memoria di Shelley, per stringere un nuovo vincolo sentimentale, ella aveva preferito respingere le sue avances, pur serbandone la simpatia e l'amicizia. Né l'ancora giovane e affascinante vedova si sarebbe regolata molto diversamente, con altri "pretendenti". Del marito non aveva solo coltivato i ricordi e curato le opere, ma riportato con sé in patria il cuore, sottratto alla combustione delle sue spoglie, perché fosse seppellito nella propria tomba.
Quanto ai rapporti con i circoli romantici francesi, essi non erano certo una novità. All'epoca del loro soggiorno in Italia, insieme a Percy e all'immancabile Claire, una tappa relativamente serena era stata Napoli. Anche lì, complicazioni e inconvenienti non avevano mancato di sommarsi al dolore dei recenti lutti. La vicinanza delle testimonianze di un classico passato, riuscite a sfidare l'indifferenza degli uomini, le offese del tempo o degli elementi, costituiva una magra consolazione. Una natura solare allora incontaminata, una umanità generosa e genuina, non avevano risparmiato alla sensibile Mary la delusione di rilevare le condizioni di miseria e di abbandono della plebe urbana, la corruzione e il malgoverno dell'amministrazione: sintomi di un degrado già all'epoca evidente. Né di avvertire una sottile diffidenza, quasi dissimulato rancore, da parte degli intellettuali, in generale contro gli stranieri.
Appunto a Napoli, aveva conosciuto lo scrittore francese Alphonse de Lamartine, ai primi passi nella carriera diplomatica, estatico ammiratore e delicato cantore delle bellezze d'Italia, in particolare del napoletano. Dopo una sfortunata passione per l'inglese Julie Charles, prematuramente scomparsa, egli avrebbe finito per sposare un'altra colta signorina inglese: Elisa Birch. Non sorprende che la sua abitazione divenisse centro di incontri internazionali per giovani letterati, luogo di frequenti e amabili conversazioni sul Romanticismo e dintorni. Tra i partecipanti, lo stesso padrone di casa rappresentava la voce moderata e moderatrice di un cattolicismo liberale, rivisitato e aggiornato.
Una sera, Mary ricordava di avervi incontrato un attempato signore napoletano. Uno dei pochi sopravvissuti alla repressione della Repubblica Partenopea, sostenuta a suo tempo dalle armi "giacobine" francesi, rovesciata in un bagno di sangue dalla reazione borbonica, con l'appoggio determinante della flotta inglese e dell'ammiraglio Nelson. L'uomo di cultura aveva steso un saggio critico sul fallito esperimento rivoluzionario, nonché uno strano romanzo epistolare, intitolato Platone in Italia. In essi, si respingeva ogni utopia estranea allo spirito italico, o forzosa rispetto alle locali condizioni.
In quell'ambiente e occasione, egli si era infervorato a contestare l'originalità delle teorie romantiche, su una base nazionale, realistica o classicistica che fosse. Si era soffermato sulle idee "preromantiche" circa la poesia, espresse dal filosofo Giambattista Vico e dal suo seguace Mario Pagano, eroe e vittima nell'ultima disperata resistenza della repubblica napoletana. Aveva quindi proseguito il discorso, con una sorta di curioso apologo, mentre la luce soffusa dei candelieri ne illuminava il viso precocemente scavato e sofferto:
– In effetti, la nostra storia e la nostra letteratura non difettano di personalità o di personaggi, che si prestano a interpretazioni romantiche. Ma si tratta, quasi sempre, di vittime: di un romanticismo giocoforza; a scanso facili equivoci. In presenza di gentili signore, prendiamo ad esempio le figure femminili. Senza per questo essere costretti a risalire a Francesca da Rimini, come pure ha fatto qualche giovane sventurato autore. Eleonora Pimentel Fonseca esordì come raffinata poetessa arcadica, prima di diventare la giornalista impegnata e la brillante polemista, che spero nessuno di noi ignori o abbia dimenticato. Ebbene, qualunque giudizio si dia sul suo operato, per vigore e rigore intellettuale, per indipendenza di carattere e di scelte personali, – non ultima – per una imperiosa avvenenza fisica, ella ebbe poco da invidiare alle sue coetanee illuministe: quali Mary Wollstonecraft o la milanese Giulia Beccaria, madre del contemporaneo Manzoni. Pure, è lei che ho visto salire coraggiosamente sul patibolo, pagando di persona per tutte le donne progressive della sua epoca. Si sarebbe oggi tentati di farne una eroina romantica. Strano, che nessuno ci abbia ancora pensato. A me, sembrerebbe tuttavia una deformazione sommaria, se non riduttiva. Senza contare che, con lei, si sono "romanticamente" immolati i migliori ingegni di una intera generazione. Complici gli inglesi, latitanti i francesi: è appena il caso, qui, di rammentare. Il che può in parte spiegare, e far perdonare, la nostra attuale arretratezza e disincanto...
Rivoluzionario ravveduto ma non piegato, l'ex esule aveva pronunciato le ultime parole con tono ironico e leggermente risentito, rivolgendosi in particolare a Mary Shelley e a Lamartine. Esse erano state accolte con un silenzio imbarazzato dall'uditorio, data la delicatezza dell'argomento toccato, in pieno clima di reazione assolutistica. Ovviamente, non solo nessuno si sarebbe mai sognato di fare della Fonseca una eroina romantica. Nemmeno se la sarebbe sentita di affidarle un ruolo mascherato in una propria opera, sfidando le ire della censura. Con ciò, era stato intrinsecamente messo a nudo il limite oggettivo, storicamente connesso col Romanticismo. Probabilmente, non tutti avevano colto, o voluto recepire, le implicanze di tale risvolto.
Mary avrebbe voluto rispondere che, in stato di necessità, quella debolezza poteva rivelarsi una astuzia diversiva della ragione. Ma Percy le aveva lanciato uno sguardo allarmato, a proposito dell'accenno indiretto a Silvio Pellico, autore del dramma di successo Francesca da Rimini. Questi, buona conoscenza di Byron, era stato da poco arrestato a Milano, a seguito della scoperta della sua iscrizione alla Carboneria. Condannato inizialmente a morte, nelle carceri asburgiche avrebbe languito per dieci lunghi anni. Neanche il ribaltamento in un passato letterario lo aveva salvato dalle insidie del presente.
– Semplicemente, – aveva chiarito e concluso lo scomodo ospite – quanto voglio dire è che, se pure esiste, il nostro Romanticismo non può che essere compatibilmente altro dal vostro. Continuate pure a leggere, a scrivere, a dipingere o a teorizzare. Seguitate, se lo credete, a interrogarvi sulla faccia nascosta della luna. Ma, vi prego, lasciateci meditare autonomamente sulle nostre sciagure; o, se così ci piace, leccarci in pace le piaghe. Soprattutto, non costringeteci più nelle vostre cornici, se non in quanto comparse, sullo sfondo dei nostri celebri paesaggi. A rischio, beninteso, di una esplicita oleografia.
Va da sé che questa chiusa retorica aveva catturato il plauso dell'elemento napoletano, nel ristretto pubblico, superata ogni divergenza e dissipata ogni apprensione. Mary stessa era rimasta scossa nelle sue convinzioni, da quel discorso dall'apparenza bizzarra. In futuro, vi avrebbe ripensato sovente. Nelle sue fantasie, un altro volto sarebbe andato ad aggiungersi ai vari intercambiabili della dea decapitata: quello di Eleonora Pimentel Fonseca, vittima sacrificale non della natura, né della disillusione o della solitudine, ma della mera ragione. O, piuttosto, dell'altrui stupidità.
A torto o meno, Alphonse de Lamartine si era sentito preso di mira e punto nel vivo della sua produzione letteraria, dalle "intemperanze" di Vincenzo Cuoco. Lì per lì non aveva ritenuto il caso di replicare, in considerazione del passato di lui e per stima alla sua persona. Benché a malincuore, per l'avvenire avrebbe adottato la cautela di non invitarlo nel proprio salotto. Del resto, l'italiano si sarebbe presto spento naturalmente, pressoché isolato e incompreso nella sua stessa città.
* * *
Mary Shelley amava camminare a lungo a piedi nudi sulla battigia: là dove le dimensioni della casualità e della finalità si toccano, influenzandosi e determinandosi a vicenda. Già intorno ai suoi laghi d'origine, al contatto magico con l'acqua il demone, che la perseguitava fin dall'infanzia solitaria, si era mutato in genio ispiratore della scrittura. Bastava liberarlo dalla sua bottiglia, ed ecco che leniva le sue pene, se non esaudiva i suoi desideri. Prima ancora che l'amore o l'amicizia, quel genio fantastico e bifronte l'aveva unita a Shelley e a Byron.
Quando tornò dalla sua passeggiata sulla spiaggia di San Terenzo, la stessa che aveva ospitato le loro gioie e angosce giovanili, si trovò di fronte a un evento inopinato. La persona che riconobbe in attesa, nel salottino della locanda, era l'ultima di cui potesse ormai aspettarsi o augurarsi una visita. Per un attimo, temette che il demone malvagio – il mostro creato dal delirio di potenza del Dottor Frankenstein – si fosse ripresentato. Anzi, che proprio lì le tendesse il suo agguato, e l'avesse infine braccata. L'ispettore di polizia in pensione si presentò, quasi che ce ne fosse bisogno, e chiese di essere ricevuto in privato, per un colloquio riservato.
Incuriosita ma nient'affatto rassicurata, Mary lo accompagnò nella propria camera, dopo aver pregato il giovane Percy di non allontanarsi troppo. L'uomo sedette, tradendo una certa agitazione. Aprì una sua cartella; ne estrasse e le porse un foglio ingiallito, ricoperto da una grafìa fitta, minuta, ordinata. Il linguaggio era burocratico e alquanto contorto. Mary ebbe un sussulto, appena intuì con che cosa aveva a che fare. Una specie di nebbia le calò davanti agli occhi, mentre la mano che reggeva il documento prese a tremare. Presto si interruppe, incapace di andare avanti nella lettura.
– Voi certo sopravvalutate la mia comprensione della vostra bella lingua – disse, riprendendosi e rivolgendosi al suo interlocutore, fino a quel punto poco loquace.
– Si tratta di una copia di mio pugno – premise l'anziano ispettore – L'originale dovrebbe trovarsi nell'archivio degli atti giudiziari. Ma ne dubito fortemente. Del resto, la perizia tecnica fu effettuata per uno scrupolo personale, quando mi accorsi che quella medico-legale non era stata predisposta nemmeno per il corpo di Edward Williams o del solo marinaio ritrovato. Il giudice mostrò di non gradire affatto la mia iniziativa. Si rifiutò di riaprire l'inchiesta, giustificando l'omissione con una pretesa irrilevanza del nuovo elemento. Mi fece inoltre capire che ogni insistenza da parte mia sarebbe stata vana, e ogni pubblicità inopportuna.
– Spiegatevi meglio, vi prego.
– Qualche giorno dopo il nostro incontro per l'interrogatorio, un relitto dello scafo dell'Ariel fu ritrovato incagliato fra gli scogli e trasferito a riva. La chiglia presentava tracce di sospette manomissioni: quali difficilmente avrebbero potuto essere prodotte da un semplice urto, o da precedenti riparazioni. Di fronte alla conferma della perizia, il giudice insinuò perfino il pretesto che esse avrebbero potuto essere apportate durante o dopo il trasporto, e che nulla provava il contrario. Ma, a che scopo? Solo per provocare uno scandalo, e metterci magari in cattiva luce sulla stampa estera?
– E' ciò che io domando a voi, ovviamente.
– La mia attuale opinione è che si trattò, attendibilmente, di un sabotaggio.
Mary si alzò di scatto e si recò davanti alla finestra, volgendo le spalle all'ospite inatteso e indesiderato. Fra le tendine leggermente scostate, attraverso i vetri, si poteva scorgere il mare e la spiaggia. Una donna velata, a sua volta di spalle, richiamava bruscamente una bambina intenta a giocare tra la sabbia.
Quando la piccola accorse piagnucolando e la madre si voltò indietro, ella non riuscì a distinguerne il viso, seminascosto dai lunghi capelli sciolti al vento. Tornò allora verso il centro della stanza, ritenendo di essere in grado di dominare, grazie a uno sforzo "titanico", le emozioni che montavano e il conseguente nervosismo. Ruppe per prima la pausa di silenzio, affrontando con energia quell'essere diabolico:
– Signor ispettore, chi credete che potesse aver interesse a far danneggiare l'imbarcazione? E perché vi presentate a me con questa storia, solo dopo vent'anni?
– Ve l'ho detto. Per un semplice scrupolo della mia coscienza. Appena ho saputo che eravate tornata, ho ritenuto di dovervi confidare questo dubbio, che ho covato per tutto questo periodo, senza farne cenno a anima viva. Notte e giorno. Non dimenticate che ero un funzionario: in quanto tale, tenuto al segreto d'ufficio. Quanto ai possibili autori dell'attentato, voi non potete ignorare che il vostro generoso marito era diventato un referente e un tramite internazionale, per tutti i rivoluzionari e perfino repubblicani della zona. Né che il nostro è un paese diviso e povero, percorso da spie e agenti dei servizi di governi stranieri, e occupanti il nostro territorio. Essi sfuggono alla nostra stessa conoscenza e controllo: almeno, al mio modesto livello. Gli stessi non potevano certo non temere l'attività sovversiva, di chi era per giunta coperto da una tacita immunità diplomatica. In altre parole, voi rappresentavate un pericolo tanto più insidioso, quanto non direttamente perseguibile...
* * *
Abbandonata su una poltroncina, Mary ascoltò esterrefatta, da tanto ottuso candore o cinica franchezza. Venti anni – avrebbe voluto urlare –, venti anni di sospetti laceranti, di rimorsi atroci, di annichilenti disillusioni, di fango gettato sui propri congiunti, familiari, amici. Sul fiore reciso di una generazione di uomini e di donne, non privi di gravi difetti, ma infinitamente migliori del protagonista della scena avvilente, che aveva davanti agli occhi. Tutto questo, nel teatro devastato della propria anima. E, ora, questo miserabile pretendeva di venire a tacitare la propria coscienza con un estremo comodo omaggio, alla sua idea astratta di Verità e di Giustizia.
O, forse, c'era dell'altro. Quel rettile poteva essere al corrente dei suoi recenti contatti e corrispondenze, con l'ambiente degli esuli italiani a Parigi. Dei suoi modesti aiuti, non senza personale sacrificio. Non sarebbe stata neanche l'unica volta, che qualcuno cercava di ricattarla. Amata ma infelice nazione, se fosse stata costretta a fondare le speranze del proprio risorgimento, nel compromesso con simili individui!
Pure, una ulteriore riflessione suggerì che ella avrebbe dovuto essere grata al "piccolo-borghese", che insisteva a volerle insegnare come va il mondo: così, non avrebbe esitato a definirlo l'aristocratico sprezzante Byron. Suo tramite, il mostro di Frankenstein aveva finalmente gettato la maschera. E non si trattava che di un demone meschino: poco più di un satiro vacillante e ebbro di sé, senza possederne peraltro le doti virili. Volendo, sarebbe stato un gioco approfittarne per impugnare a sua volta l'arma della ragionevolezza e troncargli il capo: come la biblica Giuditta con il gigantesco Oloferne dormiente. Purché l'arcana dea tornasse ad avere il suo vero volto, nello specchio della coscienza.
Mary si aggrappò con le mani ai braccioli e si erse nella sua media statura. Tornò ancora alla finestra; la spalancò affacciandosi e respirando profondamente. La bambina di poc'anzi giocava di nuovo tranquilla, sul bordo del Grande Vuoto. La madre aveva finito per cedere ai suoi desideri, e la sorvegliava indulgente, sedendo su una barca tirata in secco e rovesciata. A un tratto, tolse il velo dalla testa e raccolse i suoi capelli castani con le mani, sollevandoli e attorcigliandoli abilmente sulla nuca. Con quel gesto, mostrò il viso luminoso e lo espose al sole, socchiudendo gli occhi per un attimo.
Mary si sentì anche lei rapita e alfine riconciliata con la Natura, se non con gli uomini. Con quella stessa natura, che le aveva negato – in un attimo pauroso di eclisse – di scorgere perfino il volto di sua madre. Era lì la forza, flessibile ma tremenda, che le aveva pur consentito di sopravvivere agli altri e di resistere a ogni prova. Quanto alla radice del male, le fu infine chiaro che essa affondava soprattutto nella stupidità e meschinità umana. Nello stesso tempo, decise o seppe che fare. Si girò su se stessa e finse di leggere il foglio con cura. Poi, sorrise al suo inconsapevole persecutore-liberatore, con apparenza benevola.
– Mio caro ispettore, – disse, calcando la sua pronuncia anglosassone – vi ringrazio della vostra sollecitudine. Benché con comprensibile ritardo, voi avete fatto il vostro dovere: verso di me, verso il vostro Paese, nei riguardi della memoria di mio marito. Esaminando la perizia con la necessaria attenzione, mi sembra tuttavia di capire le caute valutazioni espresse a suo tempo dal magistrato, se non di condividerne le riserve. Si tratta di un indizio interessante, ma proiettato in un orizzonte vago e remoto: inserito in un contesto congetturale sfuggente, se non equivoco. Tale, da sollevare inquietanti dubbi, ma anche da dare facile adito a speculazioni. Politiche o scandalistiche, che siano: voi mi intendete. Senza contare, che si porrebbe il problema scabroso di un probabile informatore, nel nostro stesso ristretto giro, oltre che di un esecutore materiale. Il che, non può esservi sfuggito. Vi farei torto, se presumessi il contrario. Stando così le cose, vi prego di lasciare che sia ormai io sola a decidere: sull'opportunità o meno di rivangare un doloroso passato, nel rispetto dei miei sentimenti e consultati i miei legali. Sempre che voi non siate in possesso di altri elementi decisivi, i quali per discrezione, o per più seri motivi, mi tacete. Sappiate, in ogni caso, che non è mia intenzione esporvi leggermente a possibili ritorsioni: né da una parte, né dall'altra.
Le parole ambigue ma calibrate della vedova ottennero, ancora una volta, l'effetto calcolato. Il solerte burocrate si alzò inchinandosi con ossequio, interdetto ma allo stesso tempo spiazzato e soggiogato da tanta signorilità, self-control e avvedutezza. Intimamente timoroso di aver interferito, imprevidente della portata e delle conseguenze, con chissà quale trama o imperscrutabile ragione di Stato, il demone servile si ritirò in buon ordine, dileguandosi per sempre. Non senza prima aver levato un ultimo sguardo verso la parete, che si trovava adesso alle spalle della lady. Vi campeggiava un quadro, che doveva stare molto a cuore alla sua proprietaria, al punto da portarselo dietro anche in viaggio.
Mary Wollstonecraft Shelley vi era ritratta nelle vesti di una bionda dea pagana. L'espressione era triste, non priva di toccante dolcezza. L'incarnato bianco risaltava sullo sfondo scuro. Ivi si poteva scorgere un litorale marino, e il bagliore di un rogo, anzi di una pira funeraria, sulla spiaggia. Sotto, era leggibile una scritta in inglese: "La Musa solitaria". Ignaro della lingua, alla memoria profonda dell'ex ispettore l'immagine così atteggiata aveva suggerito un altro accostamento: quello con la Madonna Bianca, nella chiesa-madre di Porto Venere.
Quanto alla Mary in carne ed ossa, non appena fu richiusa la porta, si affrettò a lacerare il documento affidatole in tanti pezzetti di carta, e a disperderli nel vento fuori della finestra. Senile assillo e condanna, neanche il sagace funzionario sarebbe più riuscito a scorgere la luce, allo sbocco del proprio labirinto. A trovare risposta, ad esempio, a un non dichiarato interrogativo: se fosse vero ciò che aveva aggiunto il giudice al termine del loro colloquio. Magari, esagerando ad arte, per impressionarlo e dissuaderlo dai suoi onesti propositi di chiarezza. Per piegarlo, con ragioni di ordine superiore, alla connivenza nel reato di occultamento o distruzione di prove. Che cioè l'editore Leigh Hunt, il quale Shelley, Williams e Byron, avrebbero dovuto prelevare a Genova, era esponente di una potente loggia massonica inglese. E che il fortunoso naufragio aveva contribuito – "provvidenzialmente" – a sventare il finanziamento di una cospirazione democratica, se non i preparativi di un tentativo insurrezionale.
Presumibilmente, la nuova rete avrebbe gravitato intorno alla pubblicazione di un foglio semiclandestino, "Il Liberale", e raccolto i resti della vecchia setta segreta fondata da Byron e compagni a Ravenna: la Società Romantica, sgominata durante la repressione dei moti del '21. Virili aberrazioni e interessate macchinazioni, a cui l'eccentrica signora non poteva che essere comunque estranea: tutt'al più coinvolta innocuamente e suo malgrado, per amore o per ingenuità. Così, almeno, finì per convincersi l'implacabile segugio. Lei che, in un passo del "Frankenstein", era stata fra i primi all'estero, a perorare la causa della lotta di liberazione del Bel Paese.
* Pubblicato nel volume di racconti Alice cibernetica, Synergon, Bologna 1992