Pino Blasone
Il Labirinto e il Mandala
(annotazioni sul pensiero ambientalista)*
“Facile consumo” e “consumo sostenibile”
Ovviamente, qui si utilizza un gioco di parole, basato su una convenzione linguistica. Nell’uso italiano per “facile consumo” si intende il consumo di beni materiali, che non siano di prima necessità né voluttuari, ma utili a un’attività lavorativa, di solito in ambito burocratico. Di per sé ovvero considerati singolarmente, essi non sono particolarmente costosi o “necessariamente” numerosi. Per quanto a volte dissimulabile scaricandolo su altre voci di spesa, il loro costo può crescere in rapporto alla quantità, tanto da raggiungere un ammonto consistente o perfino da superare quello degli altri generi di consumi. La loro parvenza di necessità può crescere di pari passo, fino ad assumere la connotazione – più o meno circostanziale e giustificata – di oggetti indispensabili.
Esempi estensivi assai diffusi, di aspetto e “natura” molto diversi, possono essere una busta di plastica o un telefonino cellulare. Dalla dimensione dell’utilità essi sono approdati a quella di una quasi-necessità. Da una limitata sfera funzionale, essi hanno invaso quella vitale, almeno se si tiene conto delle piccole esigenze della vita quotidiana. Il costo dei singoli esemplari si è talmente ridotto, da consentire nel primo caso la pratica dell’“usa e getta”. Ma il loro costo complessivo a livello sociale è oggi ingente, comportando alti guadagni – diretti o indiretti – per i produttori o gestori.
La loro attrazione abitudinaria o implicita forza di convinzione, esercitata su noi consumatori, è un dato di fatto acquisito pressoché irreversibile. Il loro impatto ambientale è evidente. Quanto ai sacchetti di plastica, il loro effetto inquinante è noto. Per ciò che concerne i telefonini, essi hanno trasformato l’ambiente in un “campo” magnetico, la cui neutralità nei confronti della salute pubblica è ancora tutta da dimostrare.
In questi casi e in molti altri analoghi, la transizione o il salto al consumo facile è avvenuta tramite la simulazione di un “facile consumo”, preludendo a una fase che è da un lato lo spreco delle eccedenze; dall’altro, l’accumulo di rifiuti urbani – o suburbani – dal problematico smaltimento. Favorito dalle catene della grande distribuzione commerciale, e dalla pressione operata dalla pubblicità sul mercato globale, questo consumo facile esercita altresì un richiamo sui flussi migratori da aree meno direttamente coinvolte dal fenomeno. Si presume che l’attrattiva dei prodotti di “facile consumo” sia maggiore, rispetto alla seduzione degli articoli di lusso. Per entrambi i generi una componente feticistica, in senso sia economico sia psicologico, sembra agire ancor più che un’effettiva comodità o la denotazione di una promozione sociale.
Un approccio critico verso il mito del “facile consumo” non implica un pregiudizio contro il consumo di massa, in senso elitario, o contro la tecnica che lo rende possibile. Si dovrebbe però mirare a contenerlo entro limiti ragionevoli e consapevoli, assicurando quello che va sotto il nome recente di “sviluppo sostenibile”, cioè compatibile con le risorse limitate e con la vivibilità ambientale che la Natura mette a disposizione. Viceversa, la spinta a oltranza verso il consumo facile assume i connotati di un’illusione ingannevole e irresponsabile, sostenuta dall’ideologia economicistica di una “crescita coatta”. Di essa specialmente la pubblicità mediatica si fa veicolo sempre più raffinato e, al limite, complice.
Ora, il processo relativo indotto, e in gran parte gradualmente condiviso, è soprattutto mentale. Esso investe la coscienza. Il problema è della sua reversibilità. Una sua visione critico-analitica rientra non solo nel campo dell’ecologia tout court, ma pure in quello della così definita ecologia della mente. Ci si può spingere ad affermare, tutta l’ecologia politica è anche ecologia della mente, né può essere altrimenti se si perseguono risultati attendibili ed efficaci. Un presupposto ormai scontato è che non c’è seria economia politica attuale, la quale possa prescindere dall’ecologia politica.
Per inciso, si pensi alla bio-economia o economia ecologica dell’economista rumeno Nicholas Georgescu-Roegen, con la sua demistificazione del preconcetto di una crescita economica a tutti i costi. Nella scia di un pioniere quale lo statunitense Murray Bookchin, inoltre alcuni preferiscono parlare di ecologia sociale anziché politica, con una impronta di maggiore radicalismo, ma qui la differenza risulta secondaria. Una trattazione a parte richiederebbero pure la tendenza e la teoria del cosiddetto eco-femminismo.
Altro risvolto è che l’ecologia della mente riguarda il benessere o il disagio, nella misura in cui uno stato psicologico dipende e incide sull’ambiente circostante, in base alla soddisfazione di impulsi anche contrastanti che ne provengano. Siamo di fronte a una relazione di interdipendenza, che può presentarsi come circolo vizioso, senza un criterio di giudizio che promuova un atteggiamento equilibrato. Consideriamo di seguito pochi autori, i quali hanno riflettuto sulla prospettiva allargata di uno “sviluppo sostenibile”, nell’ambito di un pensiero ambientalista che ha preso il nome di eco-filosofia o “ecosofia”. Tramite il confronto, ci si augura di contribuire all’incontro fra ambientalismo ed ecologia della mente.
Filosofia dell’ambiente ed ecologia della mente
In effetti, la filosofia ecologica si può considerare un connubio tra conoscenze scientifico-critiche sull’ambiente e una filosofia della mente, in quanto entità reciprocamente speculari e influenzabili. Ma questa confluenza è stata graduale. La sintesi è da ritenersi tutt’altro che scontata o conclusa. Punti di partenza o cruciali, nel corso di tale evoluzione, sono le opere di due autori di diversa formazione: in particolare, Verso un’ecologia della mente (1972), dell’antropologo anglo-americano Gregory Bateson, ed Ecosofia. Ecologia, società e stili di vita, del filosofo norvegese Arne Naess (1989; una prima parziale traduzione in inglese di questi scritti si era avuta nel 1977, a cura di John Reshaur, con titolo Ecology, Community and Lifestyle: A Philosophical Approach).
Si tenga presente che al neologismo “ecosofia” Naess aveva affiancato la definizione “ecologia profonda”, per differenziarla da una più superficiale interessata alla sola tutela dell’ambiente. Né è qui il luogo per approfondire quanto questo pensiero non-dualistico sia debitore al panteismo di Baruch Spinoza, alla filosofia della natura di Friedrich Schelling, alla fenomenologia di Edmund Husserl e di Martin Heidegger, o a una rivisitazione del buddismo. Ai nostri fini basti rilevare che esso individua nella dicotomia fra Terra e Mondo, ovvero tra natura e cultura, un difetto della civiltà occidentale moderna a detrimento della prima, un po’ come quella tra corpo e anima lo era per la mentalità medievale. Tale concezione acquista in Naess caratteri aggiornati e polemici, militanti ma non-violenti.
Oltre che di una valenza etica laica, essa non è priva di una sua religiosità. Quest’ultima viene adattata – o recuperata – al contesto religioso cristiano, da parte del teologo indo-spagnolo Raimon Panikkar nel saggio Ecosofia: la nuova saggezza. Per una spiritualità della terra (1993). Nell’interpretazione di Panikkar, intuibilmente permane un certo dualismo fra immanenza e trascendenza. Ma il discorso si arricchisce, dal momento che ci si apre ancor più al dialogo interculturale. La tendenza al superamento dei dualismi, verso la ricomposizione di una visione unitaria della Terra e del Mondo, non comporta il trascurare le differenze culturali. Al contrario, queste riemergono e vanno valorizzate. Esse meritano almeno altrettanto rispetto, quanto quello da tributare alla diversità biologica, anche quando a un’ottica antropocentrica si voglia affiancare o sostituire una eco-centrica.
D’altronde, l’orizzonte del sacro si affacciava già nel pensiero di Bateson. Non per niente un’antologia postuma di suoi scritti, curata da Rodney E. Donaldson, in traduzione italiana si intitola Una Sacra Unità. Altri passi verso un’ecologia della mente (1991). L’unità che a Bateson preme soprattutto ricomporre è fra “Mente e Natura”, quale il titolo di una sua nota opera (1980). Questa contraddizione rammenta quella cartesiana fra mente e materia. L’accenno al sacro ricorda la desacralizzazione della natura operata dalla modernità. Se per convenzione il mondo è un prodotto della mente, a maggior ragione la terra lo è della natura. Non c’è valido motivo per non riconoscerli in quanto livelli di una stessa realtà, per giunta interattivi nel corso e in vista di una evoluzione, o possibile involuzione. Tale ricomposizione ben si associa con quella pure auspicata da Bateson, tra scienze naturali e umane, preludendo peraltro a una diversa percezione della Storia.
L’ecologia mentale studia l’interazione dialettica fra mente e ambiente, sia naturale sia sociale. I “tre mondi” prospettati da Bateson – quello fisico; quello della vita, del pensiero e dell'apprendimento; quello dell’evoluzione – rappresentano da un lato un tentativo di contrastare la moderna visione dualistica del mondo; dall’altro, uno schema interpretativo dinamico, in cui l’ecologia della mente viene a occupare un posto e a rivestire un ruolo centrali. Ancor più che di una mediazione o transizione, si tratta di una cerniera o anello di congiunzione. Per così dire, l’anello mancante fra evoluzione naturale e progresso umano. E’ ciò che consente di capire che ogni sistema ambientale, per quanto integrato o naturalmente selettivo possa apparire, è sempre dischiuso sulla possibilità o su una scelta.
Ecologia integrale ed educazione ambientale
Sul terreno dell’ecologia scientifica o applicata, concetti-chiave quali “ecosistema” (o sistema ambientale), “ecosfera” (o matrice ambientale planetaria) e “sostenibilità” (dello sviluppo tecnico-economico e del consumo delle risorse naturali) devono molto sia a Bateson sia a Naess. Più che di due filoni di pensiero distinti e separati, si tratta di correnti che si mescolano e confluiscono. Ben lo ha compreso lo psichiatra e pensatore francese Félix Guattari, di formazione psicoanalitica e marxista, col saggio Le tre ecologie (1989). Nella sua “ecosofia” progressista, sono contemplati tre tipi di ecologie fra loro complementari: quella ambientale, quella sociale e quella mentale. L’ascendente di Bateson è esplicito. Ma l’adozione di una collocazione ecosofica rimanda alla scuola di Naess.
Fra i seguaci della scuola di pensiero di Naess, per la loro originalità vanno segnalati almeno Warwick Fox e Michael E. Zimmerman. Il primo, australiano, sviluppa il tema dell’ecologia politica o sociale in senso comunitario, dando luogo a quella da lui definita “ecologia trans-personale”. La sua insistenza sulla “realizzazione del Sé” suggerisce influssi psicologici junghiani, oltre che delle filosofie orientali. Il secondo autore, statunitense, è interessante per alcuni spunti critici e auto-critici. Buon conoscitore della cultura tedesca del Novecento, egli ha analizzato la filosofia di Heidegger in relazione all’ambientalismo e si è posto il problema di un potenziale conservatore in questo indirizzo di pensiero. In particolare un suo articolo “Sulla riconciliazione fra progressismo e ambientalismo” è indicativo di tale inquietudine. Essa rientra comunque nella problematica più ampia di un superamento della modernità, che non implichi una fase di regresso, sia pure transitoria.
Per l’ultimo Zimmerman, la stessa ecologia procede verso una ricomposizione dei suoi molteplici aspetti. Coerente con la sua vocazione interdisciplinare, essa diviene un’“ecologia integrale”, una sorta di sguardo complessivo sulla Terra e sul Mondo, e forse oltre. Questa tensione verso l’oltre è diretta sia all’esterno, sia verso l’interno dell’essere umano. In entrambe le prospettive, è importante un’educazione ambientale. E’ ciò che per l’oriundo austriaco Fritjof Capra, fisico e teorico della scienza nord-americano, si chiama “eco-alfabetizzazione”. Infatti, in ultima analisi, sono proprio le coscienze arbitre del destino della vita e della coscienza stessa sul nostro pianeta, se non nell’intero universo.
A una pedagogia ambientale Capra ha dedicato saggi e attività promozionali. Si pensi che il suo obiettivo iniziale era fra i più ambiziosi: quello di sanare la dicotomia tutta moderna e occidentale tra fisica e metafisica, magari con l’aiuto della saggezza orientale. Da Il Tao della fisica (1975) a Il punto di svolta (1982) e a Ecologia Profonda. Un nuovo paradigma (in La rete della vita, 1997), il vecchio seguace di Bateson ha compiuto un percorso significativo, che lo ha portato ad affermare: “l’eco-alfabetizzazione è una dote essenziale per i politici, gli uomini d’affari e i professionisti in tutti i campi. Di più, l’eco-alfabetizzazione sarà fondamentale per la sopravvivenza dell’umanità nel suo insieme, quindi costituirà la parte più importante dell’educazione a ogni livello”.
A ben vedere, questa conclusione – in L’universo come dimora (1991) – è conseguente con la premessa di Bateson circa l’ecologia della mente. Purché non opacizzata, e con un minimo di elementi cognitivi a disposizione, la mente stessa è un ambiente speculare in grado di rifletterne ogni altro dinamicamente. Essa può somigliare a un Labirinto, ma anche a un Mandala. Rinnovare il modo di sentire e di pensare è prioritario. In tal senso, perfino il contrasto fra antropocentristi ed eco-centristi perde valore. In merito tanto vale ascoltare Bateson, in Una Sacra Unità: “Più o meno, mi riferisco alle varie cose che accadono nella nostra testa e nel comportamento, quando abbiamo a che fare con altre persone, quando andiamo su e giù per le montagne, quando ci ammaliamo e poi stiamo di nuovo bene… Tutte queste cose si interconnettono. Di fatto, esse costituiscono una rete che, in un linguaggio orientale, si potrebbe chiamare Mandala. Io mi sento più a mio agio con la parola Ecologia. Ma queste sono idee che hanno molto in comune”.
Labirinto o Mandala? Probabilmente, non solo la mente ma questo mondo è entrambe le cose, sebbene l’Occidente abbia privilegiato la prima immagine e l’Oriente la seconda. A sfatare una visione intellettualistica negativa o meditativa idilliaca, a ribadire il primato e la responsabilità dell’azione etica personale nell’ambito di una volontà preservatrice o trasformatrice – al limite distruttiva –, giova forse citare il principale pensatore buddista moderno, il giapponese Kitaro Nishida, in La logica del luogo e la visione religiosa del mondo (1945): “Il mondo come entità assolutamente contraddittoria, in quanto essere locativo, non è un mondo emanativo, né un mondo semplicemente produttivo e generativo. Ancora, esso non è un mondo dell’intuizione intellettuale, come dicono coloro che mi fraintendono. Al contrario, è sempre un mondo in cui l’individuo agisce”.
Dal canto nostro, piace concludere auspicando quella nuova alleanza o “contratto” fra uomo e natura, da tempo consigliata dallo scienziato di origine russa Ilya Prigogine o più di recente dal filosofo francese Michel Serres. Tale riconciliazione non può che essere accompagnata e preceduta da un riavvicinamento tra cultura umanistica e scientifica, che faciliti una riforma didattica e una maturazione morale. L’intercultura, in quanto confronto critico tra differenti visioni della Terra e del Mondo, fa parte a pieno titolo di un simile progetto. Il pensiero ambientalista o ecologico, estensivamente e “integralmente” inteso, ne sembra la sede più adatta o il punto di partenza più vantaggioso per noi tutti esseri viventi.
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* Intervento al convegno “La Terra è a terra?”, organizzato dal Sindacato Nazionale Scrittori per l’Anno Internazionale del Pianeta Terra proclamato dall’UNESCO, presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, il 21 aprile 2008.