Henry Rousseau, La zingara addormentata, 1897

 

Pino Blasone

 

L'orecchino di Kalì*

 

 

Mi sono svegliato di soprassalto, come da un brutto sogno. La persiana della finestra nella stanza era abbassata. La luce del giorno irrompeva dalla finestra del bagno dirimpetto. Attraverso le porte aperte, potevo scorgere i cristalli opachi della cabina della doccia. Ho ricordato lo scroscio dell'acqua e la sagoma in movimento del corpo di Geneviève, che traspariva appena in controluce. Ci ero piacevolmente abituato, la mattina presto, insieme all'aroma del caffè sui fornelli dalla cucina. Doveva essere piuttosto tardi. Ho accusato un forte mal di testa, tornando a chiudere gli occhi per un attimo. Sul comodino, la radio-sveglia automatica ha preso a gracidare qualcosa di incomprensibile. L'ho spenta e ho guardato l'orario.

Mi sono accorto allora della cornetta del telefono poggiata a fianco dell'apparecchio. Ne usciva il segnale di libero, risuonando debole ma insistente. Dovevo averla lasciata staccata durante la notte, dimenticando di riporla, colto di nuovo dal sonno. Mi sono sforzato di ricordarmi della telefonata notturna. All'improvviso, mi sono tornate alla mente le parole di mia sorella, chiare come se le stesse pronunciando in quel momento. Solamente ora ne coglievo pienamente il significato. Sono saltato giù dal letto, ho tirato poche cose fuori dai cassetti del guardaroba e le ho gettate alla rinfusa in una sacca da viaggio. Sono andato in cucina e ho trangugiato una pillola di analgesico, con un bicchiere di succo di frutta.

Poco dopo ero giù in garage. La moto era coperta da uno strato sottile di polvere, illuminata dal fascio di luce a scacchi, che piove attraverso i vetri spessi di una apertura nel soffitto, la quale dà sul piano stradale. Era da parecchio tempo che non la usavo: almeno l'intera stagione invernale. Il fanale ha lampeggiato verso di me con aria di vecchia intesa, attivato dal comando dell'antifurto elettronico nella mia mano. Ho calcato il casco in testa, ho tirato su la lampo del giaccone e sono montato sul sellino, pensando a tutta la strada che avevo davanti e a come arrivare il più presto possibile. Il motore ha stentato ad accendersi, ma infine è partito docilmente, senza opporre eccessiva resistenza.

 

* * *

 

Per quanto possa sembrare strano, mia madre condivideva la mia passione per la moto, a parte qualche comprensibile riserva. Né ne temeva all'occasione la velocità: probabilmente perché essa le rammentava in qualche modo i cavalli, che le erano stati familiari nella sua infanzia e adolescenza. Non c'era praticamente volta che l'andassi a trovare, nella bella stagione, e non l'accompagnassi a fare un mezzo giro del lago, seduta di fianco sul sellino dietro le mie spalle, e con le braccia strette intorno alla mia vita. Tale irrequietezza rientrava del resto nel suo carattere – per così dire – ereditario, di cui andava ben orgogliosa. Di origine ungherese, aveva sangue zigano nelle vene. Da qui il suo amore per la danza, per la musica e, non senza un mezzo sorriso, per la magia.

Quando ero ancora bambino, una volta mi aveva portato con sé nella Camargue, nella bassa Francia, al santuario delle Saintes-Maries-de-la-Mer. Qui – lei mi raccontò – sono custodite le reliquie della beata Sara l'Egiziana. Costei, secondo una antica leggenda cristiana, avrebbe seguito le tre Marie nel loro esodo dalla Palestina dopo la scomparsa di Gesù, con funzioni di umile servente. L'imbarcazione delle pie donne sarebbe stata spinta miracolosamente verso queste rive dai venti e dalle correnti. Molto tempo dopo, gli zingari giunti in Europa dalla lontana India capitarono da queste parti nel loro peregrinare. Essi dovettero rimanere colpiti tanto dal colorito bruno di una effigie in legno conservata nella chiesa, simile a quello della loro carnagione, quanto dalla designazione di nazionalità riferita alla beata. Erroneamente, i dotti dell'epoca avevano finito per convincerli di provenire essi stessi dall'Egitto: equivoco di cui è rimasta traccia in alcune denominazioni loro attribuite nelle lingue europee. Convertiti al cristianesimo, gli zingari adottarono Sara come loro protettrice.

Ancora oggi in molti si recano in pellegrinaggio al santuario da tutta l'Europa, a maggio di ogni anno. La statua della beata viene portata in processione fino alle acque del mare, dove viene immersa fino alla cintola. Con ogni probabilità, si tratta di un rito pagano superstite, propiziatorio della fertilità. Al suo passaggio una invocazione viene ripetuta a gran voce da mille bocche: "Sara Kalì!", che nella vecchia lingua zingaresca vuol dire "Sara la Nera". Subito dopo comincia la festa, con balli, musiche e canti caratteristici, che durano fino a notte inoltrata e per più giorni.

Mia madre non si limitava ad essere spettatrice, come uno qualsiasi dei numerosi turisti attratti dalla suggestione dell'evento. A un tratto, ricordo che fece un gesto strano. Estrasse una scatolina dalla borsa e l'aprì, prendendo un po' di pasta scura con le dita e passandosela su tutto il viso. Si alzò e si scostò da me, andando ad unirsi a un gruppo di zingari e di zingare in abiti pittoreschi che danzavano intorno a un falò, pure essi con i volti tinti di scuro. Le loro ombre si allungavano sul terreno intrecciandosi e tornando a districarsi di continuo in una fluida unità. Il ritmo cadenzato e ossessivo andava crescendo di intensità e i ballerini ruotavano su se stessi fin quasi a perdere il senso dell'equilibrio. A mano a mano che qualcuno abbandonava la pista improvvisata, il numero di essi diminuiva. Ma mia madre resistette fino all'ultimo, come se conoscesse bene e da sempre quella specie di gioco o di gara. La sua figura snella restò sola a volteggiare intorno al fuoco di legna, che divampò per l'ultima volta e si smorzò fin quasi a spegnersi.

La musica dell'orchestrina cessò come al circo, prima di un numero difficile di acrobazia. Nel silenzio, solo i presenti in cerchio continuarono a battere a tempo le mani. Allora lei saltò al centro e seguitò a danzare vorticosamente calpestando la brace ardente e facendone sprizzare scintille tutt'intorno, in modo tale da non bruciarsi. Io temetti che l'orlo della lunga gonna potesse prendere fuoco, ma niente di ciò accadde e la fiamma fu completamente domata, mentre mia madre trionfava tra le grida di entusiasmo. Udii distintamente e riuscii a capire una vicina che bisbigliava a un'altra, con una espressione mista di rispetto e di timore: – Non può essere che una hexe.

Solo in seguito sarei venuto a sapere con certezza che quella parola significa maga, o, meglio, depositaria e custode di un culto ancestrale. Non conoscendola ancora così trasfigurata sotto quell'aspetto, ero rimasto insieme affascinato e spaventato dalla scena. Ma lei tornò a sedere sull'erba di fronte a me, riaprì la sua scatolina e tinse anche il mio viso come il suo.

Mon chéri, – disse, mentre i suoi occhi neri rilucevano intensamente attraverso la maschera scura – voglio confidarti un segreto che pochi ormai ricordano o comprendono. La Nera che hai udito invocare stamattina e in onore della quale festeggiamo non è altri che Kalì, la nostra antica dea decaduta ed errante, patrona delle nascite e delle morti, che un giorno tornerà augurabilmente a splendere in cielo e a regnare su questa terra, come la luna nuova. Quando i nostri antenati giunsero qui fuggendo dal loro lontano paese, credettero o finsero di identificarla con l'immagine che videro innalzata sull'altare. Lei a sua volta è il femminile del dio Shiva, il grande illusionista che suscita e disfà i mondi con la sua danza magica, perché noi e le altre creature possiamo gustare il dolce e l'amaro dell'esistenza, fino ad esaurire il nostro karma e a meritare di tornare all'Essenza. Lui è il Devel, che gli inglesi continuano a chiamare Devil, e che bestemmiano senza saperlo per averlo a suo tempo declassato al ruolo di diavolo. Quelli che danno ancora retta alla nostra origine egiziana li chiamano anche Iside e Osiride, ma la sostanza non cambia molto. A pensarci bene, l'errore che commettono i gagé (così mia madre designava i sedentari convinti, e, più in generale, gli occidentali non zingari) forse è tutto qui: di aver scambiato Dio con il diavolo, stravolgendo il senso naturale dell'esistenza. Le conseguenze sono incalcolabili, e hanno già rischiato di travolgerci tutti almeno una volta. Tanto tempo fa eravamo uno stesso popolo, che cavalcava libero per le steppe fra l'Asia e l'Europa. Ancora oggi le nostre lingue sono in parte simili, anche se quella degli zingari è rimasta più fedele al suono e ai significati della lingua madre. Poi i gagé vollero fermarsi, e cominciarono a costruire ciò che chiamano civiltà e progresso. Ma la loro coscienza cominciò ad offuscarsi, finché non riconobbero più le proprie radici e ne rimasero tagliati fuori. L'angoscia di alcuni di loro crebbe allora e si mutò in una sorta di invidia e in astio, contro chi sembrava ricordare quello che essi avevano dimenticato e rimpiangevano confusamente.

Mentre mia madre parlava, aveva staccato da un orecchio un grande pendente spaiato di oro giallo che usava portare, di fattura orientale, e me lo aveva mostrato. Esso risplendeva alla luce degli altri falò intorno, e aveva la forma di un cerchio leggero, finemente traforato. Al suo interno campeggiava la figura rampante di una dea dalle molte braccia, con una collana di minuscoli teschi intorno al collo e l'espressione terribile: sicuramente Kalì la Nera, la forza vendicativa e implacabile del nostro stesso karma.

 

* * *

 

– Non è necessario per ora che tu comprenda proprio tutto – aveva sorriso mia madre di fronte alla mia espressione evidentemente turbata, riattaccando il pendente all'orecchio e proseguendo il suo discorso, – Ma è importante che tu ricordi ciò che non è scritto in nessun libro. A differenza dei gagé, noi rom non abbiamo mai scritto. Forse per questo a volte la nostra memoria è più profonda ed autentica. Ora che sei quasi un vero sinto, c'è un'altra storia che in parte già sai ma devi conoscere meglio. Tuo nonno apparteneva alla categoria dei lovara, allevatori e mercanti di cavalli. Essendo molto abile e conoscendo diverse lingue, era riuscito a mettere su un piccolo circo equestre, con cui girava i paesi dell'Europa orientale. Eravamo in Polonia, quando i tedeschi nazisti la invasero. Iniziò un periodo tragico di internamenti e di stermini per gli ebrei e per gli zingari, tesi ad annientare i nostri popoli solo perché diversi o ritenuti tali. Noi in un primo tempo ci salvammo, per la circostanza assurda che i carnefici erano appassionati allo spettacolo del circo. Ma una notte i loro soldati circondarono l'accampamento, con l'ordine di usare le armi se avessimo opposto resistenza o tentato la fuga. Solo io e mio padre riuscimmo a sfuggire su un cavallo e ci nascondemmo in mezzo alla campagna. In seguito, fummo aiutati da un gruppo di partigiani polacchi, comandati da un giovane sottufficiale. Dei miei fratelli e di tua nonna Sara, che era una nota guaritrice, non sapemmo più nulla al di là di ciò che potevamo purtroppo supporre. Nonostante l'apprensione e la sofferenza, mio padre si mostrava a me piuttosto tranquillo. "Tua madre è una maga potente, – disse una sera, rompendo il silenzio – ed è in contatto con le forze profonde della Natura. Se oseranno nuocere a lei e ai suoi figli, così come a tanti altri di noi, i nazisti verranno annientati". Questi ultimi persero in effetti la guerra, secondo una logica provvidenziale delle cose. Più ancora che la magia di mia madre, fu il tremendo carico del karma negativo da loro accumulato a schiacciarli. Colpendo noi rom, essi avevano intaccato le loro stesse radici, e attentato a quelle della vita, nella loro aberrante follia. Kalì, la Nera, non avrebbe risparmiato né loro né i loro complici, se non per farli rinascere vermi della terra o avvoltoi dell'aria. Ma tua nonna e i miei fratelli non tornarono. O, più precisamente, lo spettro di lei tornava ogni tanto nelle notti di novilunio, e si sedeva in silenzio sul timone del carro. Allora mio padre se ne accorgeva e scendeva a parlarle, come se parlasse da solo rivolto alla luna apparentemente assente. Né volle o seppe mai rivelarmi che cosa si dicessero. Tornammo poi in Ungheria e in Romania, alla ricerca dei numerosi parenti. Trovammo che molti anche fra loro erano morti di fame e di stenti, a causa delle persecuzioni subite da parte dei fascisti romeni. Quanto a me, finii per innamorarmi perdutamente del bel sottufficiale polacco che aveva contribuito a salvarci, così come lui di me. Tuo nonno fece una eccezione alla sua mentalità e non si oppose a che sposassi, giovanissima, un gagio, anche se si sentì in dovere di ricordarmi che le nostre abitudini e modi di pensare erano molto differenti, e di avvertirmi che avrei dovuto adeguarmi. Infine abbandonò ogni attività del circo e anche il commercio dei cavalli, che ormai non rendeva abbastanza, e si trasferì in Europa occidentale, continuando ad oltranza la sua vita nomade. Presto io e tuo padre lo raggiungemmo, nella condizione però per me del tutto nuova di sedentari.

Terminato il racconto, la memoria di mia madre era tornata a chiudersi e lei non era tornata mai più volontariamente sull'argomento: come se trasmettendomi i suoi ricordi avesse assolto un compito gravoso e necessario, sollevandosi allo stesso tempo e in una certa misura dal loro peso.

 

* * *

 

– Mi dispiace molto, credimi, ma non posso raggiungerti. La mia presenza non può esserti di giovamento in questa circostanza, né in altre. Sono troppo occupata a sopravvivere io stessa –: era la voce leggermente rauca ma ferma di Geneviève attraverso il telefono, dalla casa di cura dove si era ricoverata per un periodo di disintossicazione. Ho riattaccato senza replicare e sono uscito dalla cabina.

Ero arrivato la mattina presto ed ero molto stanco, per non essermi fermato se non lo stretto necessario. Una sosta l'avevo fatta al minimarket di un motel, lungo l'autostrada. Vi avevo acquistato, fra l'altro, alcune audiocassette per il lettore da walkman, che mi rilassassero e mi tenessero sveglio durante il resto del viaggio. Le superfici a specchio delle pareti e del soffitto del locale semideserto riverberavano all'infinito le luci delle lampade fluorescenti. In un angolo, un video lasciato acceso senz'audio inquadrava il volto anonimo dello speaker di un notiziario. Le sue labbra si muovevano senza emettere alcun suono, con un effetto curioso. Una musica soft si diffondeva attraverso gli amplificatori nascosti, tra i lunghi scaffali pieni di merci esposte. Era un raga indiano, eseguito al sitar da Ravi Shankar: Homage to Mahatma Gandhi. Avevo preso anche questo e mi ero subito rimesso in viaggio.

Dall'espressione del viso di mia sorella mi sono immediatamente reso conto di essere arrivato tardi, o che, al contrario, non ci sarebbe stato motivo purtroppo di affrettarmi.

– Se la mia non fosse stata una bugia, saresti arrivato in ritardo come al solito; e come in effetti è successo, anche questa volta –: è stato il suo unico commento in tono di rimprovero, in questo caso eccessivamente severo. Mi ha poi accompagnato alla camera mortuaria. Un lungo e stretto sottopassaggio male illuminato vi accede dall'ospedale. L'ambiente è angusto e spoglio come una cella.

La luce filtrava da una unica apertura praticata piuttosto in alto, e schermata da una fitta rete metallica. Ho riconosciuto nella penombra il corpo di mia madre steso su un tavolo, con la testa verso la finestrella e i piedi rivolti alla porta d'ingresso. Indossava un vestito a fiorami bianchi su fondo nero. Le mani, giunte sul grembo, erano strette intorno a qualcosa che mi è sembrato un rosario. Mia sorella ha sistemato delle rose di diversi colori in quattro vasi metallici collocati sul pavimento agli angoli della stanza, e ha acceso una candela infilata su un alto candeliere, proprio di lato al suo viso. I suoi lunghi capelli erano stati tagliati, ma la sua espressione dormiente era serena, come se non si fosse accorta o avesse ormai perdonato quella menomazione superflua.

– Dopo l'operazione, – ha specificato mia sorella, sforzandosi di sorridere fra le lacrime – non era più la stessa. Soprattutto, non aveva accettato la perdita dei suoi bei capelli.

Ho notato, avvicinandomi, la medaglietta d'argento che teneva uniti i fili di grani in madreperla del rosario. Vi era raffigurata a sbalzo una minuscola Madonna seduta su un trono, che reggeva uno scettro in una mano e un bambino benedicente sull'altro braccio. Entrambi erano coronati, ma sulle spalle di lei era poggiata una preziosa e corta mantella, che ne accresceva la maestà. Mi sono ricordato lucidamente di simili mantelle ricamate che le donne gitane usavano porre sulle spalle della statua di Sara l'Egiziana, nella chiesa delle Saintes-Maries-de-la-Mer, e dei grossi ceri che accendevano a rischiarare il volto bruno della beata. I loro gioielli modesti ma vistosi sfavillavano nell'ombra, e alcune di loro tenevano dei bambini in braccio poggiati su un fianco. In maniera inequivocabile, esse somigliavano all'immaginetta che avevo davanti. Mia madre si era fatta largo e si era erta al di sopra della ressa, staccando un pendente d'oro dal suo orecchio e agganciandolo a una collana, già appesa al collo della statua raggiante.

Sono tornato a guardare verso il suo corpo irrigidito, leggermente gonfio. Involontariamente la mia attenzione è stata attratta e si è concentrata sul suo sesso, appena accentuato sotto il vestito aderente. Era quella la soglia che avevo oltrepassato venendo al mondo, l'unico varco reale tra essenza ed esistenza. Ora esso si era richiuso definitivamente dietro le mie spalle, senza più nemmeno uno spiraglio. Mi sono sentito irrimediabilmente tagliato fuori, e più che mai lacerato fra due eredità difficilmente compatibili tra loro: così mezzo gagio e mezzo kalò, come avrebbe rammentato il colorito perennemente abbronzato della mia pelle, se solo ci fosse stato uno specchio per riguardarmi. In altri momenti, ciò era stato perfino motivo di un certo compiacimento. Ho avvertito una fitta dolorosa al costato e mi sono morso le labbra fino a sentire il sapore del sangue. Il profumo delle rose e l'odore della cera bruciata formavano un miscuglio artificioso e insopportabile.

Mi sono accostato alla finestra e mi sono sollevato sulla punta dei piedi, puntellandomi coi gomiti sul bordo in muratura, per respirare un po' d'aria fresca e dare uno sguardo all'esterno. Una scaletta dai gradini intagliati nella roccia, fra gli alberi e i cespugli, scendeva ripida e tortuosa fino al lago. E' stato allora che ho intravisto sull'acqua vicino alla riva uno dei cigni prediletti da mia madre. Fra tutti gli animali, lei amava queste creature almeno quanto i cavalli: forse per l'armonia delle loro forme e per l'eleganza del movimento. Spesso, quand'ero piccolo, mi aveva letto una fiaba di Andersen intitolata I cigni selvatici, in cui si narra: "Voliamo come cigni selvatici, mentre il sole splende alto nel cielo; ma, quando è tramontato, riprendiamo il nostro aspetto umano... Noi non abitiamo qui: una terra bella come questa si stende dall'altra parte del mare, ma lunga è la via per raggiungerla...".

Quanto al volatile singolare che si offriva adesso al mio sguardo, non ho esitato a riconoscerlo. Si trattava di un cigno nero australiano, che faceva parte di una coppia importata e immessa nel lago tempo addietro. Essi nuotavano alquanto discosti dai cigni bianchi, e attendibilmente soffrivano a causa del clima differente dal loro originario. Mia madre aveva preso a ben volerli e li aveva abituati a venire a beccare del cibo dalle sue mani. Parlava loro a lungo sottovoce in ròmani, la lingua degli zingari che ormai conoscono in pochi, e quelli sembravano ascoltarla attenti. Mentre era intenta a tale operazione, un giorno mi aveva chiesto che cosa pensassi della reincarnazione. Le avevo risposto sorridendo che, anche se ci avessi creduto, non sarebbe cambiato molto, dal momento che – per quello che potevo intuire – non si serba memoria delle vite precedenti.

– Tu scrivi troppo – aveva replicato lei, mostrandosi quasi indispettita – Se ti fossi dedicato a dipingere o a suonare uno strumento, la tua sensibilità sarebbe probabilmente diversa. La realtà è simile alla superficie di questo lago, e ricordare è come fare l'amore quando si è innamorati. Allora si ripesca indietro di generazione in generazione, fino a toccare il fondo da cui scaturisce una nuova vita. La memoria è altro da un'agenda su cui registrare i propri ricordi individuali. La verità è che non siamo nemmeno noi a ricordare. Ma io non ho più desiderio di reincarnarmi in una persona. Sento di aver vissuto abbastanza vite umane. Se dovessi rinascere, preferirei essere uno di questi cigni. Essi sanno immergersi o levarsi in volo a loro piacimento, senza alcuno sforzo, e sono molto più vicini all'anima dell'universo di quanto possiamo immaginare.

 

* * *

 

La confidenza che mia madre aveva un po' con tutti gli animali, e la capacità di comunicare con loro, era in effetti sorprendente. Popolate da animali, per lo più parlanti, erano le numerose fiabe che conosceva e che mi raccontava nella mia infanzia. Questa è non ultima, credo, fra le cause della mia inguaribile tendenza a fantasticare e a scrivere narrando. Generalmente, tali fiabe avevano un significato riposto e imprevedibile. Diciamo che ella viveva la realtà come una grande fiaba, con tutte le sue meraviglie e le sue insidie. Sovente essa le rivelava il suo senso nei sogni, anziché il contrario. Questa è un'altra differenza di spicco con i gagé. Troppo spesso essi si dimenticano non solo della propria ombra, ma anche dei loro sogni, ammesso che ci tengano a ricordarli. Per mia madre tale processo era perfettamente naturale, e – per così dire – osmotico. In realtà, lei non ha mai cessato di raccontarmi delle fiabe.

Una delle ultime volte che sono stato a trovarla, ho assistito a una scenetta che ha dell'inverosimile. Eravamo sempre sulla sponda del lago, in un punto dove i rami degli alberi si protendono abbassandosi fino sull'acqua. Lei si sporgeva a spargere delle molliche sulla superficie. I pesci affioravano a catturarle rapidi con la bocca, mentre dei topolini correvano su e giù lungo i rami a contenderle in una singolare gara di destrezza. Giurerei di aver visto un grosso pesce mordere la zampetta di un topolino tesa verso le molliche che galleggiavano. Quest'ultimo ha perso l'equilibrio ed è rimasto pericolosamente aggrappato, ondeggiando appeso per un attimo alla cima del suo ramo, prima che mia madre lo aiutasse con la punta di un rametto a tirarsi su.

– Non sono topolini come tanti, – ha commentato lei, ridendo come una bambina – ma anime di gagé malvagi reincarnate. Quelli buoni si reincarnano normalmente in noi zingari. Se il nostro popolo dovesse estinguersi, le porte del cielo rischierebbero di chiudersi, e l'accesso dell'umanità vi diverrebbe estremamente difficile.

Accortasi che la guardavo tra il divertito e lo sconcertato, – Non è che una favola – lei ha spiegato – Ma le favole stanno alla mentalità della gente come i sogni alle singole persone. Ho sentito dire che esiste uno strano tempio in una città dell'India, dedicato alla dea. Vi abitano centinaia di topi, consacrati alla divinità, che scorrazzano liberi e mansueti. I fedeli stanno ben attenti a non fare loro alcun male. Anzi, li nutrono e li accudiscono pulendo il pavimento di marmo delle grandi sale, mentre nei bracieri bruciano offerte di sandalo e d'incenso, davanti alla statua imponente della dea tra le alte colonne. Ebbene, l'altra notte ho sognato che camminavo scalza su quel pavimento a scacchi bianchi e neri, senza alcun timore delle repellenti bestiole, che mi seguivano aspettando che dessi loro qualcosa da mangiare. Una, più audace delle altre, è perfino salita a prendere del cibo sulla mia mano. Mi sono accorta che si trattava di una femmina incinta, e che il suo piccolo ventre palpitava di vita. Ma ecco un falco piombare giù dal soffitto aperto verso il cielo azzurro, avventandosi sulla topolina per ghermirla con gli artigli. Io l'ho difesa come potevo contro il rapace, che non accennava a desistere dal suo intento. Quando stavamo per essere sopraffatti, la dea stessa si è animata scendendo dal suo podio, ed è venuta in nostro soccorso. Ha preso delicatamente la topolina fra le sue mani e l'ha portata in salvo con sé. Il falco è volato via come e da dove era venuto. Il pericolo sembrava scongiurato, grazie all'intervento miracoloso. Ma io mi sono resa conto di sanguinare da varie ferite, prodotte dal rostro dell'uccello. Ero caduta per terra senza riuscire a rialzarmi né a muovermi. Per la prima volta ho avuto paura che tutti quegli animaletti, che mi circondavano e mi fissavano coi loro occhietti dallo sguardo aguzzo, si rivoltassero contro di me. Pure, io li avevo appena nutriti e protetti. Ho fatto per invocare aiuto, ma la dea era tornata di pietra sul suo piedistallo. Mi sono svegliata, con in mente l'idea bizzarra che Kalì non mi avesse mai perdonato di aver sposato un gagio. L'impressione di quel cattivo presagio è rimasta presente a lungo nel mio cuore.

Maman doveva essere già al corrente del male incurabile da cui era affetta. Ho preso una sua mano nella mia, e le ho sussurrato per rasserenarla: – Io so che tu sei una hexe. Se realmente lo volessi, sono sicuro che potresti sfidare qualsiasi presagio, perfino l'indifferenza o il volere degli dei.

Lei è tornata a sorridere, e ha risposto: – E' vero, mon chéri. Forse, come tu dici, io posso arrivare a contrastare la morte. Ma, anche volendo, potrei ben poco contro la forza della vita, che ci incalza e tende a sommergerci.

Il sole era basso al tramonto. L'ombra di mia madre era incredibilmente lunga dietro le sue spalle, prossima a fondersi con quella avvolgente della sera. Poco distante davanti a noi, un luccio ha spiccato un salto fuori dall'acqua, ed è subito ricaduto tuffandosi in mezzo a un pulviscolo di spruzzi iridescenti.

– A meno che – ha aggiunto lei sottovoce, ben sapendo che la mia metà gagio fin qui non l'avrebbe seguita, – non mi riesca finalmente di spezzare la catena delle esistenze, e di evadere dalla ruota delle rinascite...

 

* * *

 

Usciti all'aperto, mia sorella mi ha consegnato una busta grande da lettera, con dentro un quaderno dalla copertina scura e dai fogli a righe, coperti da una calligrafia minuta. Ho riconosciuto la scrittura di mia madre. Si trattava di poesie e di trascrizioni di canti: le poche cose che evidentemente aveva ritenuto che valesse la pena di mettere per iscritto, trasgredendo alla sua tradizione e convinzione. Ho estratto dal fondo della busta qualcos'altro di solido, che non avrei immaginato. Era l'orecchino con l'effigie di Kalì, la Nera.

– Così ha voluto lei – ha specificato mia sorella, con gli occhi ancora lucidi di pianto, e una punta malcelata di gelosia: – Vi intendevate bene, voi due, benché vi vedeste di rado negli ultimi tempi. Può succedere a volte di idealizzarsi, a distanza.

In effetti, non è che nostra madre avesse un carattere tanto facile; né mia sorella è da meno. Ella le aveva messo nome Maria, in onore della Madonna Nera di Czestochowa, in Polonia. Non è difficile indovinare come la prima fosse conoscitrice e a suo modo devota delle numerose immagini miracolose di Vergini nere, sparse un po' per tutta l'Europa. A una di queste, Notre Dame du Vassiviére, a Puyède-Dome in Francia, riferiva che venisse perfino attribuito il potere di resuscitare i neonati deceduti prima di poter ricevere il battesimo. Ma nel caso del nome di mia sorella il riferimento era espressamente motivato dal desiderio di far piacere a nostro padre, che era appunto polacco. Credo tuttavia che quest'ultima non avesse mai saputo perdonarle di essersi allontanata da lui, inspiegabilmente, quando noi eravamo già adulti e nessuno se lo sarebbe aspettato; e che adesso ne provasse un certo rimorso. In proposito, mi è tornata in mente un'altra mezza confidenza che nostra madre mi aveva fatto, senza venir meno al vezzo congeniale del suo linguaggio allusivo.

– Tuo padre – aveva detto, fissando con lo sguardo la coppia di cigni neri sull'acqua del lago – era una persona coraggiosa, generosa e paziente. Io ne sono stata sempre innamorata. Ma egli in fondo era rimasto un militare e un uomo d'ordine, coerente custode del dharma della sua gente. I nostri rispettivi karma erano effettivamente troppo diversi. Noi eravamo come un cigno bianco e uno nero. Una volta o più ti ho narrato di una dea indiana, che noi zingari continuiamo a venerare sotto mutate spoglie, magari chiamando ancora noi stessi kalò o kalì e pensando di alludere soltanto al colore della nostra pelle. Ma questo è un dettaglio secondario. Ciò che ho tralasciato di dirti, e che forse avrai saputo in seguito, è che quella dea oggi perfino in India è stata relegata a protettrice dei cimiteri e delle prostitute, quasi oggetto da rimuovere di un culto degenerato e barbaro. In larga misura, tale degenerazione è riflesso della denigrazione instillata dalla mentalità occidentale moderna. Una sorte del genere sta toccando al mio popolo qui fra noi: non più massacrato, ma sempre più emarginato e inesorabilmente defraudato della sua identità. Ebbene, tutta questa storia non sarebbe piaciuta a tuo padre, né avrebbe fatto nulla per capirla, giudicandola tutt'al più astrusa. Ma per me quella dea rappresenta un senso importante della vita, e una particolare percezione della morte. Avvicinandomi a quest'ultima, mi sono trovata semplicemente in condizione di dover scegliere di ricongiungermi al mio proprio karma, cui nessuno si può sottrarre, pena il rischio di una cattiva rinascita.

Prima di ripartire, sono ripassato dall'obitorio per gettare un ultimo sguardo e rivolgere un saluto al corpo inerte di mia madre. L'ho trovato già chiuso ermeticamente in una cassa di legno zincato. La piccola dea era definitivamente decaduta, o, magari, era stata assunta finalmente in un luogo dove la musica e la danza siano le uniche realtà che contano: una specie di paradiso degli zingari. Una volta di più, tuttavia, è riaffiorato con forza alla mia memoria un ricordo infantile, della cerimonia di Saintes-Maries-de-la-Mer. Al termine della processione, sulla spiaggia, mia madre e io ci eravamo immersi insieme agli altri fino al petto nell'acqua del mare, come ancora oggi usano gli indù in quella del sacro fiume Gange.

Mon chéri, – lei aveva sussurrato, con voce che non tradiva alcuna emozione, ma stringendomi forte la mano con la sua, – io non ci sarò sempre. Non in questa forma, che tu puoi toccare e sentire. Noi siamo di passaggio su questa terra, ma apparteniamo al fuoco, all'acqua e all'aria. Ricorda: quando non ci sarò più, voglio che le mie ceneri vengano sparse nel vento e ricadano sulla corrente, che le riporti prima o poi fino all'oceano.

Dopo essermi assicurato che fosse rispettata questa sua vecchia volontà, e che la sua spoglia venisse cremata, sono sceso fino all'imbarcadero, per soddisfare una mia ingenua ma insopprimibile curiosità. Ho domandato al guardiano se sapeva che fine avesse fatto uno dei due cigni neri: se per caso non fosse morto. Quello mi ha risposto di no, e ha spiegato che anzi era volato via.

– Eppure, di solito tarpiamo loro le ali per impedirglielo – ha aggiunto il barcaiolo – Sono bestie strane ed esotiche. Però non deve essere andato lontano, e forse tornerà a cercare il suo compagno. E' tutta colpa di una anziana zingara. Veniva qui quasi ogni giorno. Tanto ha fatto con le sue arti, che alla fine è riuscita a farlo fuggire. Ma l'altra sera l'abbiamo ripescata non lontano da qui, dalla parte del bosco. Un malore, hanno detto. Secondo me, l'anima nera di quella vecchia strega sarà volata via insieme al cigno.

L'uomo era esattamente di spalle al lago. Sarebbe stato fin troppo facile colpirlo alla mascella e scaraventarlo in acqua. Ma non ho fatto niente di questo.

– Già, deve essere proprio così – ho risposto invece, ricacciando indietro il primo impulso. Sono andato a sedermi all'estremo dell'esile molo in legno, e ho letto a caso questi semplici versi sulle pagine ingiallite che mia madre mi aveva lasciato:

 

Le piogge mi hanno deterso le lacrime;

il sole, aureo padre degli Zingari,

mi ha riscaldato il corpo

e abbronzato l'anima.

 

E la luna argentata,

madre degli avi venuti dall'India,

ci dà la sua luce:

illumina la zingara, nella tenda,

perché fasci bene il suo piccolo.

 

Ovunque io vada, ovunque io sia,

la luna suona il flauto...

Shiva lancia strani richiami...

Io m'inchino alla protezione di Shiva

che possiede il segno della mia vita...

 

Canterò la contrada che fu mia un tempo,

canterò la vallata sotto il segno di Osiride,

vallata sconosciuta fra le sue torce bianche.

Sono passati ormai millenni, ricordo...

 

* * *

 

E' stato sulla via del ritorno, non molto lontano da Lione. Una macchia d'olio sull'asfalto. La moto ha slittato a lungo, prima di andare a schiantarsi contro il guardrail. Io sono stato sbalzato da una parte. Mi sono rialzato tutto indolenzito e mezzo stordito, fortunosamente pressoché illeso. Il casco deve aver contribuito a ripararmi da traumi ben più gravi. Ho guadagnato il margine esterno della corsia, barcollando in mezzo alle auto, che seguitavano a sfrecciare o provavano a frenare sbandando. Ho raggiunto la più vicina stazione di servizio e ho mandato a prendere la moto. Il danno è stato ingente, ma minore di quanto fosse prevedibile.

– Le è andata bene, in tutti sensi – ha detto il meccanico, pulendosi le mani nere di grasso con uno straccio, – Lei deve avere qualche santo lassù che la protegge. Giusto il tempo di ricevere un pezzo di ricambio dal paese, e potrà proseguire tranquillamente fino a destinazione.

– Prendiamola così, alla men peggio – ho risposto io, recependo la battuta per quel tanto di filosofia spicciola che conteneva.

Mi sono seduto sul bordo dello spiazzo a riposare e a riflettere un po'. Era l'ora del pranzo. Lo spazio di fronte a me era ingombro di pesanti camion lasciati in sosta. Alle mie spalle la campagna si stendeva piatta a perdita d'occhio, intersecata da una sequenza di tralicci metallici e dal terrapieno della ferrovia, che tracciavano incrociandosi una specie di grande "X" dai bracci protesi fino all'orizzonte. Il cielo era coperto da nubi grige e basse, senza un soffio di vento. In effetti, non c'era di che stare allegri. Prima, l'abbandono da parte di Geneviéve. Poi, la scomparsa improvvisa di mia madre. Non ci mancava che questo incidente. Per una somma di motivi e di circostanze, qualcosa nel mio rapporto con la realtà pareva essersi incrinato, e che il mondo si fosse rivelato estraneo se non ostile.

Sono stato interrotto dall'apparizione di una visuale insolita e dal suono di una voce femminile, con l'accento marcatamente esotico. Due gambe ben tornite e dal colorito scuro mi si stagliavano davanti, infilate in un paio di stivali in pelle chiara, fasciate più su da una corta gonna rossa. Una mano era poggiata su un fianco, all'altezza dell'anca.

– Va tutto bene? – ha ripetuto la voce, con l'intonazione di chi stesse recitando un provino per un film di terz'ordine.

– E a te? – ho chiesto a mia volta in maniera elusiva, sollevando lo sguardo fino a incontrare quello della mia interlocutrice. I suoi occhi erano grandi e luminosi, il viso incorniciato da una massa di capelli ricci e neri.

– Potrebbe andare meglio. Ma non posso lamentarmi – lei ha risposto – Servirebbe a qualcosa?

Mi sono sforzato di abbozzare un sorriso e le ho riferito dell'incidente. Quando ho fatto per alzarmi, ho accusato un dolore a un fianco, che mi ha costretto a zoppicare.

– Fammi dare una occhiata – ha detto lei – Io me ne intendo abbastanza.

L'idea in fondo non mi dispiaceva. Abbiamo mangiato qualcosa al ristorante self-service e siamo saliti in una camera del motel vicino. L'autostrada passava proprio sotto di noi, come ad un ponte. Attraverso il cristallo della finestra, si poteva scorgere il flusso discontinuo del traffico degli automezzi. Il rumore ne giungeva attutito, come se provenisse da ben più lontano. Quel luogo sospeso sembrava architettato per dare l'impressione di essere remoto dal mondo, pur affacciando su esso. Mi sono sdraiato sul letto e ho scoperto la parte del mio corpo contusa e dolorante. Cléo – così aveva detto di chiamarsi, ma si sarà trattato certo di un nomignolo – ha preso a massaggiare esercitando una lieve pressione delle mani, con un movimento sensuale delle dita. A poco a poco, il dolore è regredito fin quasi a sparire. Lei ha tirato fuori un piccolo involucro dallo slip e lo ha aperto. Ne ha preso un pizzico di "erba", lo ha manipolato e lo ha avvolto in una sigaretta. La ha accesa e me l'ha offerta, dopo aver aspirato leggermente. Ho tirato qualche boccata e gliela ho resa. Mi sono trovato presto a essere completamente rilassato. Ho cercato nella borsa il lettore da walkman, l'ho poggiato a fianco a noi, vi ho introdotto una audiocassetta e l'ho acceso, tenendo per me un auricolare e porgendo l'altro alla mia compagna occasionale. Abbiamo fatto l'amore più volte, assecondando il ritmo della musica e assumendo varie posizioni.

Da ultimo, il suo corpo era seduto ed eretto a metà sopra il mio, con il mio sesso ancora dentro il suo. I seni turgidi erano a poca distanza dalle mie labbra. Non ho potuto fare a meno di restare incantato ad ammirarlo, così scuro e modellato dalla luce che penetrava lateralmente dalla finestra. A un tratto, lei ha inclinato il capo da un lato, alzando un braccio e portando le dita della mano fra i capelli. Nel sollevarli, ha scoperto senza volerlo un particolare cui stranamente non avevo fatto caso in precedenza, e che anche adesso ho stentato a mettere a fuoco con sorpresa. Più probabilmente, la mia attenzione ne era stata inconsciamente e irresistibilmente attratta, fin dal primo momento in cui avevo visto in volto la giovane prostituta.

– Dove hai preso quell'orecchino? – ho esclamato. Cléo mi ha guardato a sua volta meravigliata, come se non avesse inteso bene. Ho tolto gli auricolari dalle nostre orecchie, interrompendo il flusso della musica, e sono tornato a porle la domanda.

– L'ho comprato a Marsiglia, in un vecchio negozietto di oggetti orientali. Mi è piaciuto subito, appena l'ho visto in un angolo della vetrina – ha risposto lei: quasi che fosse, e attendibilmente doveva esserlo, la cosa più ovvia di questo mondo.

Ho teso un braccio verso il giaccone appeso alla spalliera della sedia vicina. Ho infilato la mano nella tasca interna e ne ho estratto il pendente che era appartenuto a mia madre, per confrontarlo con l'altro. Erano in tutto identici, tranne che per alcuni particolari anatomici raffigurati. Era evidente che il cerchio che risplendeva attaccato all'orecchio di Cléo conteneva l'immagine stilizzata di Shiva, ovvero Kala: l'aspetto maschile di Kalì. Ho fatto allora un gesto spontaneo, obbedendo a un impulso profondo. Ho sollevato il gioiello e l'ho agganciato delicatamente all'orecchio sguarnito della ragazza di colore, perché fosse ricongiunto al suo compagno. Mentre lei si chinava verso di me, i pendenti hanno oscillato bilanciandosi come per trovare l'equilibrio, e hanno ruotato leggermente su se stessi, mostrando frontalmente le effigi in oro delle due divinità gemelle. In un attimo, Cléo si è trasfigurata e ha assunto davanti ai miei occhi spalancati le fattezze di un grande e flessuoso cigno nero, che mi fissava con aria familiare ed ironica allo stesso tempo. Per quanto, beninteso, possa esserlo l'espressione di un volatile così enigmatico ed esotico.

 

* * *

 

Mi sono svegliato da un sonno profondo, e da un sogno in cui l'immagine del cigno era ridimensionata e reinserita nel suo ambiente naturale. Vi si sovrapponevano alcune lettere di un alfabeto a me ignoto, come nella vignetta di un rebus insolubile. Nello stesso tempo, la scrittura di mia madre fluttuava attraverso l'acqua, emergendo alla superficie del lago. Era già sera, e mi sono guardato intorno. Cléo non c'era più, e con lei era svanita ogni possibile allucinazione. Ha trillato il citofono della camera.

– La sua moto: – ha detto una voce impersonale, – il meccanico ha lasciato le chiavi e mi ha incaricato di riferirle che è pronta. Può regolare con me direttamente, se desidera ripartire subito.

– La signorina che era con lei – ha aggiunto il portiere di notte, dopo una pausa – mi ha dato un pacchetto da consegnarle.

Sono sceso di corsa nella hall e per prima cosa mi sono affacciato sullo spiazzo fuori dell'ingresso del motel. I radi lampioni illuminati riverberavano riflettendosi nell'asfalto bagnato di pioggia, suscitando una illusione ottica di profondità e un vago senso di vertigine. Di Cleò, nessuna traccia. Sono tornato verso la reception e ho chiesto al portiere se sapeva dove fosse andata la ragazza. L'uomo mi ha osservato per un istante interdetto e incuriosito.

– E' salita su un autotreno di passaggio – ha detto poi, con un tono confidenziale – Ma non credo che tornerà. Qui non s'era mai vista prima. E sì che l'avrei notata.

Sono risalito nella stanza e mi sono deciso a sciogliere il nastro rosso con cui era legato il pacchetto, non senza una puerile apprensione. Era che mi ero ricordato di un particolare del mito che mia madre mi aveva raccontato da bambino: di come la dea vendicativa, soggetta a raptus sanguinari, fosse solita strangolare i suoi nemici o le sue vittime-amanti con un laccio rosso. Ho sorriso tra me e me, non appena ho scorto ciò che c'era dentro e che era in parte intuibile. Inoltre, c'era un biglietto con sopra poche righe scritte in fretta e con una grafia confusa, seguite da una firma che ho fatto fatica a decifrare: "Mon chéri, ti ringrazio per il pensiero. Ma è meglio che li tenga tu e li conservi entrambi, o li regali, se lo desideri, a chi possano giovare. Essi rappresentano due componenti inscindibili del nostro karma. A lungo andare, la loro separazione non può che generare senso di perdita, deformità e sofferenza. La Nera".

Questa volta, sono stato percorso da un brivido lungo la schiena. Ho provato a farmene una spiegazione logica. Ho supposto di essermi lasciato andare a delle confidenze e di non riuscire ora a rammentarmene, nello stato di confusione e di alterazione in cui dovevo essere caduto, principalmente a causa dello stress e a seguito dello shock dell'incidente. Ho riletto il messaggio più volte, perplesso. Il linguaggio sembrava effettivamente quello che avrebbe potuto usare mia madre. La giovane sconosciuta poteva però benissimo essere una seguace dello stesso culto di cui lei era stata depositaria, per una coincidenza neanche troppo curiosa. Del resto, lo stesso nome Cléo richiamava alla lontana per assonanza quello di Kalì, creando un ulteriore elemento di suggestione. Visto sotto questa luce, l'episodio assumeva la dimensione di uno scherzo in ultima analisi un po' morboso. Ma, tutto ciò aveva davvero importanza? Presto è subentrato in me l'effetto di una grande calma e di una sensazione diffusa di benessere, come se avessi ritrovato la coesione e il mio centro interiori.

Ho spento la lampada e mi sono accostato alla finestra. Il televisore, rimasto acceso alle mie spalle, trasmetteva le scene in sequenza di un videoclip musicale, che si riflettevano nel vetro davanti a me. Dal lettore da walkman fluiva piano la musica del vecchio raga di Ravi Shankar. Il mio io era come immerso nel centro del suono, penetrato negli spazi fra le note, nelle lunghe pause dove indugia il silenzio. In cielo era apparsa la luna piena, tra le nubi appena orlate di luce. Di sotto, la corrente del traffico si era diradata, riducendosi a una intermittenza di traiettorie di fari, accesi nell'oscurità. Era come se Shiva, il grande incantatore, avesse cessato di suonare il suo magico flauto, lasciando che il mondo procedesse per forza d'inerzia, e si fosse assopito come un cigno, che galleggi con il lungo collo ripiegato all'indietro e il capo poggiato fra le piume del dorso. E come se Kalì la ballerina, la nostra stessa mente, avesse sospeso la sua danza vorticosa attorno al fuoco. La fiamma aveva terminato di agitarsi, fin quasi a estinguersi sotto la cenere. Ogni scrittura si è dissolta ed è stata riassorbita dal suo suono, e il suono è rientrato nel silenzio. Il silenzio della lingua madre dimenticata, ma attiva e operante fin da prima di ogni scrittura. E la sua essenza è tornata a manifestarsi quale Kundalini: pura, vacua, luminosa energia cosmica.

Sono riaffiorati infine nella mia mente questi altri versi, che avevo letto sempre nel quaderno di mia madre:

 

Ah, i vostri piccoli fiumi, i vostri piccoli nulla.

La felicità per ridere, nel cavo delle mani,

i vostri pallidi amori, le brevi domeniche,

i frutti concessi, appesi ai rami,

i carretti delle quattro stagioni

dei vostri piccoli mercanti di gloria.

 

E la ragione, ah, la ragione!

Credete di vivere e tutto sapere,

ma i vostri giorni sono nulla e nere le vostre luci.

Il vostro sole è un gioco di bimbi.

 

Ascoltate, ascoltate: appartengo alla razza

che rubava il pensiero, frenava l'Oceano.

Ne resterò esausta e sfregiata in volto,

eppure io preferisco a queste vostre gioie

un ricordo terribile e folle che è mio soltanto.

 

* * *

 

Contrariamente a ogni aspettativa, al mio ritorno a casa – in un sobborgo di Parigi – ho trovato Geneviève. Appena pochi giorni prima, ne sarei stato semplicemente felice. Adesso, ho provato soprattutto sorpresa. Era seduta su una poltrona in soggiorno. La lampada dal paralume basso sul tavolino ne illuminava la figura, lasciandole il viso in ombra. L'ho salutata e le ho chiesto come stava, senza ricevere una risposta esauriente. Mi sono seduto di fronte a lei, ho versato da bere in due bicchieri. Le ho raccontato del viaggio, senza tralasciare i particolari. Lì per lì, non ho captato reazioni di rilievo da parte sua. Ho dedotto che fosse ancora troppo presa dalla soluzione dei suoi problemi, per potersi interessare alle mie storie. Soltanto, si è sporta in avanti, lasciando che la lampada la illuminasse per intero. La sua espressione mi è apparsa ancora sofferente, ma specialmente più matura. Come se, durante la sua assenza, avessimo avuto modo entrambi di riflettere e di crescere interiormente. Nello stesso tempo mi sono reso conto, quasi la vedessi per la prima volta, di quanto ella sia diversa dalle figure di donna a me familiari. Dalla carnagione così chiara, con i capelli biondi e gli occhi azzurri. Si potrebbe in effetti paragonare a un cigno bianco, piuttosto che a uno nero.

Nonostante le apparenze, c'è in fondo un particolare punto di contatto – più una coincidenza, che una analogia – fra le nostre personalità. Geneviève è ebrea, per parte di madre. Più che per altre creature, la nascita di entrambi è stata esposta a un pericolo – in questo caso, ben poco naturale – di annientamento, a monte delle nostre stesse esistenze. L'ombra di quella minaccia si protende ancora fino a noi: quasi che essa sia penetrata oltre la superficie di uno specchio, là dove le altre ombre di solito deflettono.

– Prova a toccarmi – ha detto lei a un tratto, avvicinandosi e guardandomi fisso negli occhi, – Io non sono una allucinazione, né un fantasma. Mi intendo poco o niente di magia. Avrò letto sì e no qualche volta l'oroscopo sul giornale, come la maggior parte della gente, senza darvi troppo peso. Ma so di essere reale e viva. Guardami bene in viso. Si cominciano a notare le prime piccole rughe, proprio qui, agli angoli esterni degli occhi. Tu, puoi continuare a scrivere finché ne avrai voglia e l'ispirazione. Io, non posso seguitare a fare la cover-girl per tutta la vita...

– Che cos'è, esattamente, che desideri? – l'ho interrotta a mia volta, un po' bruscamente, – Cosa ti aspetti, da uno zingaro integrato come me?

Lei si è alzata in piedi, camminando nervosamente in giro per la stanza.

– Avresti potuto già capirlo, se non fossi perennemente distratto da altro – ha risposto, torcendosi le dita delle mani – Non voglio che la mia immagine sfiorisca del tutto, prima di poter piacere a qualcuno, che non stia sempre e solo a rapportarla alla foto sulla copertina di una rivista, o in qualche réclame di prodotti di bellezza.

Nel dire ciò, Geneviève si è arrestata davanti allo specchio da parete. La sua immagine riflessa in primo piano era indubbiamente reale, ma senza profondità né riverbero, così staccata dallo sfondo inanimato degli oggetti alle sue spalle. Per l'ultima volta, mi è venuto spontaneo confrontare mentalmente con certe parole di mia madre, che avevo giudicato eccentriche o anche banali quando le avevo udite.

– I gagé, – ella aveva detto, precisamente – è come se non abbiano ombra. Essi sono talmente abituati a preoccuparsi della propria anima, anche quando non ci credono, che si dimenticano di avere un'ombra. Finché questa non diventa estranea e ostile, rivoltandosi contro di loro.

Tuttavia, ho avuto l'impressione che lo sfondo al di là della superficie riflettente fosse in una sorta di stato di attesa. Quasi in grado di incresparsi fluttuando e di produrre una nuova presenza, se solo qualcuno avesse saputo tendere una mano attraverso lo specchio. Una presenza dai contorni sfumati e incerti, ma inequivocabilmente infantili. Geneviève è tornata a voltarsi verso di me. I lineamenti del suo bel viso erano tirati, come di chi si sforzi di dominare una crisi di pianto. Sono andato allora alla scrivania e ho frugato nei cassetti, alla ricerca di un vecchio astuccio, foderato di velluto nero. Vi ho adagiato gli orecchini, che avevo riportato dal mio viaggio, e ho fatto il gesto di donarglieli. Lei ci ha pensato su per un attimo, quasi soppesando i pro e i contro dell'offerta. Poi, ha finito per accettarli, mentre le sue pupille si dilatavano vertiginosamente.

 

* * *

 

Quasi mi dimenticavo di Sinto, il cagnolino di mia madre. E' un cane zingaro: un mezzo volpino dal pelo lungo a chiazze bianche e nere, discendente diretto di quelli che si esibivano un tempo nei circhi o sulle piazze dei villaggi. Ha un'espressione vivace e buffa, a volte un po' malinconica, da Pierrot. Sa fare una quantità di giochi che mia madre gli ha insegnato, con la sua pazienza e esperienza di ammaestramento di animali. Sinto è il nome che nella lingua zingaresca si dava agli zingari "giostrari", domatori di cavalli e di altri animali, i quali si tramandavano con orgoglio una tradizione ritenuta fra le più nobili e antiche di questo popolo disperso. Si è presentato alla porta di casa facendo le feste e abbaiando in falsetto, ritto sulle zampe posteriori e con quelle davanti sollevate e unite, come per riscuotere un applauso o per esigere una meritata ricompensa. Era tenuto al guinzaglio dall'autista di uno spedizioniere, che mi ha consegnato una lettera da parte di mia sorella. C'erano scritte poche righe: "Mon chéri, tu sai che attualmente abito con i miei bambini in un condominio, in un piccolo appartamento, senza giardino né terrazzo. Mi dispiace molto, ma non posso proprio tenerlo. Spero che almeno tu ne abbia cura, in ricordo di maman, e che ti porti fortuna. Un abbraccio a te e un saluto a Geneviève, se ancora state insieme, come vi auguro. Marie".

Adesso, se ne sta tranquillo in un angolo della stanza. Mi scruta mentre digito la tastiera, seduto di fronte al mio personal computer. Le parole affiorano una dopo l'altra in silenzio, allineandosi illuminate nel monitor, come per un gioco di prestigio. Più che di meraviglia, Sinto ha un'aria di commiserazione: come se non approvi questi scheletri fatti di segni senza suono e senza odore, che per lui evidentemente non hanno alcuna identità né senso. Accortosi che lo osservo, anzi si alza e viene vicino alla sedia, scodinzolando leggermente.

– Sono sempre io – pare che dica, con lo sguardo – Sono il devel degli zingari, o, se preferisci, le bon diable dei gagé. E' vero: sono un dio illetterato e anche capriccioso, ma sono pur sempre un dio. Soprattutto, sono presente e autentico. Io non ho bisogno di scrivere, tanto meno servendomi di un computer. Lascio che scrivano gli altri, se proprio ne hanno tempo e voglia. Tutt'al più, mi prendo la pena di ispirarli...

Detto questo con sussiego, Sinto depone sul pavimento la zampetta che teneva poggiata nella mia mano, e torna ad accucciarsi nel suo cantuccio. Il piccolo diavolo si addormenta beato, sul tappeto buono di Geneviève. A un tratto, solleva appena il capo e digrigna debolmente i denti, come per difendere un ricordo che è suo soltanto. Poi, lo lascia ricadere giù in un sonno profondo, presumibilmente senza sogni. Io torno a concentrarmi sul mio lavoro. Ma c'è qualcosa che non va. L'ora è tarda, e sono ormai stanco. I caratteri si appannano e si confondono alla mia vista. Quello che uso, è un buon programma di videoscrittura. Pure, distraendomi, devo aver commesso un errore di compilazione, o ignorato un avvertimento apparso nello schermo. Così, il file si è "impallato", come si dice in gergo. Invece di scorrere, l'ultimo blocco di scrittura si avvita su se stesso in un circolo vizioso, impedendomi di continuare.

E' strano come questo congegno assecondi i processi della nostra mente, imitandoli specularmente, ma finisca per rifletterne i vizi nascosti e metterne in luce le possibili ossessioni, a volte perfino esasperandole. Non mi resta che salvare il salvabile, spegnere e concludere a penna, dal momento che la mia vecchia macchina da scrivere deve essere portata da tempo a riparare. Ciò che rimane è tutto qui in un dischetto: labile al punto, che uno sbaglio o una trascuratezza può comprometterlo definitivamente. Quanto ai racconti che vi troverete pure iscritti, si tratta di altre storie che il magico Sinto ha trovato il modo di trasmettermi in sogno, con la sua fantasia visionaria e con i suoi mezzi di comunicazione tutti particolari. Protagonisti animali, oggetti, fantasmi e perfino esseri umani. Fra gli argomenti, non mancano nemmeno ricordi delle sue vite precedenti, o confidenze di cani altrettanto filosofi e randagi.

E' ancora lui ad assicurarmelo. Né c'è un motivo davvero ragionevole per dubitarne. Del resto, a pensarci bene, non pare meno irragionevole credere di poter suscitare la scrittura dall'al di là dello specchio, di poterla fissare e trattenere sulla sua superficie, magari per sempre. Quasi che si tratti dell'ombra di una scrittura originaria. E' una vecchia ingenuità e ambizione di noi gagé. Forse, è questa la nostra vera condanna e incorreggibile illusione.

 

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* Pubblicato nel volume di racconti Alice cibernetica, Synergon, Bologna 1992

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