Pino Blasone
Sillogistica figurata
Logica occidentale e orientale a confronto
Socrate, l’umanità, la mortalità
Ragionevolmente, la logica dovrebbe essere una e universale. Altrimenti, “a rigor di logica”, non potrebbe dirsi tale in senso stretto. Sarebbe peraltro impossibile intendersi tra culture diverse, cosa già di per sé non sempre facile. Sussistono però angolature differenti, sotto le quali essa può essere interpretata e codificata. Ciò, al punto che ci sentiamo autorizzati a parlare di logiche al plurale. Nella storia del pensiero, prendiamo la logica antica. Per più versi e motivi, la logica aristotelica si differenzia da quella stoica, benché sia sensato sostenere che esse sono conseguenti e complementari fra loro. Se poi confrontiamo la logica greca con quella indiana medievale, la differenza si accentua. Del resto, all’interno di quest’ultima la logica induista differisce non poco da quella di orientamento buddista.
I sillogismi sono il cuore di queste “variazioni su tema”, influenzate dai contesti culturali in cui si sono sviluppate. Il sillogismo per antonomasia è quello aristotelico. Celebre è la presenza del personaggio del filosofo ateniese Socrate, nella enunciazione più nota che ci è pervenuta. Con qualche piccolo aggiustamento qui funzionale, essa suona così: “‘Socrate’ ‘è un uomo’. ‘Un uomo’ ‘è mortale’. ‘Socrate’ ‘è mortale’”. Se si volesse trasporre la sequenza nella forma del modus ponens, il sillogismo stoico per eccellenza, essa suonerebbe più o meno in tal modo: “Se Socrate è un uomo, allora Socrate è mortale. In effetti, Socrate è un uomo. Quindi, Socrate è mortale”. Le somiglianze tra i due tipi di enunciazioni sono evidenti. La differenza principale è che il primo pone in primo piano soggetti e predicati; il secondo, intere proposizioni del discorso, unite da connettori logici.
Passiamo ora alla stessa sequenza inferenziale, calata nella formulazione più tipica del sillogismo indiano. In questo caso, avremmo attendibilmente una enunciazione del genere: “Socrate è mortale. Socrate è un uomo. Socrate è uomo e mortale, così come Aristotele è uomo e mortale, e al contrario di un dio, che non è uomo né mortale. Socrate è un uomo. Socrate è mortale”. Qui la differenza è che il ragionamento è non solo deduttivo ma anche induttivo. Induttivamente, ci si pone il problema della mortalità umana in quanto premessa generale, la quale è data per scontata sia nel sillogismo aristotelico sia nel modus ponens degli stoici. Lo si risolve non tanto attraverso una enumerazione di casi consimili, quanto attraverso l’adduzione di un esempio omologo e di uno opposto. In altri termini, non ci si accontenta di mostrare che un fatto si verifica in presenza di una certa condizione. Ci si preoccupa di mostrare che lo stesso non si verifichi in presenza di una condizione contraria.
La prima conseguenza è che non è facile classificare il sillogismo indiano, né surrogarlo nell’ambito di una logica “predicativa” o di una “proposizionale”, così come in genere rispettivamente per il sillogismo aristotelico e per il modus ponens degli stoici. A maggior ragione, riesce difficile formalizzare il cosiddetto sillogismo indiano in termini algebrici ovvero di logica matematica.[1] Ma questo è un problema soprattutto tecnico che riguarda gli “addetti ai lavori”, cioè i logici di professione. Da un punto di vista filosofico più ampio, altro è il risvolto che interessa. Una volta dato l’assunto da verificare “Socrate è mortale. Socrate è un uomo” (in sanscrito, paksa) e scelto l’esempio consimile positivo “Aristotele è uomo e mortale” (sapaksa), si tratta di individuarne possibilmente uno dissimile negativo (vipaksa): nel nostro caso, appunto, “un dio, non uomo né mortale”.
Per via apofatica, è proprio qui che affiora l’inespresso ed emerge il non-detto, quanto tuttavia latente sia nel sillogismo aristotelico sia nel modus ponens degli stoici. Sempre nel nostro caso, si tratta di concetti quali divinità e immortalità, in quanto opposti a quelli di umanità e mortalità. Con ogni parvenza di logica consequenzialità, dall’essere scaturisce non tanto e solo il non-essere quanto piuttosto un essere-non, che presenti i caratteri di una reversibilità inversa. Traduciamo inoltre il termine paksa. Esso non vuol dire altro che “luogo”, qui s’intende della mente. Esso implica l’esistenza di un luogo consimile, sapaksa, ma anche spesso ipotizza un non-luogo – vipaksa – simmetrico e inversamente speculare. Anzi, è in questi ultimi casi che il pensiero dispiega in pieno le sue potenzialità.
La montagna, la cucina, il lago
In merito a quanto appena esposto, non è indispensabile risalire al precedente del logico indiano buddista Nagarjuna – che Karl Jaspers accostava a Ludwig Wittgenstein –, e al suo famoso “tetralemma” ontologico. Basta leggere il pensatore giapponese moderno Kitaro Nishida, in La logica del luogo e la visione religiosa del mondo, per riscoprire come logica e ontologia siano strettamente collegate, e per incontrare espressioni quali “essere locativo”, “affermazione eppure negazione”, “correlazione inversa”, “identità contraddittoria”. “Con il termine mondo”, afferma Nishida, ampliando l’orizzonte, “vorrei indicare l’assoluto essere locativo, per cui il mondo potrebbe essere chiamato l’assoluto (quando ho discusso di matematica, l’ho chiamato un campo di identità contraddittoria). […] Il vero assoluto include un’assoluta autonegazione, è essere assoluto in quanto negazione-eppure-affermazione e per questo è veramente assoluto”. Il mondo in quanto “essere locativo”, insiste Nishida, è una “identità assolutamente contraddittoria”.[2]
Per noi abituati a privilegiare la dimensione temporale rispetto a quella spaziale, e semmai a relazionare l’essere al tempo, non è facile seguire questo modo di argomentare dialettico, che sembra peraltro violare il principio di non-contraddizione. Ma torniamo al sillogismo indiano (anumana, o avayava), questa volta sia nelle sue formulazioni sia nelle enunciazioni originali. La struttura più antica, nel Nyaya sutra (“Trattato di logica”) di Gautama Aksapada, consta di cinque membri.[3] L’esempio tramandato meglio noto è il seguente: “C’è fuoco su quella montagna (pratijna, tesi). C’è fumo su quella montagna (hetu, denotazione causale). Dove c’è fumo là c’è fuoco, come in una cucina e al contrario che su un lago (udaharana o drstanta, esemplificazione). C’è fumo su quella montagna (upanaya, applicazione). C’è fuoco su quella montagna (nigamana, conclusione)”.
Esiste prevedibilmente una versione ridotta e semplificata della stessa struttura, che la riporta a tre membri come per il sillogismo aristotelico o stoico, privandola di quelli iniziali. In questo caso, è più semplice “tradurre” il sillogismo indiano in uno aristotelico o in un modus ponens. Una formulazione aristotelica approssimativa suonerebbe così: “C’è fumo su quella montagna. Ovunque c’è fumo, c’è fuoco. C’è fuoco su quella montagna”. Né la formulazione stoica sarebbe molto differente: “Se c’è fumo allora c’è fuoco, in qualsiasi luogo. In effetti, c’è fumo su quella montagna. Quindi, c’è fuoco su quella montagna”. Si vede bene che entrambe le formulazioni, per quanto rigorose dal punto di vista deduttivo, risultano alquanto incomplete in quanto traduzioni. Infatti, si è perso l’aspetto induttivo.
E’ altresì da notare una figurazione locativa letterale oltre che mentale, nell’esempio tradizionale addotto. Specialmente nel caso di una struttura tripartita, i logici buddisti – soprattutto Dignaga e Dharmakirti – preferiscono mettere in luce gli elementi logico-locativi cui si è accennato qui sopra: un luogo principale (paksa), un luogo affine (sapaksa) e un luogo antitetico ma complementare (vipaksa) ai fini della tesi da verificare. L’intima coerenza logica (antar-vyapti) viene definita paksa-dharmata, cioè pertinente al luogo in cui si svolge l’evento concatenato da dimostrare (i buddisti sono restii a riconoscere un nesso tra causa ed effetto necessario e universalmente valido). Nel nostro caso esemplare, va da sé che paksa sarebbe la montagna con quanto vi accade o si presume vi accada, sapaksa è la cucina, vipaksa è il lago. Valenza diversa assumono il fuoco, ciò che si intende provare (sadhya), e il fumo, in quanto indizio probante (sadhana). Talora, essi sono detti rispettivamente lingin (“significato”) e linga (“significante”). Sotto il punto di vista analitico, si torna comunque a cinque elementi: paksa, sapaksa, vipaksa, sadhya e sadhana.
Ancor meglio che di uno sfondo ontologico, si può parlare di uno fenomenologico. Dalla fenomenologia e dall’esistenzialismo occidentali moderni, prendiamo in prestito pochi concetti, da potersi confrontare con quelli impiegati dai logici indiani, nel loro declinare le possibilità e le connessioni interne di un “essere locativo”. E’ evidente che l’“esserci” presenta qualche affinità col concetto di paksa, e con i suoi derivati. A ben vedere, non sussiste un esserci che non comporti un “essere-con” cui rapportarsi e che funga da riscontro speculare. Ma si può pure sostenere che ogni esserci è la negazione di una negazione, cioè di qualcosa che è altro da sé, o perfino il suo opposto. In ogni caso, un “essere-altrimenti”. Ciò era già chiaro a Gottfried W. Leibniz, nei suoi Principi della Natura e della Grazia.[4]
Un tentativo di formalizzazione
Proviamo a formalizzare anche noi il sillogismo indiano, in termini di logica matematica. Come per ogni procedimento di natura algebrica, la prima operazione – e forse la più importante – è quella dell’assegnazione di valori a delle variabili simbolicamente espresse. Scomponendo nei loro elementi gli enunciati che formano la sequenza, e utilizzando le categorie messe a punto dai logici indiani, possiamo procedere come segue.
a = “su quella montagna” (paksa)
b = “in una cucina” (sapaksa)
c = “su un lago” (vipaksa)
F = “c’è fumo” (sadhana)
G = “c’è fuoco” (sadhya)
L’operazione può sembrare compiuta. In effetti, da un’analisi più attenta emerge un altro elemento rilevante. Per il suo carattere generale e indefinito, associamolo a una “x”:
x = “in qualsiasi luogo”
A partire da una parziale assegnazione di tale tipo, la prima notazione vera e propria è quella di Stanislaw Schayer, in Sul metodo di ricerca nel Nyaya (1933).[5] Il tentativo del logico polacco è ancor oggi abbastanza attuale, malgrado certe critiche che a esso sono state rivolte o si possono rivolgere (si tenga presente che il simbolo “®” denota implicazione):
Ga [C’è fuoco su quella montagna];
Fa [C’è fumo su quella montagna];
(x)(Fx ® Gx) [In qualsiasi luogo, se c’è fumo allora c’è fuoco];
Fa ® Ga [Se c’è fumo, allora c’è fuoco su quella montagna];
Ga [(In effetti,) c’è fuoco su quella montagna].
Tuttavia, il principale limite di questo schema resta quello che esso riduce il tutto a un congegno deduttivo – quasi una via di mezzo fra sillogismo aristotelico e modus ponens degli stoici –, sacrificando ogni aspetto induttivo presente nell’originale. Questo viene presupposto o dato per scontato. Se possibile, cerchiamo di ovviare a tale carenza operando qualche aggiunta o modifica, in modo che il risultato sia peraltro più rispettoso del doppio ragionamento, che da un lato discende dalla causa al presunto effetto, dall’altro risale dall’effetto alla causa (i due procedimenti sono detti rispettivamente purvavat e sesavat; si tenga presente che i segni “˄” e “¬” denotano rispettivamente congiunzione e negazione):
Ga [(Probabilmente,) c’è fuoco su quella montagna];
Fa [(Infatti,) c’è fumo su quella montagna];
{(Fa ˄ Ga) ˄ (Fb ˄ Gb) ˄ ¬ (Fc ˄ Gc)} ® (Fx ® Gx) [L’esserci fumo e fuoco anche in una cucina, e il non esserci fumo né fuoco su un lago, fanno ritenere che, in qualsiasi luogo, se c’è fumo allora c’è fuoco];
Fa [(Effettivamente,) c’è fumo su quella montagna];
Ga [(Dunque,) c’è fuoco su quella montagna].
La notazione così ottenuta è certo ancora approssimativa. Francamente, i vari tentativi attuati dopo quello di Schayer lasciano dubitare che si riesca a fare molto meglio. Rispetto alla logica formale, la formalizzazione del sillogismo indiano ha rischiato di agire un po’ come a suo tempo la scoperta del “pi greco”, in rapporto alla pretesa dei pitagorici di matematizzare la realtà. Ciò nulla toglie all’utilità della logica simbolica. Semplicemente, nel funzionamento del pensiero sembra esserci qualcosa di irriducibile al pensiero stesso. Ma è proprio quest’eccedenza che ci consente di continuare a riflettere al di là degli schemi.
Il suono, il vaso, il sé
Veniamo inoltre a tre “luoghi” molto particolari, la cui eventuale interconnessione o “concomitanza” (in sanscrito, vyapti) risulta inedita in una tradizione di pensiero come la nostra. Si tratta del suono, di un vaso e del sé. Si consideri che, nella metafisica indiana, il “sé” (atman) può assumere un duplice significato complementare: quello dell’anima individuale e quello di un Sé universale e naturale. Almeno, ciò vale per la religiosità induista. Non altrettanto per quella buddista, che avversa sia l’idea di una divinità personale sia la positività della sussistenza di un sé individuale, a esso opponendo il suo concetto liberatorio di anatman o “non-sé”. Pertanto, non sorprende che un altro diffuso esempio di sillogismo indiano sia proposto ben diversamente dai logici delle due scuole di pensiero.
Nel primo caso, l’enunciazione è la seguente: “Il suono è impermanente. Infatti, il suono è prodotto. Tutto quanto è prodotto è impermanente, così come un vaso e al contrario del sé. In effetti, il suono è prodotto. Perciò, il suono è impermanente”. La versione buddista è analoga, ma con una differenza rilevante: in quanto esempio negativo, al posto del “sé” troviamo “lo spazio”. Ciò rispecchia una diversa concezione, che da un lato non contempla l’immortalità di un’anima individuale in senso stretto; dall’altro, proietta l’eternità su uno spazio sacro, un “Grande Vuoto” da cui tutto scaturisce e fa ritorno. La divinità è impersonale, invece che personale. Cambia lo sfondo ontologico: la preminenza è data a un Asat, “Non-essere”, anziché al Sat, “Essere”. Anche per questo gli induisti sono detti astika, mentre i buddisti sono inclusi fra i nastika, alla lettera “essenzialisti” e “non-essenzialisti”.
Se volessimo comprimere le enunciazioni in questione nella forma di un sillogismo aristotelico, avremmo – in entrambi i casi – un risultato del genere: “Il suono è prodotto. Tutto quanto è prodotto è impermanente. Il suono è impermanente”. Le cose non andrebbero poi diversamente, se si ricorresse al modus ponens degli stoici. La dialettica metafisica o la polemica religiosa sottesa sia a una delle versioni, sia a entrambe se messe a confronto, scomparirebbe per intero. Non avremmo una logica empirica, che fa riferimento a un contesto o ai relativi contesti mentali, bensì un logicismo astratto da ogni realtà storica e geografica. Non è questa l’universalità che una storia della logica richiede, ma nemmeno una logica tout court, almeno nella misura in cui le questioni qui chiamate in causa hanno esse stesse una portata universale, implicita nel pieno dispiegarsi della mente nel pensiero.
Il suono, la voce, il lógos
Si avrebbe buon gioco a obiettare che qui si tratta di vecchia metafisica. Il discorso però è più ampio. Esso concerne la natura del pensiero. Ogni ragionamento positivo ne sottintende uno negativo corrispondente, e viceversa. Di volta in volta, il nostro criterio può far prevalere l’uno o l’altro aspetto, ma non giova ignorare uno dei due. Se non altro, la forma del sillogismo indiano è un invito a tenerne conto. Altra obiezione può riguardare una irriducibile diversità dei linguaggi. A ciò piace rispondere citando l’antico autore anonimo del Discorso di Ermete Trismegisto a Tat sull’intelletto comune: “La parola [lógos] differisce completamente dalla voce. La parola è comune a tutti gli uomini, mentre ciascun genere di esseri viventi possiede una propria voce. Ma, anche fra gli uomini […], la parola non differisce da popolo a popolo? Differisce, ma il genere umano è unico […]; così la parola è unica, viene tradotta e si ritrova sempre la stessa in Egitto, in Persia, in Grecia”.[6]
A maggior ragione, ciò riguarda l’antica lingua indiana. Il sanscrito appartiene alla famiglia indo-europea, né più né meno che il greco o il latino. Torniamo per un attimo all’esempio del fumo e del fuoco. Nel trattato Tarka Samgraha di Annam Bhatta, quella che nel sillogismo aristotelico sarebbe la premessa maggiore suona così: Yatra yatra dhumah tatra tatra agnih (“Ovunque c’è fumo, proprio lì c’è fuoco”). Una sintetica traduzione latina è Ubi fumum, ibi ignis. Almeno i due termini che stanno per “fuoco” mostrano la remota derivazione da una comune radice verbale. Ma è pur vero che, nella cultura indiana, la figura del fuoco rimanda a una particolare inconfondibile visione del mondo. Essa evoca l’incendio cosmico, il potere distruttore e rigeneratore del “fuoco del tempo” (kala-agni).
A sua volta, il fumo può essere interpretato come ciò che segnala la minaccia o sfata l’illusione alla coscienza del saggio ovvero dell’illuminato. Quanto alla cucina, essa può rappresentare la fucina del mondo, condizionato da una catena di azioni e reazioni “karmiche”. E il lago, acqua da cui non si sprigiona fumo perché il fuoco non vi attecchisce o si estingue, può ben alludere al traguardo della liberazione dalla “ruota delle esistenze”. Insomma, samsara e nirvana. Tutto questo contribuisce a spiegare che il sillogismo indiano preferisce combinare fra loro figure suggestive in quel contesto culturale e religioso, piuttosto che altre a noi più familiari. Quando si parla di “logica simbolica”, converrebbe cercare di farlo non solo in senso tecnico ma anche in maniera estensiva, se si aspira a una visione davvero comparata del funzionamento del discorso e della produzione dei concetti.
Siamo infine abbastanza edotti, da poterci cimentare in un sillogismo all’uso indiano, magari utilizzando i concetti attribuiti a Ermete Trismegisto per modificare l’esempio tradizionale che parte dal suono. Grossomodo, ecco come esso “suonerebbe”: “Il suono è impermanente. Infatti, il suono è prodotto. Tutto quanto è prodotto è impermanente, così come la voce e al contrario del lógos. In effetti, il suono è prodotto. Perciò, il suono è impermanente”. Si dà il caso che il lógos sia il fondamento della nostra logica, non solo in senso etimologico. In più, dovrebbe essere ormai chiaro che il sillogismo indiano non è una semplice inferenza. Mescolando deduzione e induzione, si sforza di riflettere il congegno del pensiero stesso. In quanto tale, va soggetto a incertezze e forzature – da cui neppure i nostri sillogismi sono esenti –, ma anche alle incognite e sorprese che il pensiero comporta.
[1] Cfr. M. Campitelli, A. Galante, P. Blasone, Segnali di fumo. Logica matematica, logica scientifica, logica filosofica, Dante Alighieri, Roma 2004; in particolare, pp. 185-190.
[2] Kitaro Nishida, La logica del luogo e la visione religiosa del mondo, trad. dal giapponese e cura di Tiziano Tosolini, L’Epos, Palermo 2005; pp. 138-141.
[3] Leonardo V. Arena, Il Nyāya Sūtra di Gautama, cura e traduzione con testo sanscrito a fronte, Āśram Vidyā, Roma 1994; in particolare, pp. 91-95.
[4] Gottfried W. Leibniz, in Principes de la nature et de la grâce fondés en raison (1714), 7. E’ la “domanda metafisica radicale”, alla base della filosofia europea moderna. Né è forse un caso che sia stato un grande logico a porsela: “Pourquoi il y a plus tôt quelque chose que rien? […] Supposé que des choses doivent exister, il faut qu’on puisse rendre raison pourquoi elles doivent exister ainsi, et non autrement” (“Perché c’è qualcosa piuttosto che niente? […] Supposto che delle cose debbano esistere, occorre farsi una ragione del perché esse debbano esistere così, e non altrimenti”).
[5] Stanislaw Schayer, On the Method of Research into Nyaya, trad. ingl. in Indian Logic: A Reader, a cura di Jonardon Ganeri, Routledge-Curzon Press, Richmond, Surrey 2001; pp. 93-101.
[6] In Discorsi di Ermete Trismegisto. Corpo ermetico e Asclepio, trad. dal greco e cura di Bianca Maria Tordini Portogalli, Boringhieri, Torino 1965; p. 125.