Un educatore come Krishnamurti ha individuato il legame strettissimo
che vincola le rappresentazioni pregiudiziali ai condizionamenti subiti
da una persona, ai suoi attaccamenti e vissuti di appartenenza. Questo
pensatore ha insistito sull'inessenzialità dell'identificazione
con persone e modelli, sulla centralità dei meccanismi di difesa
nel causare pregiudizi e nel favorire la proliferazione dei conflitti.
Secondo lui, soprattutto il sentimento di paura - che pone l'io al centro
delle rappresentazioni - sarebbe uno dei meccanismi maggiormente responsabili
dell'insorgenza dei pregiudizi.
"Il miracolo della percezione", dice Krishnamurti, "è
percepire con cuore e mente sgombri dal passato". Condizionati a
operare dei confronti, dei paragoni, abbiamo fondato un mondo del dover
essere (e del vorrei essere), non un mondo dell'essere. Non ci chiediamo
che cosa ci spinga a conformarci, perché abbiamo accettato di essere
stati condizionati. In questo modo, nelle relazioni interpersonali, ci
portiamo dietro le nostre dipendenze psicologiche.
Il pensiero olistico, globale, per il pensatore indiano non sarebbe soltanto
la chiave per voltare pagina sui nostri pregiudizi. Esso è il modo
di pensare che si confà alla nostra epoca. A distanza di tempo
e in un diverso contesto questo modo verrà raccomandato da due
autorevoli esponenti del cosiddetto Club di Roma, King e Schneider, i
quali indicano la necessità nel mondo di oggi di pensare globalmente
e di agire localmente, essendo questo l'approccio più congruente
ad affrontare problemi di livello sovraordinato. Da un altro fronte ancora,
Varela, assieme a Thompson e Rosch, osserva, con riferimento al funzionamento
del pensiero, che "noi pensiamo, sentiamo e ci comportiamo continuamente
come se avessimo un sé da proteggere e da preservare". Si
tratta di automatismi, di impulsi coercitivi. Viviamo questa meccanicità
come necessaria. Perché ci attacchiamo all'io-sé? Se ci
rendessimo consapevoli del fatto che l'io-sé è una costruzione
mentale, un'illusione, avvertiremmo un sentimento di liberazione dai pregiudizi
che - come li chiama Varela - sono "credenze prefissate".Si
tratta soprattutto di orientamento dell'attenzione. Se poniamo al centro
del pensiero l'io-sé, non possiamo divenire consapevoli dei nostri
attaccamenti e pregiudizi e della loro funzione difensiva. Varela sostiene
che questo tipo di attenzione può essere educato, come hanno insegnato
diverse tradizioni meditative. Egli cita, ad esempio, la scuola buddhista
Madhyakima o "della via di mezzo". Il filosofo Lévinas
- riprendendo il pensiero di Heidegger - afferma che la comprensione si
fonda sull'apertura dell'Essere. Conoscere significa essere con l'altro
non distinguere tra comprensione e comunicazione. Significa risvegliarsi
dal mondo dell'egotismo, dal sonno nel quale la centralità dell'io-sé
ci fa sprofondare. Per Lévinas, il porre innanzi il proprio io
rappresenta la crisi dell'essere, la sua disorganizzazione. Per evitare
questa deriva non abbiamo altra scelta che rivolgere la nostra attenzione
all'altro, al suo viso, alle sue richieste. L'altro è - per Lévinas
- qualsiasi altro, che viene considerato non perché rappresenta
un sapere particolare, ma perché esprime una prossimità
non riducibile alla conoscenza, alla misura, al confronto. L'altro non
deve essere lasciato soloLa responsabilità starebbe nella paura
per l'altro. Questa socialità - cui Lévinas si riferisce
- è spogliata dal desiderio e dall'aspettativa personale. "L'humain",
dice Lévinas, "ne s'offre qu'à une rélation
qui n'est pas un pouvoir".
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Le dimensioni del pregiudizio nella società dei
media e dello spettacolo
Per tentare di capire la portata del fenomeno si rende
necessario avvalersi di un approccio più complesso, nel quale psicosociologia
e psicologia cognitiva sono solo le lenti di ingrandimento di un microscopio
che utilizza anche altri mezzi di esplorazione. Chi aziona questo microscopio
o ha una preparazione interdisciplinare o deve lavorare in équipe.Valéry
ha ben compreso che una civiltà fondata sull'apparire (e sull'avere,
non sull'essere), sul categorizzare (e sul confrontare, dunque, sul distanziare)
è una civiltà in agonia, non più in grado di essere
creativa. Affinché il pensiero possa svilupparsi occorre che esso
innanzitutto si conservi. Perché assolva a questa duplice e sincronica
funzione, esso non può sfociare né nell'ordine estremo (nell'automatismo),
né nell'estremo disordine. L'automatismo è la rovina del
pensiero, la fine del pensiero creativo. Esso non rimedia al disordine
che è dentro di noi, prima di essere nella realtà. Semplicemente
lo alimenta.Per Valéry il grado di tolleranza sociale è
funzione del grado di consapevolezza delle contraddizioni che distinguono
oggi la politica del pensiero.
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