L'obiettivo della moderna psicologia cognitiva deve essere quello della conoscenza e dell'autoconoscenza, non quello di individuare nuove vie per manipolare le coscienze

Di
Paolo Calegari

 

Un educatore come Krishnamurti ha individuato il legame strettissimo che vincola le rappresentazioni pregiudiziali ai condizionamenti subiti da una persona, ai suoi attaccamenti e vissuti di appartenenza. Questo pensatore ha insistito sull'inessenzialità dell'identificazione con persone e modelli, sulla centralità dei meccanismi di difesa nel causare pregiudizi e nel favorire la proliferazione dei conflitti.
Secondo lui, soprattutto il sentimento di paura - che pone l'io al centro delle rappresentazioni - sarebbe uno dei meccanismi maggiormente responsabili dell'insorgenza dei pregiudizi.
"Il miracolo della percezione", dice Krishnamurti, "è percepire con cuore e mente sgombri dal passato". Condizionati a operare dei confronti, dei paragoni, abbiamo fondato un mondo del dover essere (e del vorrei essere), non un mondo dell'essere. Non ci chiediamo che cosa ci spinga a conformarci, perché abbiamo accettato di essere stati condizionati. In questo modo, nelle relazioni interpersonali, ci portiamo dietro le nostre dipendenze psicologiche.
Il pensiero olistico, globale, per il pensatore indiano non sarebbe soltanto la chiave per voltare pagina sui nostri pregiudizi. Esso è il modo di pensare che si confà alla nostra epoca. A distanza di tempo e in un diverso contesto questo modo verrà raccomandato da due autorevoli esponenti del cosiddetto Club di Roma, King e Schneider, i quali indicano la necessità nel mondo di oggi di pensare globalmente e di agire localmente, essendo questo l'approccio più congruente ad affrontare problemi di livello sovraordinato. Da un altro fronte ancora, Varela, assieme a Thompson e Rosch, osserva, con riferimento al funzionamento del pensiero, che "noi pensiamo, sentiamo e ci comportiamo continuamente come se avessimo un sé da proteggere e da preservare". Si tratta di automatismi, di impulsi coercitivi. Viviamo questa meccanicità come necessaria. Perché ci attacchiamo all'io-sé? Se ci rendessimo consapevoli del fatto che l'io-sé è una costruzione mentale, un'illusione, avvertiremmo un sentimento di liberazione dai pregiudizi che - come li chiama Varela - sono "credenze prefissate".Si tratta soprattutto di orientamento dell'attenzione. Se poniamo al centro del pensiero l'io-sé, non possiamo divenire consapevoli dei nostri attaccamenti e pregiudizi e della loro funzione difensiva. Varela sostiene che questo tipo di attenzione può essere educato, come hanno insegnato diverse tradizioni meditative. Egli cita, ad esempio, la scuola buddhista Madhyakima o "della via di mezzo". Il filosofo Lévinas - riprendendo il pensiero di Heidegger - afferma che la comprensione si fonda sull'apertura dell'Essere. Conoscere significa essere con l'altro non distinguere tra comprensione e comunicazione. Significa risvegliarsi dal mondo dell'egotismo, dal sonno nel quale la centralità dell'io-sé ci fa sprofondare. Per Lévinas, il porre innanzi il proprio io rappresenta la crisi dell'essere, la sua disorganizzazione. Per evitare questa deriva non abbiamo altra scelta che rivolgere la nostra attenzione all'altro, al suo viso, alle sue richieste. L'altro è - per Lévinas - qualsiasi altro, che viene considerato non perché rappresenta un sapere particolare, ma perché esprime una prossimità non riducibile alla conoscenza, alla misura, al confronto. L'altro non deve essere lasciato soloLa responsabilità starebbe nella paura per l'altro. Questa socialità - cui Lévinas si riferisce - è spogliata dal desiderio e dall'aspettativa personale. "L'humain", dice Lévinas, "ne s'offre qu'à une rélation qui n'est pas un pouvoir".

 

Le dimensioni del pregiudizio nella società dei media e dello spettacolo

Per tentare di capire la portata del fenomeno si rende necessario avvalersi di un approccio più complesso, nel quale psicosociologia e psicologia cognitiva sono solo le lenti di ingrandimento di un microscopio che utilizza anche altri mezzi di esplorazione. Chi aziona questo microscopio o ha una preparazione interdisciplinare o deve lavorare in équipe.Valéry ha ben compreso che una civiltà fondata sull'apparire (e sull'avere, non sull'essere), sul categorizzare (e sul confrontare, dunque, sul distanziare) è una civiltà in agonia, non più in grado di essere creativa. Affinché il pensiero possa svilupparsi occorre che esso innanzitutto si conservi. Perché assolva a questa duplice e sincronica funzione, esso non può sfociare né nell'ordine estremo (nell'automatismo), né nell'estremo disordine. L'automatismo è la rovina del pensiero, la fine del pensiero creativo. Esso non rimedia al disordine che è dentro di noi, prima di essere nella realtà. Semplicemente lo alimenta.Per Valéry il grado di tolleranza sociale è funzione del grado di consapevolezza delle contraddizioni che distinguono oggi la politica del pensiero.

 

 

 

 

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