Di Roberto Terrosi
Il termine postumano, come si sa, deriva dall'ambito artistico ed è
stato il nome di un'operazione culturale intelligentemente approntata
dal critico americano Jeffrey Deitch. Un'operazione che tra l'altro
non presentava opere traumaticamente innovative. Non si è trattato
di un'inaspettata trasgressione all'establishment, ma del compiaciuto
nuovismo di cui il sistema contemporaneo si nutre. Vi compariva tra
gli altri, ad esempio, un artista affermato come Jeff Koons. Dunque
l'interesse che suscita quella mostra, anche agli occhi di non appartiene
al circuito dell'arte contemporanea, sta semmai nelle situazioni che
le antenne dritte del critico Deitch hanno saputo concentrare in un'idea
forza molto illuminante. Perché illuminante? D'altronde il postumano
poteva semplicemente essere considerato come un clone del postmoderno.
Anche il postmoderno tra l'altro nasce in ambito artistico come designazione
di uno stile architettonico. Se questi termini sono andati oltre, lo
si deve proprio al fatto che, in quanto idee-forza, chiamavano in causa
tutto un insieme di considerazioni teoriche sulla società attuale
e sulle trasformazioni in corso nel mondo del sapere, che vanno ben
al di là di una singola dichiarazione di stile o, peggio, della
giustificazione a-posteriori del lavoro di un'ammucchiata di artisti.
In particolar modo da parte di alcune persone si è sentito il
bisogno di andare a fondo, partendo dalle dichiarazioni di Deitch per
cogliere il senso di quella che è stata definita "una mutazione
antropologica" che si andava producendo sotto la spinta dell'innovazione
tecnologica e dei nuovi media elettronici. Una mutazione questa che
va ben oltre lo stile artistico, coinvolgendo la geografia stessa delle
istituzioni culturali e del modo stesso in cui l'uomo occidentale si
autorappresenta. Il tramonto dell'Uomo e il suo trasformarsi in un oggetto
modificabile e ricostruibile, può avere a che fare anche con
le donne che si rifanno il seno, citate da Deitch, ma ha il senso di
una svolta più ampia che non è cominciata dalla mostra
Post-human. Questa svolta, infatti, è in corso già da
molto tempo, fu preconizzata da Nietzsche e precisata da Foucault quando
parlò di "morte dell'Uomo". In quest'accezione filosofica
del postumano, non troviamo solamente il problema dei microchip trapiantati
nel cervello, ma anche quello di tutta un'organizzazione dei saperi
che, tra '700 e '800, aveva dato vita a una monumentale visione dell'uomo
come artefice della propria cultura e delle proprie istituzioni (e quindi
di se stesso). Si trattava di un Uomo che aveva scalzato il ruolo religioso
dell'antropogonia perché aveva la propria origine e il proprio
fine in se stesso. Per Kant ogni essere umano è un fine in sé,
e quindi non può essere considerato al pari di uno strumento,
neanche da se stesso (un uomo quindi non può disporre del proprio
corpo ad es. per venderlo). Oggi questi assunti entrano in crisi sotto
la spinta delle biotecnologie, ma sono destinati ad entrare in crisi
anche tutti quei corollari che facevano da pendant a questa visione.
Tra questi corollari c'è, ad esempio, la (presunta) tendenza
spontanea e connaturata nell'uomo a farsi una famiglia, ad avere una
religione e - ciò che più qui c'interessa - ad esprimersi
attraverso l'arte. L'idea che l'arte sia eternamente connaturata alla
presenza umana si è sviluppata non a caso nello stesso periodo
in cui si andava edificando il grande mito dell'Uomo. Allora c'è
da chiedersi: se l'Arte è un corollario dell'Uomo, il superamento
del mito dell'Uomo non porta con sé anche il quello del mito
dell'Arte? In altre parole ha senso parlare di un'arte postumana o dovremmo
invece parlare direttamente di una post-arte? È piuttosto superficiale
a questo punto limitarsi a etichettare le recenti tendenze artistiche
basate sulle tecnologie digitali come postumane, in quanto occorre andare
più a fondo, per capire le mutazioni profonde cui è soggetta
l'intera istituzione artistica. La cultura digitale, con la diffusione
del personal computer ha portato a una fortissima produzione di opere
figurative fatte in casa, che, attraverso il desktop publishing e altre
modalità, invade l'immaginario collettivo, mostrandosi in molti
casi più avanzata della produzione artistica specialistica. Oggi
non esiste più l'artista d'avanguardia, la cui ricerca ricade
in un secondo tempo, a livello meramente applicativo, sui gusti della
massa. Sempre più spesso accade invece che l'artista si limiti
a portare in galleria quelle immagini (quando si tratta ad esempio di
opere basate su immagini digitali) che ha trovato fuori, sulle pubblicità.
L'arte elettronica tende a de-specializzarsi. Non occorrono gallerie
d'arte all'immaginario elettronico. La stesso emergere di critici, che
rivendicano l'uso del linguaggio comune o addirittura il proprio analfabetismo
intellettuale, è un sintomo della tendenza verso la de-specializzazione
dell'arte. Marx non a caso parlava dell'artista come di un prodotto
della divisione del lavoro, che si specializzava in un aspetto, che
in realtà sarebbe competenza di tutti, e pensava che, quando
si sarebbe instaurato il comunismo, tale figura non avrebbe più
avuto motivo di esistere, in quanto ogni persona avrebbe potuto recuperare
questa possibilità creativa per se stesso. Marx dunque ripone
la fine dell'arte, intesa come de-specializzazione, alla fine della
storia (rappresentata dal raggiungimento dell'ideale) ovvero alla fine
dell'Uomo che, di fatto, si incarna nel cammino storico.
Questa tendenza alla de-specializzazione può, agli occhi di qualcuno,
essere vista come l'affermazione dell'ideale, che le avanguardie sviluppano
dal romanticismo, della dissoluzione del confine tra arte e vita. Bisogna
però stare attenti su questo punto, infatti tale aspirazione
presupponeva che questa dissoluzione comportasse un positivo sprigionamento
di energie intellettuali ed esistenziali - "siano le strade la
festa dell'arte per tutti" diceva Majakovskij - il che può
benissimo non verificarsi nell'attuale situazione spinta dall'azione
del mercato.
Ad esempio gli artisti Fluxus, quando si muovevano in questa direzione,
percepivano l'istituzione artistica come una gabbia da sfondare dall'interno.
Con la crisi delle neoavanguardie e l'ascesa del postmodernismo la situazione
si è rovesciata. Da allora ai nostri giorni orde di giovani artisti,
dai reazionari ai presunti trasgressivi, hanno fatto di tutto per entrare
in ciò che rimaneva di quella gabbia. Si sono aggrappati a un'istituzione
vetusta, che però manteneva ancora la capacità di strutturare
dei nessi culturali in una società peraltro indifferente e caotica.
Dai reazionari anni '80 si passa alla trasgressione di maniera degli
anni '90 che, mentre dichiara di opporsi all'establishment, ha fatto
già in modo di entrarne a far parte. D'altronde nell'industria
culturale contemporanea il "trasgressivo" è diventato
un settore importante e alquanto produttivo. Anche nei fenomeni costruiti
a tavolino dal mercato, come gli "Oasis", ci si premura di
aggiungere una parte di trasgressione, così come alla trasgressione
ammicca M-tv, che non è certo sovversiva o rivoluzionaria. È
chiaro allora che molta parte dell'arte, etichettata come postumana,
non fa altro che seguire i trend estetici promossi dal mercato e, diciamo
noi, è postumana proprio per questo (e non perché si sezionano
mucche o si fanno performances hard-core nelle gallerie). Niente, infatti,
nega il presupposto umanistico dell'arte, intesa come mezzo di espressione
dell'autenticità umana, meglio di quello che sta accadendo oggi.
Stabilire poi se tutto ciò che è postumano è buono,
bello e cool è un altro discorso. Resta il fatto che il postumano
tende ad individuare alcune caratteristiche dell'attuale terreno di
battaglia, sul quale poi sta a ognuno di noi prendere le proprie posizioni.
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