Daniela Bellotti "Scritti sull'Arte" Gli artisti
ANDY WARHOL
Galleria Cinquantasei, Bologna, Abano Terme. 2007
Testo pubblicato in Art Journal, mag-giu.
2007 |
OMAGGIO A ANDY WARHOL. QUESTIONE D'IMMAGINE Una straordinaria mostra itinerante celebra il ventennale della morte di Andy Warhol, in mostra e in vendita una straordinaria raccolta di opere, dai disegni giovanili del ’57 alle ultime serigrafie dell’87. L’artista più famoso della Pop Art, che più di ogni altro ha rappresentato la società americana con i suoi miti e le sue contraddizioni, i lussi, le banalità e le paure, moriva vent’anni fa a New York dopo un intervento chirurgico alla cistifellea. Aveva 59 anni e usciva di scena in modo tutto sommato banale, Andy Warhol, l’artista che aveva costruito il suo personaggio e la propria fortuna sulla diversità, incarnazione egli stesso di un classico mito americano, quello del self-made man. Era nato nel 1928 in una famiglia di poveri emigrati cecoslovacchi (il padre faceva il minatore ed era morto quando Andy era ancora piccolo); l’uomo che sarebbe diventato una celebrità, fu un bambino fragile, preda di attacchi nervosi che lo costringevano a chiudersi in casa, dove trovava svago nel disegnare, nel leggere fumetti e nel raccogliere figure di carta da ritagliare. Col tempo riuscì a riscattare tutte le sue difficoltà ribaltando la fragilità in forza, fino a rendere spettacolari i propri gusti e il suo stesso volto; aveva amato spudoratamente denaro, successo, fama e li aveva ampiamente ottenuti. Tuttavia Warhol è anche un personaggio contraddittorio, come contraddittoria è la sua arte totalmente priva di motivazioni intellettuali, eppure trasgressiva. La prospettiva storica è indispensabile per ritrovare oggi il senso di quella che fu la sua vera rivoluzione, che si impose spezzando di fatto il clima artistico dell’epoca, determinato dai maestri dell’Action Painting. Poichè le opere di Pollock, De Kooning e Kline erano di difficile decodificazione, nascevano da un approccio emozionale e spirituale alla creatività, e si risolvevano in superfici al limite dell’ermetismo, Warhol volle impostare la sua arte su tutto ciò che gli espressionisti astratti detestavano. Scelse soggetti alternativi tra le cose che gli piacevano, le immagini della comunicazione di massa, i rotocalchi, la pubblicità, le vetrine allestite per suggerire desideri a portata di mano; era un mondo che lui conosceva bene fin da giovane, avendo iniziato a lavorare per riviste di moda come Glamour e Vogue, che per prime avevano apprezzato i suoi disegni illustrativi. Come artista originale esordì nel 1960, con una serie di quadri che replicavano i fumetti di Dick Tracy e Superman, forme ideali perchè leggibili a colpo d’occhio; ad essi seguì la rappresentazione della cosa più comune, più americana e familiare, la bottiglietta di Coca Cola, poi la lattina di zuppa Campbell e la scatola di detersivo Brillo; le replicò in rappresentazioni piatte, identiche all’originale, potevano sembrare immagini pubblicitarie, come ne aveva già disegnate tante, ma erano altro, erano fine a se stesse, vuote e inutili. Come questa operazione di “ritrarre” un prodotto e provocatoriamente riproporne l’immagine come opera d’arte sia diventata una formula vincente e così potentemente simbolica può sembrare tuttora un mistero; forse egli corrispose ad una pulsione autocelebrativa epocale della società statunitense di quei primi anni di boom economico… ma la serie dedicata al simbolo del dollaro rende ancor più evidente lo spirito con cui Warhol sceglieva i suoi soggetti. Certo è che queste sue “invenzioni”, che dopo i primi esemplari a mano libera cominciò a realizzare con la tecnica serigrafica (in cui l’alterazione dei colori e la serialità amplificano in maniera esponenziale il potere seduttivo dell’immagine riprodotta), sono diventate una delle espressioni più universali dell’arte contemporanea, profondamente popolari e rappresentative e gli valsero in pochi anni uno straordinario successo. Nelle sue opere l’America finì per specchiarsi e riconoscersi. Warhol era il mago che, grazie a semplici stratagemmi, riusciva a moltiplicare con ineffabile senso estetico le più stucchevoli banalità; ottenne di rendere “auratiche” anche crude fotografie di cronaca, disastri, scontri e sedie elettriche. Sue sono le opere più aderenti al senso di una immensa società in fermento, che compra, consuma, desidera, usa, sogna, distrugge, metabolizza tutto, e si appaga in un benessere mai prima raggiunto, una società che adora i suoi nuovi miti spesso sfortunati, travolti da tragedie a cui un mondo intero assiste e partecipa, e che si riassumono nel volto di Marilyn, di Elvis, della Jacqueline Kennedy. Vent’anni dopo la sua scomparsa, Warhol è più che mai un artista vincente, dalle quasi incredibili capacità di ammaliare, unico nel panorama dell’arte del XX secolo. Tuttavia è difficile amare Warhol, artista votato all’arricchimento, spudorato e superficiale; nelle sue dichiarazioni c’è la prova sconcertante dei limiti del suo pensiero; l’autore dell’arte più ripetitiva e fredda che la cultura americana abbia partorito, resta un artista sfuggente, e in questo forse si alimenta il suo incrollabile mito. Difficile arrendersi all’idea che dietro il gioco delle reiterazioni, dell’appiattimento, dei colori assurdi e sfalsati, non ci sia qualche ragione più sottile, un commento nascosto con cui egli abbia preso posizione, davanti alle sue serigrafie luminose, fisse e quasi ipnotiche si insinua il tarlo che egli ci stia comunque rivelando qualcosa, dietro la maschera, dietro la finzione… Ma cosa? Interessante anche per tentare di rispondere a questa domanda la grande mostra realizzata per il ventennale della morte dell’artista, che attualmente fa tappa a Bologna, alla Galleria Cinquantasei. La sequenza dei soggetti scorre nella sua dimensione immobile e senza tempo, la stessa delle madonne bizantine, offrendo una partecipazione emotiva uguale a zero, Marilyn come Mao Tse-Tung, come la Campbell Soup, come Liza Minnelli, come i più infantili dei fiori, come il Vesuvio, come Mick Jagger, come la bottiglietta di Coca Cola, come le scarpe, come il disegno della tuta mimetica, come gli anonimi travestiti… è un pantheon di “icone” che hanno tutte lo stesso peso specifico, comparse e protagonisti, i potenti del mondo e gli omosessuali della strada. E poiché “finzione” era una parola chiave nel lessico di Warhol, ci piace credere che la sua opera sia nel complesso come una grande parata di lustrini, parrucche e stelle a strisce, nata dalla registrazione di fatti, cose, persone, oggetti, prodotti… rubati al flusso senza sosta del mondo e tradotti in un linguaggio inconfondibile. Ci piace pensare che lui, appassionato di ogni mezzo di registrazione, dietro l’obbiettivo che in parte lo nascondeva, vedesse a fondo nella verità che lo circondava, una verità che la macchina da presa gli restituiva bidimensionale, decontestualizzata, in certo modo astratta, e con la passione di un voyeur cercasse di catturare ogni cosa attorno a lui, la bellezza e la morte, le ingiustizie e la stupidità, il piacere e la trasgressione, per salvare tutto in una replica infinita, immortale, sotto l’allegria posticcia di colori irreali.
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