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ANTONIO
NOIA
"Il protagonismo dello
spazio"
Edizioni Bora, 1991
Dal catalogo della mostra
Galleria del Circolo Artistico Iterarte, Bologna
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Tra sogno e realtà, 1990 |
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Euritmia, 1990 |
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Antonio
Noia
L'operare artistico di Antonio
Noia muove da radici lontane. Una lettura attenta del suo linguaggio, passato
attraverso le esperienze del concettuale e approdato oggi alla gestualità
e al segno astratto, ci porta a scoprire una matrice imprevedibile: esiste
infatti una ragione profonda che si alimenta a quel nucleo mitico di arte
e civiltà che fu la Magna Grecia: è là che le sue
radici portano, attraverso una strada che si srotola come un ragionamento
filosofico senza tempo, tra i percorsi dove si incontrano la linearità
e il movimento, uniti alla pienezza espressiva e alla suggestione astratta.
Una radice che è anche autobiografica: la città natale dell'artista,
Taranto, è l'antica colonia spartana e da essa deriva quella memoria
classica, non museale, ma rivissuta che informa le opere di Antonio Noia.
Ciò che egli cerca,
a cui dà vita nei suoi dipinti e nelle sculture, è infatti
un senso di fisicità potente, unita a vibrazioni luministiche, al
gusto dell'ordine che si insinua tra l'inarrestabile scorrere delle cose.
Entrano in gioco il segno, la superficie, la forma, il colore, la materia,
la luce: gli elementi primari dell'arte, le basi genetiche del dialogo
tra l'uomo e le forme artificiali. Sulla pietra, sulla tela, sulle carte
affiorano trame, tracciati, reticoli dalle infinite possibilità
labirintiche, dove lo stile rimane estraneo come concettuosità teorica,
ma si affaccia come metodo, come antico sistema di vita e di prassi, sedimentato
e certo. Sono radici lontane, ma consapevoli. Noia le individua e le distilla
coi loro frammenti di significati, forti e immutabili, a cui è ancora
possibile legare una attuale profonda concretezza artistica.
E' alla colonna dorica che
penso,
al suo messaggio lineare e irregolare insieme, mitico e scalfito dai secoli;
è a un orizzonte marino eroico che abbiamo perduto, intatto e abbagliante
nel nostro sud; è ai cieli e alle terre aride di vento, aspre; ai
silenzi e alle magiche sonorità di linguaggi arcaici. Noia non racconta
mai; non sapremmo dire quale protagonista possa abitare gli spazi suggeriti
dalle sue opere se non noi stessi, divenuti centro di quei vortici, dello
spandersi di flutti, occhio fisso alle nebulose stellari che si spalancano
nel vuoto.
Con gesto rapido, ritmico,
regolare; così vediamo nascere le sue opere. Strato su strato, tono
su tono, fino a un digradare a volte netto, a volte morbido sulle modulazioni
di un fruscio che non trova confini se non al limite, alla fine dello spazio
vitale, ai margini della tela. Ritmo non uguale, mai reiterato o geometrico;
sempre suscettibile di libertà improvvise, di subitanee fughe e
apparizioni, di un placarsi che è provvisorio e transeunte.
"Vedere è chiudere
gli occhi" era il titolo di una passata mostra di Antonio Noia, che rendeva
omaggio con queste parole all'interiorità esistenziale di Wols.
Ma vedere è anche riaprire gli occhi, oggi, e ritrovarsi, saper
guardare e risentire il senso di ciò che eravamo ieri. Quale sarà
l'arte di domani? Sarà simile a questa, scontrosa e ribelle, corsiva
e dilagante, ammaestrata da una classicità interiore e da una consapevolezza
tutta contemporanea. Quale bellezza è ancora possibile senza recuperarsi,
senza tornare?
Tutto scorre, passa e continuamente
si trasforma. E' la saggezza lontana di Eraclito. Per qualcuno alle soglie
del Duemila, la suggestione di questi echi può aprire ancora nuove
strade. |