Daniela Bellotti         "Scritti sull'Arte"                                                                                                       Le mostre

"Turner Monet Pollock"

Dal Romanticismo all'Informale

 

Omaggio a Francesco Arcangeli

Ravenna 19 marzo - 23 luglio 2006

MAR - Museo d'Arte Città di Ravenna

Gli Informali italiani, Burri, Leoncillo

J. M. William Turner, Sidmouth, 1825-27

Gustave Courbet, La trombe, 1860

Walter Richard Sickert, Fille venitienne allongée

Claude Monet, Nymphéas 1904

Giorgio Morandi, Natura morta, 1942

Filippo De Pisis, Natura morta con la lepre, 1942
Vasco Bendini e gli altri Ultimi Naturalisti

L'Arte può redimere il tempo, parola di Francesco Arcangeli

C’è una frase che è fondamentale per capire la posizione di Francesco Arcangeli nei confronti della storia, l'arte può redimere il tempo...

Questa straordinaria mostra, realizzata nei tre piani espositivi di nuovissima concezione del MAR, il Museo d’Arte di Ravenna, si snoda dalla fine del Settecento agli anni Settanta del XX secolo. Raccoglie capolavori di Turner, Monet, Pollock (come recita il titolo), ma anche di Courbet, Constable, Fattori, Renoir, Morandi, De Pisis, Klee, Fautrier… e si conclude con una vasta rappresentanza del drappello degli Ultimi Naturalisti, Morlotti, Romiti, Mandelli, Moreni, Vacchi, oltre ai maestri dell'Informale italiano, Burri e Leoncillo.  Una scelta di opere che segue la trafila critica degli studi di Francesco Arcangeli (Bologna, 1915 – 1974), critico militante e figura di rilievo della cultura bolognese, già direttore della Galleria d’Arte Moderna dal 1958 al 1968. La mostra parte dunque dal Romanticismo come momento filosofico oltre che artistico e ripropone a distanza ormai di più di trent’anni dalla sua scomparsa, l’esempio della lezione di Arcangeli, che si caratterizzò per un totale coinvolgimento nei confronti dello studio e della funzione dell’opera d’arte. Atteggiamento diverso rispetto a quello oggi più diffuso, che privilegia un modo più freddo e tecnico di approccio con l’opera d’arte.  Rispetto alla gran quantità di artisti contemporanei cui egli dedicò la sua attenzione, i curatori hanno operato necessariamente in termini di scelta; le assenze sono dovute, secondo quanto dichiarato all’inaugurazione, al fatto che negli anni egli peccò di qualche generosità, e il vaglio che oggi è stato fatto ha privilegiato le realizzazione che corrispondono alla più rigorosa teoria arcangeliana. Ma qual è il senso profondo per cui “stanno insieme” opere stilisticamente diversissime, come quelle presenti della mostra del MAR? E’ necessario recuperare il senso dell’insegnamento di Momi (così era confidenzialmente chiamato il professor Arcangeli) e le tracce di quella intuizione sulla quale si resse la sua personalissima, e tuttora valida, linea di lettura di un versante nevralgico dell’arte contemporanea.

Innanzitutto è bene sottolineare che esiste una complessità di lettura della sua figura umana e critica, che deve partire dalla riconsiderazione del rapporto intercorso col suo maestro, Roberto Longhi, dal quale egli andò via via emancipandosi fino alla piena consapevolezza di una sua strada autonoma, segnata dalla pubblicazione del saggio sugli “Ultimi naturalisti” nel 1954. In esso, egli individuò una nuova corrente artistica sorta nel dopoguerra, i cui protagonisti erano alcuni pittori di cultura padana, accomunati dal gusto di dipingere elementi desunti dalla natura, passandoli al vaglio di una macerazione esistenziale, che faceva emergere il ricordo della tragedia bellica appena finita, di cui la carne, la natura, lo spirito, e necessariamente l’arte, portavano evidenti a quei tempi segni e ferite. Artista d’elezione in questo senso fu Ennio Morlotti, che negli stessi anni aveva anche attirato l’attenzione di un altro critico militante, Giovanni Testori. Due dei maggiori critici del momento si ritrovarono uniti dalle stesse predilezioni, ma per ragioni diverse, con punti di contatto e di distanza, cosa che fu vissuta non senza scontri e polemiche.

Pagina complessa fu anche quella del rapporto tra Francesco Arcangeli e Giorgio Morandi, il più celebrato pittore del novecento bolognese, rapporto di stima reciproca che cominciò ad incrinarsi nel 1961, a causa di una monografia che Arcangeli andava elaborando su Morandi e che il pittore lesse in fase di gestazione, rimanendone alquanto turbato e trovandovi motivi di dissidio con l’autore. La crisi e il distacco che ne seguirono, coinvolsero non solo i due protagonisti che non si pacificarono più, seppur amareggiati dall’insanabile contrasto, ma tutta la cultura artistica bolognese di quegli anni. Per approfondire questi temi, segnalo il catalogo della mostra, edito da Electa, che raccoglie numerosi testi redatti da testimoni diretti delle vicende, come la sorella Bianca Arcangeli, Andrea Emiliani, Ezio Raimondi, Mina Gregori e lo stesso Claudio Spadoni, che è il curatore e ideatore della esposizione.

E dunque, qual è il filo rosso che accomuna una marina turneriana, un quadro di ninfee di Monet, o ancora l’intimismo di Fontanesi e la campagna italiana di Fattori, alla opere che ostentano la loro materia, umida, umorale, sanguigna, colta in uno stadio di malato disfacimento, quale troviamo negli Ultimi Naturalisti?

Il Romanticismo, soprattutto quello dei pittori inglesi, è il primo che mette in evidenza un concetto di natura non definita, anzi, nelle prove più eclatanti, allude ad una struggente piccolezza umana di fronte alla forza infinita della natura. E’ per questa ragione che Arcangeli operò un vero e proprio rilancio del Romanticismo inglese, meno considerato fino ad allora dagli storici dell’arte che avevano dato maggior attenzione alla stagione romantica francese. Egli individuò nei quadri di William Turner uno snodo della modernità, il primo momento in cui si determinò la prima vera alternativa alla spazialità costruita attorno alla prospettiva rinascimentale. Secondo Momi, la Francia partecipò a questa traiettoria soprattutto con Courbet e Monet, in cui si trova l’esaltazione e l’esplosione dell’invisibile, e l’ingresso della psicologia della percezione. La mostra propone a questo punto del suo excursus alcuni artisti universalmente celebrati, a fianco di altri meno ufficiali, Soutine, Permeke, Sickert, tuttora poco conosciuti, ma che il critico studiò a fondo e trasse dalla scarsa considerazione di cui avevano sofferto. Questo fatto ci dà l’occasione di ricordare che Momi aveva una predilezione per gli artisti dimenticati, ad esempio diceva di amare più Ludovico Carracci rispetto a Caravaggio, e in ciò si rifletteva un dato del suo carattere che è stato definito, dai suoi esegeti, “pascoliano”. In effetti fin dagli anni giovanili egli amò molto la poesia, Giovanni Pascoli, ma anche Arthur Rimbaud, passione questa che gli ispirò un saggio sul rapporto tra la poesia e l’arte contemporanea.

Con un’importante serie di opere di Filippo De Pisis, di Morandi e Carrà, visti a fianco dei grandi deflagratori stranieri della forma, Wols, Dubuffet, de Stael, De Kooning, siamo ad un passo ormai da quel pensiero della materia, del primordio come unico momento su cui va a concentrarsi l’attenzione degli artisti del dopoguerra che più stavano a cuore ad Arcangeli. A fronte del movimento Informale, con i suoi campioni europei e americani, egli volle innalzare i suoi Ultimi Naturalisti padani, spezzando una lancia con ardenti pagine sul valore insostituibile della “provincia”, come luogo di verità universali, microcosmo in cui l’individuo vive una sua libertà intellettuale, che non lo vincola ad alcuna ideologia.

A distanza di tanti decenni, questi artisti, i grandi dell’Informale internazionale, come i nostri italiani, restano fondamentali per capire i limiti cui è giunta l’arte per dare corpo pittorico al malessere di vivere, alla perdita di ogni certezza e di ogni senso, oltre la soglia di una totale abdicazione alla bellezza, per raccontare il dolore individuale, e proiettarlo su un piano universale.

 

Jackson Pollock, Watery paths, 1947 Ennio Morlotti, Le donne di Varsavia, 1946
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