FABRIZIO PLESSI NAVIGATORE SOLITARIO Intervista pubblicata su Art Journal n. 4 lugl - ago 2006
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Dopo l'esperienza del Romeo and Juliet, Fabrizio Plessi, capo carismatico dell'Arte Multimediale, si racconta.
Reggio Emilia, 20 maggio. Il Teatro Valli è gremito, va in scena nell'allestimento firmato da Fabrizio Plessi il "Romeo and Juliet", opera preannunciata come un inedito incontro tra arte multimediale e balletto. Prima dello spettacolo incontro l'artista, ha un'eleganza essenziale, un volto dai lineamenti scolpiti, la capigliatura liscia da capo indiano… è uno dei rari artisti che hanno mutato radicalmente il linguaggio dell'arte del XX secolo, l'unico italiano contemporaneo ad essere presente in tutti i grandi musei del mondo ed è la prova vivente che la genialità non ha bisogno di ostentazioni. Plessi sfoglia subito con interesse la nostra rivista, apprezzando le pagine dedicate a lui, e mi assicura che si renderà disponibile per un'intervista più tardi. Il balletto è una performance di 90 minuti in cui le coreografie di Bigonzetti esaltano la fisicità dei corpi, ma soprattutto questo "Romeo and Juliet" è un'opera nel segno inconfondibile di Plessi. Suoi sono i costumi (caschi, corpetti e protezioni per motociclisti indossati a pelle da ballerini praticamente nudi) e sua è la scenografia scandita da alcune grandi installazioni, i sei letti-monitor sui quali i ballerini si contorcono come su fuoco ardente, il gigantesco ventilatore mobile che sostituisce il balcone di Giulietta, e l'alto muro spaccato da una frattura che si anima in una cascata di led, opera che viene scalata nel finale dai protagonisti con un ultimo slancio di fiducia nell’amore. E’ così innovativa la concezione dell'azione che la musica, quella classica di Prokovieff, risulta a tratti eccessiva. Memorabile la scena immersa nel silenzio, con la danza scandita dal battito amplificato del cuore e la proiezione delle sue onde sonore in un disegno colorato. Alla fine il pubblico tributa un lungo applauso a Plessi, insieme al coreografo e a tutta la Compagnia. Di ritorno dalla tournèe a Bilbao (lo spettacolo è atteso con una serie di repliche in tutta Europa per tornare a fine anno in Italia), Fabrizio Plessi ci concede questa intervista, che è uno straordinario e prezioso racconto non solo del suo excursus nel teatro, ma soprattutto della sua arte e del suo pensiero.
Riprendiamo da dove ci siamo lasciati… "Romeo e Giulietta" tocca temi universali, come l’amore, i contrasti sociali, il destino… Qual è la chiave di lettura plessiana, in una storia teatrale e musicale così connotata?
Plessi: Romeo e Giulietta fa parte di una trilogia Shakespeariana. Il primo lavoro è stato “Sogno di una notte di mezza estate”, quest’anno il "Romeo", tra due anni faremo “Macbeth”, sempre con Aterballetto e Bigonzetti, questa è una notizia ancora riservata ma che le posso già annunciare. In questi lavori io ho posto una sola condizione, quella di avere una completa autonomia, per i costumi, per la scenografia, per la regia e per tutta l'inventiva dell'opera. Tutto nasce dall'idea della velocità, come tema dei giovani di oggi e come velocità dell'innamoramento come ostacolo della nostra vita. Così ho voluto stravolgere i temi di cui è sempre infarcita questa storia eliminandone tutto il kitsch, volevo che fosse un'opera pulita. I temi della passione, della morte, del destino erano quelli che mi interessavano veramente.
Dal progetto all’evento, qual è il momento che ha secondo lei il maggior impatto emozionale, il più rivelativo attraverso l’interazione dei ballerini con le sue opere?
Plessi: In scena ci sono 10 Giuliette e 10 Romei, è stato sconvolto tutto il percorso narrativo, ma resta una rappresentazione carica di sentimenti. Credo si sia ottenuto un contenitore di emozioni molto minimale, sul rapporto uomo/donna. Il coreografo ha lasciato spazio libero a me come scenografo, per cui ci sono pochi elementi ma che danno ritmo e significato all'azione. Le mie opere hanno già in quanto installazioni una dimensione teatrale, e sulla scena costituiscono una sorta di attraversamento in diagonale, come deve essere oggi l'attraversamento dei linguaggi. Per i costumi, ho voluto solo indumenti che si usano per la protezione del corpo nel motociclismo, l'idea è che noi abbiamo protezioni per il corpo ma non abbiamo protezione per difenderci dai sentimenti.
La dimensione del teatro, gli spazi di importanti gallerie e musei di tutto il mondo, le grandi installazioni all'aperto… Fabrizio Plessi lavora in grande… Le sue opere sono notissime, ricordiamo anche la sua partecipazione a "Bologna 2000" con l'installazione in Palazzo d'Accursio; con la Galleria Maggiore è sempre presente in Artefiera, ed anche recentemente le è stata dedicata una mostra di opere storiche. Ma come nasce una nuova opera di Plessi? Come sono materialmente costruite le sue installazioni?
Plessi: Io mi considero un artista contemporaneo, che rientra nella grande tradizione dell'arte italiana. Ho una équipe di persone che lavora con me, una quindicina, come in una bottega del Quattrocento, ho un tecnico del suono, uno delle luci, uno per le riprese video, gli artigiani che lavorano la pietra, il marmo, l'acciaio, il legno. E' questa la struttura che supporta tutte le mie fantasie. Io ho 6000 progetti inediti nel cassetto, sono un numero elevatissimo perché io sono veramente ricco solo di idee, e sono idee sempre in grande… per me è una sofferenza pensare ad ambientazioni piccole. Io lavoro moltissimo sulla carta, dove prendono forma le idee, che poi realizzo quando c'è un committente che richiede un'opera, un committente che spesso è un museo. Il 90% delle mie opere va ai musei. Quando si passa alla realizzazione, allora comincia il lavoro d'équipe, in un certo senso ogni mio lavoro è come un'opera wagneriana di cui io dirigo ogni parte nei minimi dettagli.
La questione degli elementi naturali, l’acqua, il fuoco, la loro immagine filmata, la struttura del linguaggio, oggetto, significato e significante, può essere un aspetto difficile da cogliere per uno spettatore. Potrebbe aiutarci a capire come si guarda una sua opera?
Plessi: Ogni mia opera crea emozioni, con l'acqua, col fuoco, con l'aria, con la luce. La complessità è nella costruzione che richiede molta tecnologia per risolvere i fattori pratici; video, suoni, immagini, materiali, tutto deve funzionare come un'opera totale. Per me l'adrenalina comincia a muoversi quando devo pensare un'opera gigantesca, ad esempio "La Flotta di Berlino", che ho fatto per il Gropius Bau di Berlino nel 2004, è un'opera che ha una dimensione di quasi 800 metri quadrati con 12/15 barche che si muovono sulla testa delle persone, all'interno delle barche c'è del fuoco digitale, ci sono le luci, le ombre, le meccaniche, è un'opera molto complessa.
Qual era il suo sogno di ragazzo quando da Reggio Emilia è andato a Venezia a studiare arte? e in quella città ha avuto presto un serie di riconoscimenti, come la partecipazione delle sue installazioni già nel 1970 al Padiglione sperimentale della Biennale?
Plessi: A me non interessava diventare ricco e famoso, il mio sogno era esporre in tutti i più grandi musei del mondo, e ci sono riuscito. Sono stato fortunato. Ho esposto al Guggenheim di New York, a quello di Bilbao, al Centre Pompidou, al Ludwig di Colonia, alla Fondazione di Barcellona. Il mio lavoro oggi è lo stesso di sempre… direi che sono un navigatore solitario, non sono affiancato a nessuno, tantomeno alla Video Art che non mi interessa per niente; solo che adesso c'è un grande mondo che accoglie le mie opere, ma io ho fatto questo lavoro fin dall'inizio, e sono stato il primo in Europa, quando tutti in Italia compravano i Guttuso, i Morlotti, i Cassinari… tutta questa pessima pittura, io facevo dei video, facevo le mie prime opere sulla tecnologia perché già allora sapevo che la tecnologia sarebbe stato il motivo trainante del nostro tempo, sapevo che ci sarebbe stato un decollo vertiginoso delle tecnologie, già negli anni settanta. E io usavo i video quando non lo faceva nessuno, video che erano ancora in bianco e nero perché non c'era il colore; nuove tecnologie che nel tempo sono diventate "archeologie", ma in un momento in cui ancora si faceva della pittura di tipo tradizionale era davvero la ricerca di un linguaggio completamente nuovo. Ed ero davvero l'unico, c'era Paik in America, e Bill Viola che è venuto dieci anni dopo di me. Io poi sono rimasto fedele a me stesso.
Qual è il suo pensiero sull’arte di oggi, sui giovani e sulle nuove tendenze?
Plessi: Ho una specie di diffidenza per quello che viene fatto oggi col video, per questi giovani da cui prendo volentieri le distanze poiché non mi ci riconosco affatto. Loro dovrebbero essere grati a me per aver aperto le porte di questo mondo, invece oggi c'è un oblio sulla memoria storica di quegli artisti che hanno aperto alla cultura di oggi. A costo di essere antipatico, dico che non credo che i giovani di oggi abbiano scoperto dei nuovi percorsi, si sono adagiati sulla ricerca degli anni settanta che abbiamo fatto noi in quegli anni, e questa esasperazione del video e della fotografia a me non convince. Io resto legato alla mia ricerca, al mio mondo, e alla ricerca di emozionare ancora se possibile gli spettatori.
Il mondo dell’arte sembra oggi più che mai una grande macchina per schiacciare i sogni. Ai suoi allievi di "Umanizzazione delle Tecnologie" riesce a insegnare il segreto per rendere più umano un mondo sempre più tecnologico?
Plessi: "Umanizzazione delle Tecnologie" è stata una Cattedra che è stata istituita apposta per me a Colonia, ma io insegnavo all'Accademia di Belle Arti di Venezia, alla Cattedra di Pittura.
E insegnava proprio a dipingere?
Plessi: Certo, io sono bravissimo a dipingere. Io ho grandi doti innate per la pittura, che non significa nulla con l'arte; a quindici anni ero capace di copiare le cupole seicentesche perfettamente. Quindi per anni ho insegnato pittura, ma quando mi hanno offerto la Cattedra di Umanizzazione delle Tecnologie mi sembrava proprio l'ideale per insegnare a dei giovani artisti a utilizzare le nuove tecnologie. Se noi non conosciamo la tecnologia e non la amiamo, noi la subiremo passivamente e ne diventeremo schiavi. Sono lontanissimo dalle teorie di Mc Luhan, la mia posizione è chiara, il medium è medium, il messaggio è il messaggio; io cerco con il mezzo televisivo che è una delle più belle invenzioni del nostro tempo di dare ancora emozioni e cultura. Oggi credo sia importante che una persona che entri dentro una mia mostra provi un'emozione, con quelli che sono i miei materiali, con l'acqua, col fuoco, con l'aria, con la luce.
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