Daniela Bellotti  "Scritti sull'Arte"                                                                                                 Le mostre
ANTONIO LIGABUE. Espressionista tragico

REGGIO EMILIA Palazzo Magnani

GUALTIERI Palazzo Bentivoglio

28 maggio - 16 ottobre 2005

testo pubblicato in: ART JOURNAL           sett-ott. 2005
Ligabue, "Autoritratto"
Ligabue, "Autoritratto"
Ligabue, "Il re della foresta"
Ligabue, "Leopardo con serpente"
Ligabue, "Tigre reale"

PER FAVORE, NON CHIAMATELO NAIF

A Reggio Emilia e Gualtieri la più vasta antologica mai realizzata su Antonio Ligabue.

Quarant’anni fa moriva Antonio Ligabue; un vita vissuta ai margini, complicata fin dall’infanzia da eventi che segnarono un carattere difficile e scontroso e l’insinuarsi di quella sofferenza che non lo abbandonò più, che fu compagna nelle sue peripezie esistenziali. Era nato nel 1899 a Zurigo da Elisabetta Costa, una operaia friulana immigrata e da padre ignoto; l’abbandono della madre fu l’inizio di una penosa odissea: il rapporto di amore e odio con la famiglia svizzera-tedesca che lo ebbe in affido, l’internato al collegio per bambini handicappati, a soli diciotto anni il primo ricovero in manicomio. Dalla Svizzera fu espluso infine nel 1919 e condotto in Italia, a Gualtieri, il paese di Bonfiglio Laccabue, l’uomo che aveva sposato la madre e gli aveva dato il cognome, che più tardi Antonio mutò in Ligabue. Ma nella campagna reggiana lo aspettavano anni durissimi, lavori saltuari nelle campagne lungo il Po, e la spirale che non avrebbe mai spezzato di una solitudine e una diversità, che per gli altri era disturbo mentale, pazzia. Ci furono allora i ricoveri all’istituto psichiatrico di Reggio Emilia, in altri momenti fu l’ospizio dei poveri di Gualtieri a dargli asilo.

Ma la storia di Toni “il matto”, pur con tutta la sua valenza umana, sarebbe solo aneddotica, se in lui non si fosse manifestata una di quelle strane commistioni tra selvatichezza e genio che dettò alle sue mani la realizzazione di veri e propri capolavori, con la consapevolezza intuitiva del loro valore, con un amore e una passione che ne fanno una delle pagine più straordinarie dell’arte del XX secolo. Una vicenda, quella di Ligabue, che ancora oggi fa riflettere e affascina, poiché rappresenta in modo paradigmatico, come quella di Van Gogh, uno degli aspetti più liberi della creatività, che fiorisce dalla sofferenza e dalla diversità, da quel lato oscuro della mente che, nell’assedio dei turbamenti, trova un linguaggio intensissimo per esprimersi. Ligabue è ancora oggi oggetto inesauribile di studio: la singolarità del personaggio ha ispirato opere cinematografiche, teatrali e letterarie; i luoghi dove visse, compresa la Svizzera, si contendono celebrazioni ed eventi, a lui dedicati; mentre la sua parabola artistica è per i critici argomento non privo di sottigliezze teoriche. Ci si chiede se Ligabue sia stato un vero e proprio naif, un artista selvaggio sul quale nessun tipo di condizionamento culturale abbia influito; e se tuttavia questa lettura non sarebbe comunque riduttiva. Difficile resistere all’idea che la vera natura del suo ingegno creativo non fosse già in quei gesti primordiali con cui modellava l’argilla sulle rive del fiume, lavorandola coi pollici, e raffinando e ammorbidendo la terra in bocca, per trarne una statuetta in forma di orango, di bue, di tigre… Ancora aperta è la questione degli stimoli che egli certamente trovò alla sua fantasia, da quali fonti derivasse la sua strana iconografia fitta di animali feroci esotici, come il mondo delle immagini “popolari” abbia influito su di lui attraverso i libri illustrati, le figurine, i film, insieme alla sua passione per i musei di storia naturale, per il circo.  A molti critici, ed è anche la chiave di lettura proposta dai curatori della mostra “Antonio Ligabue. Espressionista tragico” in corso a Reggio Emilia e Gualtieri, sembra più corretto intendere la sua capacità sorgiva di disegnare, modellare, e più tardi dipingere a olio come un espressionismo, affine alle correnti mitteleuropee a lui contemporanee. Quanta consapevolezza stilistica ed espressiva c’è nei suoi numerosissimi autoritratti, in cui pare monitorarsi davanti allo specchio, spiando i lampi di uno sguardo che alla fine si distoglie, che si guarda alle spalle, come un animale braccato? Quanto influirono su di lui gli insegnamenti, l’aiuto e il sostegno che dal 1929 egli trovò in artisti e conoscitori come Marino Mazzacurati, che intuì la straordinarietà delle sue opere e lo rifornì di materiali per dipingere e gli insegnò la tecnica a olio, affrancandolo in parte dalla miseria?

Oggi, sotto i soffitti affrescati di Palazzo Magnani a Reggio Emilia e nelle sale di Palazzo Bentivoglio a Gualtieri è stata ripresentata con una vastità e completezza mai raggiunte prima la sua produzione (centodieci dipinti quasi tutti di grandi dimensioni, opere su carta, settanta sculture in terracotta ed esemplari in bronzo). Alle pareti scorre uno sfavillante bestiario di belve esotiche ruggenti e di animali domestici, tutti alle prese con insidie e lotte, serpenti e leoni, tigri e gazzelle, gatti e topolini, galli e volpi; nella giungla come in campagna, non c’è pace, il pericolo giunge dal fulmine che spaventa i cavalli, dalla frusta per i buoi attaccati all’aratro, dalla tempesta che s’annuncia sul paesetto in distanza… nessun viaggio, nessuna giornata senza pericoli, senza l’incubo di un artiglio che strappa alla tana; anche nei ritratti e negli autoritratti, ossessivi, impietosi, troviamo gli stessi occhi di bestie braccate, lo sguardo allarmato, sentore di paura. Se l’arte è la capacità di trarre da un punto dolente e sensibile dell’anima immagini di valore universale, per dire quello che per molti resta inespresso e muto, Ligabue fu artista nel senso più compiuto poiché nelle sue opere folli e struggenti, seppe infondere la dilaniante verità del vivere, l’eterna contrapposizione di bellezza e disfacimento, eleganza e violenza, il dramma quotidiano tra sopravvivenza e morte.

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