Daniela Bellotti "Scritti sull'Arte"                                                                                                                Gli artisti
LUIGI MAINOLFI

Villa delle Rose,
Bologna, 1994

 "Il Resto del Carlino"
15.6.94

Finestrelle aperte su paesaggi di ferro

Una mostra paradigmatica è quella dedicata a Luigi Mainolfi, a Villa delle Rose dove i curatori hanno cercato di cogliere, pur attraverso un numero ristretto di opere, la ricchezza ideativa e stilistica di sedici anni di lavoro di uno dei massimi scultori italiani contemporanei. Sortito dalle propaggini dell'Arte Povera sul finire degli anni Settanta, dopo alcune esperienze nell'ambito della performance, Mainolfi seppe intuire culturalmente e realizzare al momento giusto un ritorno alla manualità operativa, abbandonando l'estetica del concetto e recuperando piuttosto il senso insieme magico e umile di una dimensione antica, mitica dell'artifex, di colui che plasma e costruisce con la materia. Di quel primo momento di rottura e apertura al nuovo, che per Mainolfi coincise con la realizzazione nel 1979 della grande opera in gesso "La Campana", è presente in mostra una formella della serie appunto delle "Storie della Campana". Vi è già molto del Mainolfi che di lì a poco saprà inventare tratti inconfondibili, nel dare forma alla terracotta soprattutto, ma anche al bronzo, al ferro, al legno; e soprattutto c'è l'artifex, c'è la figura dell'uomo-animale, dell'uomo come forza bruta che spinge verso l'alto e quasi si fa tutt'uno con la sfera inerte della materia. Nelle opere dell'82 la terracotta ha già raggiunto quell'aspetto epidermico che sarà caratteristico dei lavori di questo artista, una superficie che pare spugnosa, dove la pressione delle dita ha lasciato tracce di affondamento morbido, gustoso nel suo corpo duttile. Ed è probabilmente dalla esaltazione del piacere tattile del contatto con la materia che nascono le cose migliori, e da cui si dipana feconda la metamorfosi delle superfici: come "Tigre nero" dell'84, totem conoide che ben rappresenta quell'aspetto organico, tutto gonfiori e slabbrature che fa di queste realizzazioni suggestivi luoghi di una genesi dove elementi maschili e femminili sono strutturalmente amalgamati. Vengono poi tutte le filiazioni, dalla primigenia campana le serie di battacchi, di mazze da percussione, elementi sonori e simbolici come le nacchere-conchiglie. Le opere più recenti rivelano una sorta di raffreddamento, l'epidermide delle forme che era calda e quasi in fermento di gestazione, si regolarizza nelle monumentali strutture piramidali degli anni Novanta, su cui si imprimono a stampino minute finestrelle, le "Città", che le ricoprono di piccole e regolari vibrazioni. Ancora più freddi i "Paesaggi" in ferro, dove la stessa dedizione alla modulazione della superficie è realizzata con lamelle sovrapposte. "Scarabocchi" è il punto d'arrivo, l'opera più recente esposta: una struttura completamente aperta, tubolare, in ferro, maculata qua e là, impressa lungo la superficie di finestrelle, quasi lanciata a percorrere con movimento ondulato e quasi casuale l'ambiente.

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