Frans Pointl – De Kip die Over de Soep Vloog

[Il sopravvissuto]

at-work

I superstiti

Heemstede, 1987

Aprii il cancelletto. L’accesso alla parte del giardino dietro casa era sbarrato da un brutto recinto di legno con dentro una porta.

La porta d’ingresso si aprì. Una ragazzina grassa sui quattordici anni mi venne incontro.

"È venuto per gli avvolgibili?"

Sicuramente avevano messo un annuncio sul giornale. Subito mi immedesimai nel ruolo del compratore interessato e annuii.

"Sono di là, vicino allo sgabuzzino, venga!" Aprì la porticina nella staccionata.

Il giardino. Non era più meravigliosamente inselvatichito e dov’era finita l’edera? A sinistra il pero, a destra il melo. In occasione delle mie - segrete – visite precedenti nel giardino mi era capitato di rubare una mela o una pera. Frutti di un paradiso nel quale ero rimasto otto anni. Mangiarle non aveva riportato indietro alcuna meraviglia.

Indicai gli alberi. "Danno ancora frutto?"

"Sì, ma non molto."

La bambina indicò un mostruso ripostiglio che aveva inghiottito una parte dello splendido giardino. "Ecco, le tende sono qui."

Attraverso le porte chiuse del giardino notai che la parete tra la camera posteriore e la cucina era stata abbattuta. Una cosa così la chiamano una "cucina aperta". Fui sul punto di arrabbiarmi. Dal punto di vista materiale si trattava della casa di qualcun altro, ma da quello sentimentale era la mia.

Palpavo la tela arancione sbiadita mentre la ragazzina cominciava a blaterare sulle misure e sul prezzo.

"Oggi i miei genitori non ci sono," disse.

"Che peccato." La mia parte di aspirante alle tende avrebbe forse potuto portarmi per un po’ tra le mura della casa.

"Adesso le ha viste, può telefonare domani." Entrò dentro e ritornò con un biglietto da visita. John W. Frost – Importatore per il Benelux di forni a microonde e lavastoviglie Durrell. "Mio padre è americano," disse orgogliosa.

Com’era venuto in mente ad un americano di comprare la mia casa? Ancora una volta lanciai uno sguardo nel giardino. Mi sentii sopraffatto da un’ondata di silenziosa familiarità. Voci e odori noti, inconsapevolezza, e pace. Per un momento ci fu un bambino con il mio nome.

Heemstede, 1940

Tutti i fine settimana sono a casa. Non si sta bene al collegio. Il nonno, la nonna e la zia Henriëtte, la zia più giovane della mamma, abitano da noi. La zia Jet assomiglia alla mamma quando lei era molto più giovane.

Nel giardino ci sono sedie a sdraio di tela a strisce rosse e bianche. Dalla cucina si spande l’aroma della zuppa con le polpette di pane azzimo. Il nonno porta un abito nero a righine con un largo colletto bianco di celluloide. La sua cravatta è appesa ad un elastico. Le punte dei suoi baffi bianchi sono arricciate verso l’alto. Va in giro facendo rumore con qualche attrezzo. La mamma si dà da fare in cucina. L’edera ha abbellito quasi tutto il muro laterale con il suo verde lucente. La mamma porta una gonna lunga bianca con un grembiule a fiori. La zia Jet si alza dalla sedia a sdraio e chiede alla mamma se può darle una mano.

Il vecchio gatto pezzato corre dietro a una farfalla, facendo un balzo ogni tanto. L’erba è alta. Qua e là ci sono fiori colorati e piante verdi. Tutto è pieno di erbacce.

Anche nella casa dei vicini le porte del giardino sono aperte. Un ragazzo dai capelli neri ricci suona il violino. Il nonno lo indica, la zia Jet guarda e ascolta. "Elgar," dice.

Arriva anche la nonna. Cammina faticosamente, appoggiandosi ad un bastone. Porta alte scarpe marroni allacciate, il suo braccio sinistro dondola fiacco, trascina la gamba sinistra, il piede è leggermente storto verso l’interno. Si ferma e ci guarda. Ridacchia. Il nonno entra e accende la radio, una grossa radio rotonda di bachelite marrone luccicante.

Macchia, il gatto, ha acchiappato un topolino. Continua a dare al minuscolo animaletto delle forti zampate. Se il topolino tenta di allontanarsi lo riacchiappa con un bel balzo e lo fa con gli artigli protesi verso l’alto. L’animaletto grigio giace insanguinato tra gli sterpi.

"Nonna, nonna" grido, "il gatto sta ammazzando il topo a forza di giocarci!"

La nonna, appoggiandosi al bastone, viene a guardare. "È la natura," dice.

Contro il muro, vicino alle porte aperte del giardino, c’è il lucido pianoforte nero. I candelabri di rame scintillano, ci sono dentro candele nuove. Il coperchio è aperto. Sui tasti è appoggiato un copritastiera viola. Forse tra poco la mamma suonerà.

Fiori e odori di cibo, voci note, il vento caldo. Sono a casa tutti i fine settimana.

Amsterdam, 1945

Di tutto quello che aveva posseduto tra esseri umani e oggetti le erano rimasti: io e il vecchio pianoforte Steinbach.

Ho quasi dimenticato lo zio Simon, il dottore. Era come se lui non fosse ritornato. L’avevamo visto per l’ultima volta nel 1941, quando stava da noi a Heemstede con la zia Lies e i grassi gemelli, Simon e Nico. Dopo la liberazione ci scrisse che era diventato medico sulle navi, che non aveva mai avuto nostalgia della famiglia e che per il momento non era in vena di visite. La lettera veniva da Atene. Non sapevamo ancora che l’alcool era diventato la sua via d’uscita.

Ogni volta che arrivava una lettera dalla Croce Rossa, la mamma tirava fuori l’album delle fotografie. All’inizio non riuscivo a rendermi conto che il nonno e la nonna, la zia Jet, la zia Martha, la zia Lies e i gemelli non sarebbero mai più tornati. Forse sarebbe stato meglio che anche il piano, così indissolubilmente legato a porte aperte su un giardino odoroso che se n’erano andate per sempre, fosse scomparso. In seguito anche il grande album di fotografie scomparve senza lasciare traccia.

La mamma si iscrisse ad un gruppetto di spiritisti ebrei. Dappertutto si aggiravano e vagavano anime di defunti, mi spiegò. Ad una seduta le era stato assicurato che tutti i suoi morti erano felici e nella luce.

Spesso io cominciavo a parlare di Macchia, il nostro vecchio gatto, che avevamo dovuto abbandonare nella fretta. "Povero Macchia, spero che sia nel paradiso dei gatti."

""Gli animali non vanno in paradiso né nella luce, perché la loro anima è mortale," mi spiegò la mamma. "Perciò dobbiamo dare loro il paradiso sulla terra."

"È per questo si fa l’opposto con gli esseri umani?" chiesi io.

Lo zio Salomon e la zia Martha avevano abitato nella Beethovenstraat. Lui aveva una ditta che importava frutti esotici. Entrambi i figli erano diventati commercianti. Attraverso ogni sorta di vicissitudini mia madre aveva ricevuto in quei giorni una suo lettera da Westerbork. La lettera diceva che egli aveva affidato diamanti, gioielli d’oro, portatovaglioli d’argento, damasco in custodia al suo vicino del piano di sopra, l’ispettore di polizia Gortjens.

All’inizio di ottobre andammo a cercarli.

Sulla scala nella Beethovenstraat mia madre disse che era strano oltrepassare così la porta dello zio Salomon.

Gortjens era sulla sessantina, era alto e grosso. La sua testa era stranamente storta, come se guardasse tutti dall’alto in basso. Mi colpì il suo mento stranamente rientrante – o forse non aveva proprio il mento. Aveva un grosso paio di baffi sotto cui pareva non ci fosse una bocca.

Quando mia madre si sedette, esaminò attentamente la stanza intorno. Notai che Gortjens accompagnò il suo sguardo.

"Mio fratello e mia cognata, che vivevano al piano di sotto, non sono ritornati" disse.

Gortjens annuì. La porta della stanza si aprì ed apparve una donna. Era grassa e pesante e aveva gli occhi sporgenti. La sua testa posava su di un enorme collo. Aveva piccole mani rotondette che sembravano zampette di porco.

Mia madre raccontò della lettera. Gortjens alzò le spalle con indifferenza. Allargò le braccia come un venditore al mercato.

"Non ho mai ricevuto niente in custodia. Vede forse qualcosa che riconosce qui?"

Sarà di certo negli armadi, pensai.

Ancora una volta mia madre elencò gli oggetti che erano nominati nella lettera, al che Gortjens le chiese di mostrargli la lettera.

"È andata perduta".

"Dunque non ha nessuna prova". Si accese un sigaro e ci fissò con uno sguardo pieno di disprezzo.

"Pensa forse che mio marito stia mentendo?" chiese bellicosa la signora Gortjens. Durante la conversazione non aveva mai smesso di passarsi la mano tra i capelli. Vidi che aveva le sopracciglia finte: spesse striscioline nere che si dipartivano diagonalmente verso l’alto a partire dalla metà della sua fronte convessa.

"Dovevate sapere una buona volta quello che ne penso" disse mia madre e si alzò.

"Quell’ispettore di polizia è cattivo come i ladri che deve arrestare" disse lei mentre camminavamo nella Beethovenstraat.

Improvvisamente mi resi conto che stavo andando avanti da solo. Mia madre si era fermata davanti ad una porta e stava leggendo le targhette con i nomi. Tornai indietro.

"Anche lei non c’è più, qui abitava la signora de Leeuw".

"Oh" dissi io, che non avevo mai incontrato la signora de Leeuw.

A volte mi sentivo pieno di morte e senza vita. Non ero capace di essere incontrollabilmente felice come i miei compagni di classe.

Amsterdam, 1946

Avevo appena tredici anni, ero magro e piccoletto. Ripetei la sesta classe. A scuola mi soprannominavano zuurkool, "cavolo acido", grazie a Martin van der Meer che mi tormentava in tutti i modi possibili e che incitava anche gli altri a farlo. A casa non potevo parlarne. Mia madre si ritraeva sempre di più in se stessa. A volte ricevevo a malapena una risposta ad una domanda o ad un’affermazione. Le persone affrante che ogni tanto venivano da noi elencavano nomi e mia madre annuiva. Morte, morte, dicevano. E questo continuava ad echeggiare dentro di me. La vita sembrava essere fatta di morte pura.

Un sabato pomeriggio stavo ritornando da scuola. Il sole splendeva. Meditabondo camminavo lungo la Lutmastraat. Improvvisamente dietro l’angolo con la Toldwarsstraat Martin e Theo van der Harst mi saltarono addosso. Non ero bravo a picchiarmi e ormai era troppo tardi per scappare. Mi strapparono di mano la cartella e mi buttarono per terra. Ridendo, Theo mi tenne fermo per i polsi mentre Martin, seduto sul mio petto con il viso trionfante del vincitore, mi prendeva a pugni in faccia.

Arrivai a caso con il naso sanguinante, un occhio nero e un labbro spaccato. Anche i miei vestiti erano a pezzi e questo sembrò essere la cosa più grave per mia madre. Non avevamo soldi per comprare vestiti decenti. Ricevevamo dei buoni dall’assistenza sociale. In un grosso magazzino di abiti usati una donna indifferente mi prendeva le misure. Antiquati pantaloni a strisce troppo larghi, giacche troppo lunghe, camicie che mi stavano grandi, scarpe ridicole. Grazie alla carità me ne andavo in giro come un pagliaccio. Forse era per quello che mi chiamavano "cavolo acido"?

Una volta avevo visto nel magazzino anche Gerda, la timida ragazzina ebrea della quinta. Quando mi vide diventò rosso fuoco e si affrettò a girarsi dall’altra parte. Poi mi avrebbe raccontato che le bastarde della sua classe la chiamavano azijn: "aceto".

"I tuoi vestiti, tutti strappati, per Dio!" reagì mia madre mentre ripassava con violenza il fazzoletto bagnato sul mio labbro e sul mio naso.

"Forse all’assistenza sociale hanno ancora qualche bell’abito da cerimonia usato" dissi io sprezzante.

Gli altri avevano un padre che poteva intervenire per loro quando succedeva qualcosa. Io non avevo nessuno. Era impensabile che mia madre andasse dal professore a lamentarsi di Martin e Theo.

"Devo andare a scuola lunedì?"

"Naturalmente. Hai paura? Devi sempre contare solo su te stesso. Se vuoi avere ciò che ti spetta, devi saper affrontare anche le cose meno piacevoli. La settimana prossima andiamo all’Aja dal pastore van Leden, dove lavorava Henriëtte."

La notte tra la domenica e il lunedì dormii male. Sognai di buttare Martin e Theo in un canale, ma loro venivano fuori e io dovevo scappare. Alle sei e mezza mi svegliai tremante.

Arrivai sulla piazza davanti alla scuola troppo presto, non c’era ancora nessuno. Fui molto sorpreso di vedere Martin arrivare camminando svogliatamente. Tirò fuori una mela di tasca, le diede un morso e si appoggiò masticando al muro della palestra. Mi vide, ma fece finta di niente.

Fu come se io rimanessi lì ed un altro se ne uscisse da me. L’altro si diresse verso Martin, lo afferrò con forza per la testa, gli fece cadere la mela. L’altro prese a sbattere violentemente la testa di Martin contro il muro. “Questo è per sabato, due contro uno, eh? Sporco provocatore, ipocrita (gladakker), anche a voi avranno dato da custodire cose che non avete restituito!” Quando lo lasciai andare fui stupefatto al vederlo piegarsi sulle ginocchia senza un lamento, sbattendo ancora una volta la testa sulla pietra. Uno spesso fiotto rosso cominciò lentamente a colare sulla strada grigia. Mi voltai e mi incamminai verso casa: non avrei mai più potuto ritornare a scuola. Solo nel punto in cui mi avevano picchiato (afgerost) il sabato incominciai a tremare. Arrivato a casa mi imbattei nella mamma, curva sull’album di fotografie. Vicino c’era una lettera della Croce Rossa. Quello che stava passando in quel momento era più importante di quello che preoccupava me. Non sembrò rendersi conto che avrei già dovuto essere a scuola. “Ti ricordi della zia Tippi?” mi chiese. Di lei mi ricordavo. All’inizio della guerra eravamo andati a visitarla nell’ospizio ebraico sulla Weesperplein. Era una personcina vecchissima e rinsecchita. Chiedeva continuamente alla mamma: “Chi sei tu, e chi è quello?” e mi indicava. Non riuscivo a credere che i tedeschi fossero andati a tirare fuori dall’ospizio per anziani quelle persone vecchissime, che erano ormai praticamente morte, per spingerli nei vagoni merci e condurli alla morte lontano da Amsterdam. Feci finta di avere il mal di testa e andai a sdraiarmi sul letto. Mia madre rimase a lungo curva sull’album, come una statua di cera. Dopo un’ora decisi di dirle cosa era successo. “Bravissimo, occhio per occhio, dente per dente” replicò lei, aggiungendo: “E domani a scuola come al solito”. Nel pomeriggio suonarono alla porta. Infuriati, i genitori di Martin fecero irruzione al piano di sopra. “Nostro figlio ha una grossa ferita alla testa e una forte commozione cerebrale. È stato suo figlio a maltrattarlo, andremo dalla polizia e dall’avvocato!” gridarono. Per un attimo pensai che l’uomo mi avrebbe messo le mani addosso. Improvvisamente mia madre si mise di fronte a me, con mezza pagnotta in una mano e nell’altra il coltello del pane, che puntò contro gli infuriati coniugi. La sua calma mi stupì. “Vostro figlio e un altro ragazzino hanno intrappolato mio figlio e l’hanno riempito di botte, due contro uno, capito? Vedete che ha un occhio nero, e il labbro e il naso spaccati? Forse adesso vostro figlio avrà imparato la lezione. E ora fuori da casa mia.” Fece un passo in avanti e agitò il coltello. I suoi occhi scuri lampeggiavano. I genitori di Martin indietreggiarono (deinsden) fuori dalla camera. “Si sono dimenticati di gasarvi!” strillò la donna dalle scale. La faccenda ebbe delle conseguenze umilianti per me. Venni convocato dal preside. Mi definì anormalmente aggressivo e disse che ero un tipo lombrosiano, perché avevo le sopracciglia unite. Mi predisse che da grande sarei finito sulla forca. Come punizione, per tre settimane dovetti stare in piedi sotto il grande orologio vicino all’entrata tutti i giorni dalle nove alle dieci. A casa evitai di parlarne. Mia madre era già da alcune settimane in uno stato d’animo un po’ più abbordabile. Passeggiavamo lungo l’Amstel. Forse avremmo potuto attraversarlo un paio di volte con il battello, non costava niente. Indicò il casotto della rimessa dei tram e mi raccontò della ragazzina che viveva nascosta (ondergedoken) e che durante la guerra, eroicamente, veniva spesso a passeggiare qui. Il crucco nel casotto la salutava sempre con indulgenza (onderdanig). Una volta le strizzò l’occhio e tentò di darle un “Kuch” tedesco, ma - benché mezzo morta di fame - la bambina lo rifiutò. Vicino al caffé “Halfweg het Kalfje” ci oltrepassò una signora imponente dai capelli grigi. Era vestita interamente di nero. Mia madre si fermò e si girò a guardarla. Ritornò indietro, io la seguii. Si fermò di fronte alla vecchia signora. “Signora Swaab, è lei? Non mi riconosce più? Sono Rebecca!” “Dio mio, Rebecca, bambina!” gridò la vecchia signora. Si abbracciarono e si baciarono. Cicatrici di ustioni sfiguravano il collo, il mento e la guancia sinistra della vecchia signora, che notò lo sguardo inorridito di mia madre e si sfiorò il viso con il guanto di pizzo nero. “Non posso parlarne, anche tu non raccontarmi il tuo dramma.” “Che l’avrei incontrata ancora una volta, signora Swaab, io…” Interruppe mia madre per dirle che non si chiamava più Swaab, ma Mouton. “Ha sposato un Mouton?” “No… volevo liberarmi di quel nome ebreo.” Mia madre chiese se suonava ancora il piano, anche solo per proprio divertimento. La bocca della signora Mouton prese un’espressione tragica e lo sguardo dei suoi occhi quasi neri indugiò triste su di noi. “Mai più toccherò un tasto.” Mi chiese se suonavo il piano. Come se non avessi avuto voce mia madre rispose che non avevo abbastanza pazienza per farlo, ma che ero un fervente ammiratore di Liszt, Schubert e Mozart. “Mangia (nasjt) bene?” chiese la signora Mouton. Con energia inaspettata mi palpò il braccio e la spalla. “Nebbisj, com’è ossuto. Fagli delle patate con le interiora o del gefillte fisch, che li fanno crescere.” Mi accarezzò i capelli. “Isz doch mayn kind,” disse con tono lamentoso. Disse che abitava a Menton e che purtroppo non avrebbe più avuto tempo per farci visita. Aprì (knipte) la sua borsa nera e ne pescò un biglietto da cento fiorini. “Tieni, Rebecca, sono sicura che ti può servire”. Mia madre arrossì e fece dei gesti di diniego. “Non posso accettarli”. “Bimba mia, non lamentarti, prendi.” Ficcò i soldi in mano a mia madre e richiuse la borsa. “Adesso devo proprio andare”. Baciò mia madre e mi porse la mano. Continuammo a camminare un po’ sopraffatti. Di fronte al cimitero Zorgvlied andammo a sederci sull’argine e a guardare l’acqua e i tranquilli campi verdi. Abigaïl Swaab era stata ai suoi tempi una celebre pianista, mi disse mia madre. Aveva dato concerti a New York, Berlino, Varsavia, Mosca. Era stata un’amica di mia nonna. Mi sembrava una cosa portentosa che la signora Mouton avesse conosciuto mia madre quando era una scolaretta. “Quanti anni ha la signora Mouton?” “Un’ottantina, ma ha ancora qualcosa della sua grandeur di prima”. Mi meravigliavo che qualcuno desse via così, come se fosse un fiammifero, l’enorme cifra di cento fiorini. Mia madre indicò l’Amstel. L’acqua fluiva. “Un fiume così se ne scorre indisturbato…” Io pensavo alla signora Mouton, mi aveva intrigato. “Vuole liberarsi dal suo nome ebreo, però parla yiddish”. “Chi,” disse mia madre assente.

[To be continued]

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