Il treno
Una domenica pomeriggio d’estate, sul diretto delle 18 e 24 per Milano Centrale salì un signore biondo sulla quarantina, vestito correttamente. Nella destra stringeva una cartella di cuoio marrone lucido, nella sinistra il Corriere della Sera. Portava un paio di occhiali dalla montatura dorata e, avanzando senza fretta nel corridoio, si guardava intorno cercando un posto dove sedersi. Era uno di quei treni a due piani che in riviera fanno servizio da locali, intrisi di lentezza e di polvere nel cuoio colorato dei sedili, strappato e ricucito a punti grossolani, istoriato di parolacce, di nomi e di date di molte estati fa. Dai vetri sporchi e opachi ancora per un po’ si sarebbe intravisto l’azzurro del mare.
Non c’era molta gente - benché l’orario fosse proprio quello del rientro - e i posti a sedere non mancavano, ma il signore con gli occhiali non si decideva a scegliere. Procedeva lentamente, osservando i passeggeri con occhi seri e un po’ miopi. Qui c’era una coppia giovane con due bambini piccoli, di fronte un ragazzo infervorato in una lite telefonica, un gruppo di ragazzine che non smettevano più di ridere, una signora anziana che lavorava all’uncinetto. Infine il signore con la Lacoste scorse un posto che sembrava gli andasse a genio.
– È occupato?
– No, aspetti… adesso la tolgo.
Per un attimo, mentre attendeva che la ragazza spostasse la valigia sotto al sedile, un’impercettibile soddisfazione parve aleggiare sulle sue labbra sottili. Poi si accomodò, appoggiando fermamente, ma con delicatezza la cartella sul sedile accanto al proprio. Ebbe cura di aprire il giornale in modo da non doversi trovare nell’imbarazzo di incontrare lo sguardo della sua dirimpettaia, o di doverlo evitare.
La ragazza che gli stava seduta di fronte sembrava sprofondata nella lettura del suo libro, un’edizione tascabile di un qualche autore famoso. Era la persona ideale per quello che avrebbe fatto quel giorno. Fin dal primo sguardo aveva sentito che era proprio quello che ci voleva. Un’antipatia profonda ed istintiva lo aveva spinto a sceglierla per la sua missione. Innanzitutto la valigia, che non era una vera valigia, ma una borsa di tela multicolore tutta strappata e sporca, che lei ovviamente non aveva esitato a piazzare sul sedile. Certo, doveva essere piuttosto pesante. Ancora una volta un vago sorriso gli sfiorò le labbra, mentre dietro al giornale si trastullava con l’idea che avrebbe potuto esserle d’intralcio quando avrebbe voluto scappare. Del resto, non ci sarebbe stata alcuna possibilità di scappare per lei. Poi gli stracci che portava addosso, i pantaloni militari tutti stracciati e gli scarponi infangati, una maglietta troppo succinta e scolorita che lasciava scoperto il piercing nell’ombelico. Un’infinità di braccialetti e collane di perline colorate. I capelli, un ammasso informe di trecce rasta aggrovigliate e sporche. Una donna che non meritava neanche di essere definita tale, tanto evidente era il suo disprezzo per la femminilità e per la grazia tipica del suo sesso. Probabilmente si credeva molto libera ed alternativa, il tipo che si allontana lasciando il portafoglio nella borsa sul sedile perché si fida del suo prossimo.
Finalmente stasera avrebbe avuto la sua lezione. Una lezione che le sarebbe bastata per sempre. Per qualche minuto nella mente dell’uomo con gli occhiali si aggirarono immagini di un passato cancellato, di una scuola dove era stato sbeffeggiato per il suo aspetto e la sua mentalità borghese, ma quella era acqua ormai passata. Non erano più loro ad essere forti, ma lui. Chissà cosa avrebbero dato per avere l’opportunità di implorare pietà, un’opportunità che lui non avrebbe mai dato a nessuno.
Si permise il lusso di abbassare il giornale e di guardarsi intorno. Un’occhiatina al panorama, alla pseudo-pezzente seduta in una posizione che pareva l’incarnazione dell’arroganza, a gambe larghe, con i piedi appoggiati al bordo del sedile di fronte a pochi centimetri dalla cartella di cuoio lucido, gli occhi sempre incollati alla pagina. Poi chiuse gli occhi e per qualche minuto ascoltò i rumori del treno, il pianto dei bambini, il russare di un passeggero addormentato, le risate, una discussione infuocata su una partita di calcio, lo squillare dei telefonini. Era un’umanità che lo disgustava nel profondo, ne vedeva tutta la bruttezza, la sporcizia, i difetti e assaporava quello che sarebbe accaduto di lì a poco, esultando sornione al pensiero della lettura dei giornali nei giorni successivi e della propria scontata impunità. La sua mano, quasi carezzevole, indugiò per un istante sulla maniglia della valigetta per poi proseguire verso una tasca laterale da cui estrasse il telefono cellulare. La ragazza dal sedile di fronte gli concesse per la prima volta la scontata attenzione dei suoi occhi verdi e scettici. Lui ne ricambiò lo sguardo con freddezza e si alzò in piedi, come un uomo intenzionato a fare una telefonata privata in un luogo meno pubblico.
Incidentalmente il treno stava per entrare nella stazione di Nervi. L’uomo con gli occhiali si avviò verso il W.C. del treno con passo indolente, aggiustandosi l’auricolare ed impugnando il telefono con viso concentrato. Poi, altrettanto indolentemente, attraversò alcuni scompartimenti e, un attimo prima che le porte si chiudessero, sgusciò tranquillamente fuori. Il treno si allontanava piano. La sua discesa, naturalmente, non aveva affatto dato nell’occhio.
Sul sedile di fronte alla ragazza che, concentrata, leggeva erano rimasti il quotidiano e la cartella di cuoio marrone lucido.
Un sorriso affiorò lentamente sul calmo viso dell’uomo che si incamminava nella direzione opposta alla stazione. Pregustava l’esplosione che avrebbe ridotto quella testa punk ad una poltiglia irriconoscibile.
Sì, stavolta ne era proprio valsa la pena.
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