Da: Andersen
Oggetto: Storia di Tamara [incipit]
Data: giovedì 26 febbraio 1998 20.40
Premessa: questo e' l'inizio di un piccolo romanzo, nel quale vorrei affrontare il tema
abbastanza difficile del feticismo femminile.
Storia di Tamara
==================================================================== Se interpellate i
medici, o se consultate i libri di medicina e psicologia, scoprirete che sono d'accordo
nel definire il feticismo una caratteristica prettamente maschile. Me ne sono resa conto a
diciassette anni, sbirciando i libri di mio fratello Davide - allora studente di medicina.
Mi trovavo istintivamente in disaccordo con quelle affermazioni. Per il semplice fatto che
anch'io mi sentivo una feticista. All'acqua di rose, naturalmente, perche' diciassette
anni sono pochi per assemblare devianze di un certo livello. Ma, in nuce, sentivo che in
me c'era qualcosa di diverso rispetto alle mie coetanee. Era una consapevolezza che avrei
imparato ad esprimere meglio sui vent'anni, quando finalmente il mio corpo sboccio' - come
il petalo di un fiore - facendomi sentire l'anima troppo piccola dentro. Ma durante tutta
la mia adolescenza avevo vissuto il mio feticismo come una bambinata, giocandoci senza
malizia come una ragazzina con la sua Barbie. Ripensandoci, considero quegli anni con
molta nostalgia. E non solo perche' ero piu' giovane. Poter trottare per casa col solo
collant addosso e' giustificabile fino a una certa eta'. Quale? Se si parla di
incoscienza, molti diranno cinque, massimo sei anni. Se si accenna ai primi turbamenti
sessuali, tutti converranno fino a undici, dodici anni. Lasciata quell'eta', certi
comportamenti non sono piu' giustificabili. O almeno, non lo sono piu' a cuor leggero. Mia
madre dovette avere presto delle avvisaglie che qualcosa in me non marciasse nella
direzione giusta. Subiva questo sospetto in silenzio, e io la odiavo per questo. Cercavo
in lei un conforto muto, una testimonianza zitta alla mia anormalita', ma in lei trovavo
solo sospetto, adattamento, infine una specie di rassegnazione che mi sconvolgeva. Una
parte del mio esibizionismo veniva frustrata dai suoi atteggiamenti di apparente
tranquillita', e si ribellava a volte in modo atroce. Di tanto in tanto, verso i dodici
anni, alle mie intemperanze la mamma rispondeva con delle frasi sibilline che mi
irritavano. "Stai per diventare signorina", mi diceva come cantilenando.
"Non sta piu' bene che tu faccia certe cose". Non capivo cosa intendesse
veramente per "diventare signorina". Io mi sentivo gia' una signorina, anzi: una
donna fatta. Il diventare signorina era una minaccia che vagava nell'aria e s'abbatteva su
di me non appena indulgevo palesemente nel mio feticismo. Non le credevo, pensavo fosse
una burla cattiva. Avevo seni gia' turgidi, forme ben delineate, e accenni di peluria
bionda ricoprivano le mie zone strategiche. Signorina lo ero gia'... Poi - era una
domenica pomeriggio, di un gennaio particolarmente buio e piovoso - scoprii che insieme
alle urine avevo lasciato nel WC un quarto del mio sangue. Mentre tutti si affaccendavano
attorno a me (mio padre pallido e sfuggente, mio fratello come instupidito, mia madre
frenetica e preoccupatissima) seppi che presto sarei morta. Quella era la punizione per
tutti i miei peccati. In macchina verso l'ospedale, una pila di assorbenti che m'imbottiva
il sedere e decine di asciugamani sui sedili, vedevo Milano attraverso i finestrini e su
tutto c'era un grigio opaco e fuligginoso, anche il cielo sembrava una lastra di piombo, e
io mi convincevo che stavo per morire e che tutto, tutto cio' che stava accadendo nel
frattempo era inutile e sciocco. Per vendetta, morii prima di arrivare al parcheggio
dell'ospedale. Mi sentivo bene. Ancora oggi, spesso risento nelle orecchie l'urlo
acutissimo che mia madre caccio' quando mi vide reclinare la testa sul sedile e scivolare
su di lei come un sacco vuoto. Ero contenta di morire, anche se era solo una punizione per
essere stata cattiva. L'emorragia venne tamponata quasi subito. Io ero morta, ma per
finta. Mi dispiaceva tutto questo. Ricordo, in un angolo dei corridoi bianchi e freddi
dell'ospedale, mio padre ridere con alcuni uomini severi e dire qualcosa a proposito della
tappezzeria della macchina imbrattata di sangue. Mi dispiaceva, sopra ogni altra cosa, il
fatto che la minaccia della mamma si fosse avverata, e che io fossi diventata veramente
una signorina. Ma, a parte questo, non lo sarei diventata una seconda volta.