Da: madsilk
Data: mercoledì 25 febbraio 1998 16.54
Carlo Ippolito de Seda (s/m - blasfemie)
Intro: cari amici, eccovi un altro "polpettone", e lo dico sia nel senso che e' lungo (scusami zara! prometto che presto ne postero' uno brevissiiiimoo), sia nel senso che di carne si tratta (no, non ci sono spargimenti di sangue!). questo e' un episodio tratto dal romanzo che ho scritto, un episodio cruciale nella vicenda, ambientata a parigi nel dicembre del 1990, per cosi' dire alla vigilia della guerra del golfo. non voglio tediarvi oltre con altre avvertenze, ma saro' piu' che lieta di fornire quanti dettagli vi piacera' chiedermi. ah e scusate se mi sono sfuggite delle vocali accentate... mi auguro che sia di vostro gradimento... buona lettura madd (che ci ha messo il cuore e qualcos'altro) --------------------------------------------- Percorro il viale controllando i numeri dei portoni. Mi dilungo apposta, rallento il passo, fremo. Non saranno ancora partiti. Non saranno neppure a Saint-Michel. Amore, che fai in questo momento? in un'ora sarai davanti all'ambasciata insieme a tutti quelli che gli frega di cio' che succede al mondo e vogliono farsi sentire. Qualunquista io. Urlerai tu? Come mi piacerebbe vederti... Identifico il numero, sosto davanti al portone, esito. Allungo il passo, mi soffermo davanti a un negozio di paralumi. Guardo senza vedere, tranne cioe' l'immagine riflessa del cappotto, il testino di capelli, minuta. Fico. Fica. Attraverso il cortile, suono, voce di donna. Annuncio il mio nome, il portone si apre clac. Spazzo via ogni incertezza. Cerchiamo di godercela questa giornata, che poi... proprio sicura di essere di nuovo la donna di Francois? Dietro la porta appare una donna alta, capelli castano rossiccio penzoloni lisci, insignificanti. Un viso affilato giallastro, gote leggermente arrossate, occhi spenti di nessun colore, mentone sproporzionato e sporgente con un grosso cecio, golfino grigio-verde aperto e gonna informe fino al polpaccio. Con sguardo ritroso e un paio di parole smangiucchiate sottovoce mi invita ad entrare. Attraverso un lungo corridoio mi introduce nel salotto. Una ricostruzione abbastanza fedele degli ambienti fine secolo. Caminetto lineare, il fuoco acceso, un sofa' ricoperto in parte da una pelle di leopardo. Due o tre tappeti assottigliati dal tempo, tonalita' rosso scure, accavallandosi sui bordi con l'effetto di una trascurata agiatezza e sovrabbondanza di arredo. Sulla mensola del caminetto una sfilata di ninnoli, antichita' e curiosita' reduci dai vari viaggi: un idolo primitivo, una pipa ad acqua orientale, un vaso turchese di smalto e sopra la mensola un grande specchio bucherellato di macchie nerastre di vecchio. Un paio di poltroncine secondo impero foderate di velluto a righe. Entrando mi accorgo che il salotto si prolunga in profondita', diviso da un alto e ampio arco oltre il quale indovino la sala da pranzo molto bourgeoise. Diverse piante dal fogliame lussureggiante sciorinate in ogni angolo del locale. Un profumo inebbriante, acre di incenso completa questo quadro tanto demode'. La pesante tavola imbandita sovrastata nel bel mezzo da un samovar monumentale. Davanti ad una delle alte e strette finestre di spalle Carlo, vestito scuro, taglio attillato e snello che contribuisce all'impressione di aver fatto un passo indietro nel tempo. La serva m'introduce. Resta un attimo ancora voltato verso la strada, poi subitamente si riscuote come da un sogno, si volta e sorridendo cordiale mi tende la lunga mano. La sua stretta e' onesta e franca, eppure un tantino molle nel lasciare la mia. Serviteci la colazione, Severina, poi potrete andare. La bruna accenna un goffo inchino della testa e sparisce. Aprendosi ad un larso sorriso, per aver notato il mio stupore mi apostrofa: allora, ti piace il mio buco? Ah buco? ce l'avessero certi amici miei un buco simile... ma scusa, te li sei portati da casa tua tutti questi mobili? Oh no! io non farei mai... appartengono a un amico mio, che ha accettato di affittarmi l'appartamento per il tempo che mi serve. Tutto quello che vedi e' suo; di mio non ci sono che questi piccoli souvenirs... Avvicinandosi al caminetto me ne indica uno. Mi avvicino. Uno dopo l'altro li passa in rassegna narrandomi la loro storia. E questo qui... Si sofferma un momento, prende in mano una statuina nera, cubica. L'accarezza delicatamente, poi me la porge senza darmela, me la rigira sotto il naso indicando le iscrizioni cuneiformi. Me lo lascia toccare un attimo, geloso. Le superfici straordinariamente lisce. Senti? prendilo in mano, senti. Oso. Pesantino. Accidenti! Ride soddisfatto, storcendo un poco il labbro inferiore. Ma pesa... Non aver paura di romperlo. E' un materiale resistentissimo. L'abbiamo trovata nel Kuwait, vicino alla costa, e quel che e' piú strano ancora, e' che questo tipo di pietra si trova solo in una regione del Sudafrica. Gli e' molto cara, a quanto pare rappresenta un periodo 'felice' della sua vita. Non chiedo delucidazioni e lui non ne offre. Mi fa uno strano effetto dargli del tu. Verrebbe piú spontaneo non il 'lei', ma il 'voi'. Nel frattempo un buon profumino casereccio si e' insinuato nell'odore d'incenso, in complicita' con lontani rumori tintinnati stoviglie e piatti. Se pero' l'ambiente mette soggezione, la naturalezza e la cordialita' del padrone di casa mi rimettono subito a mio agio. Quello che sorprende, e disturba un tantino, sono dei repentini, seppur temporanei cambiamenti d'umore. Sembra quasi che un velo scuro si cali sul volto. Diventa taciturno, ombroso. L'occhio si perde nel vuoto, il sopracciglio si appesantisce, la fronte si corruga. Un tremito oscuro lo scuote tutto come un conflitto interno. Talvolta e' meno di un attimo, un lampo che gli occulta lo sguardo a tal punto da sembrare un altro. Una vaga inquietudine allora mi prende, frenesia di prender su tutto e filar via. Noto il volto seppur attraente misterioso, strano, inquietantemente familiare. Una maschera. Non mi rivolta, no, mi disturba soltanto, turba i miei sensi, turba la ragione. Nel corso del pasto, a base di uova benedict, compote, crepes farcite, salmone affumicato affettato come velina, tutto molto invitante e appetitoso (ma non posso consumare tutto) bagnato di the indiano, la conversazione scivola piacevolmente di argomento in argomento, se non frivoli per lo meno mondani. Mi rilasso mi distendo e mi chiedo perchè abbia liquidato la serva. Ma e' naturale, no? Contengo il mio riso, mi rimprovero di essermi aspettata un'avventura erotica quando tutto lascia pensare ad un gradevole incontro fra amici. Dichiaro senza affettazione che il cibo e' ottimo ma che il mio stomaco, al contrario, abituato a pasti piu' ridotti, e' molto limitato nelle sue capacita' lavorative. Sorride con garbo a questa battuta banale. Parliamo della visita al museo e gli racconto pentendomene un poco della mia visita di giovedi' solo per rivedere Watteau. Elogia invece questa 'follia' estetica che, secondo lui, rivela una sensibilita' artistica non irrilevante. Gli faccio notare che e', al contrario, indice di un carattere irrequieto ma privo di romanticismi. Le sopracciglia s'inarcano un secondo incredule. Watteau e' un pittore molto 'veneziano', e' vero, la delicatezza dei suoi dipinti ricorda i tramonti sulla laguna, un periodo storico decadente, no? Bello questo pensiero, da segnare. Ma la differenza e' che Watteau rappresenta un inizio mentre Venezia, purtroppo, non e' che una fine. Fa parte del fascino di Venezia, mi dispiace ammetterlo, dovuto al senso di decomposizione che la impregna. D'altra parte, cos'e' un'inizio se non la fine di qualcosa che lo precede? se da una parte Watteau è considerato il precursore del rococo, dall'altra può benissimo dirsi il boia del barocco, dello stile Luigi XIV. Questo giro di frase non mi e' nuovo, come non mi è nuovo il pensiero, ma l'uso di una parola tanto cruda e secca come 'boia' riferita ad un pittore tanto delicato, mi fa uno strano effetto. Al momento di rialzarci da tavola, riempie di nuovo le tazze suggerendomi di portare la mia "di la' ", davanti al fuoco. L'animo si ridistende e docilmente lo seguo nel reparto salotto. Posata la tazza sul treppiedi e scartato lo scherno dal caminetto, si mette casualmente a riattizzare il fuoco. Una mano lievemente poggiata sulla mensola, una gamba piegata nella posizione incurvata della schiena. Una scultura di Degas tanto aggraziata la posa. Senso innato dell'eleganza o vanitosa cura studiata? tendo a propendere per il secondo. Imitandolo nella garbata trascuratezza e non curanza delle forme mi rilasso sul sofa, un gomito appoggiato sul bracciolo reggendo il piattino, l'altra mano molle in grembo, le gambe casualmente adagiate sul bordo del divano. Lo osservo tranquillamente, serenamente, memore di François, senza fare confronti, decisamente piú maschio, meno affettato nei movimenti e piú esuberante, piú spontaneo anche se pure lui a volte se le studia le pose. Mi prendo un'ampia panoramica della sala. Molto fin-de-siecle, molto liberty. Al museo vuoi che ci andiamo prima o dopo? Mi ha sorpreso. La voce stranamente roca, decisa, fonda. Mi raccolgo subito dalla sorpresa. Prima o dopo che? M'e' uscito tremante, sottile. Si volta senza fretta, l'alare in mano pende lungo un fianco. Freddo in volto, un lieve sorriso appena accennato sulle labbra. Un sorriso che mi fa rabbrividire. Paura? no. Orrore? neppure. Non so cos'e' ma e' lo stesso che avevo notato giovedi'. Pallido gli occhi lampeggiano. Mi sento il cuore sprofondare in petto. Non ho udito la risposta ma gliel'ho letta sulle labbra tese. Taccio. Impallidito, raggelato dalla faccia il sangue s'è tutto raggrumato nello stomaco. Si avvicina lentamente puntando delicatamente l'alare tra le cosce, sotto la gonna. Resto rigida a guardarlo. E' questo il mobile che voglio visitare. Dunque, e' come pensavo... Di volata, rapidissime passano davanti a me le risate di François, le sue carezze, i nostri scambi professionali, le promesse.... promesse amore rieccheggiano lontane coperta dal pulsare lento del sangue che riprende, dal frenetico assordante fracasso del presente. Mi trovo impreparata, incerta timida impacciata maledettamente passiva. Potrei alzarmi, scoppiare a ridere, riprendere la situazione in mano, buttarla sullo scherzo... ma qui non si scherza. E' un attimo, un terribile interminabile attimo che si stende per tutta la stanza fino a scoppiare, che abbraccia tutto il tempo e mi soggioga in un'attesa tremenda, deliziosamente torbida. Senza darmi piu' tempo, mi prende la tazza di mano e me lo ritrovo ai piedi, un altro uomo. L'ira dipinta violentemente sul volto mi assale senza gesti teatrali, senza preamboli. Improvvisa la sua mano mi trova di marmo, fredda, gelida ma non nelle sensazioni, non nell'animo bensì nel corpo. Immobile inerte sprovveduta vulnerabile. Che si sbrighi almeno... il collant tirato giu' di prepotenza malagrazia. Gli occhi puntati su di me, crudi crudeli di fuoco eppure lucidi. Padrone s'intromette, una forza da leone. Forse... non ancora rimessa dalla sorpresa non so reagire. Non oppongo resistenza alcuna inondata dal suo potere. Ora mi schianta, ora mi finisce. E' per la mia vita che tremo? per la mia anima? il mio orgoglio, la mia reputazione? il rispetto di me stessa? di Francois? che posso fare? che posso dire che non lo ecciti di piu'? che non incoraggi oltre la sua velleità maschile, maschio il suo comando totale del mio destino? e lo credevo effeminato? Dentro di prepotenza come se non esistessi che per lui, per il suo uso consumo abuso. Afferrata la collana la stringe, la stringe sempre piu' forte, sempre di piu', comincia a mancarmi il respiro. Le perle incidono la pelle. Tremo fremo ansimo paura terrore terrore universale totale s'impossessa mi pervade mareggiata ondata. Tutto il mio essere ridotto a un pezzo di carne con un buco in mezzo, oggetto del suo piacere, nata creata fatta per servirlo e tacere... Dove ho le mani? lui sembra averne cento, mille corrono per tutto il corpo, soprattutto le cosce il culo pizzica i seni graffia preme, fa male, vuole fare il male, gode del male. Le mie non so, ho perso coscienza, forse tengono le sue debolmente cercando di trattenerlo dal finirmi. Mi fotte con cattiveria egiaculando bestemmie e insulti calcolati, presumo, per aumentare il suo piacere e il mio terrore. Passiva rigida muscoli tesi, il volto me lo sento teso, un groviglio di nervi. Sento? non sento piu' niente, solo la sua presenza, la sua intrusione, il contatto, l'assalto. Passiva non ho scelta; passiva per scelta. Il suo controllo, la sua oppressione mi soggioga mi sconfigge e morbosamente oscuramente mi delizia. Che dico? le minacce dal suo attacco, dalla sua bocca non fanno che incitare il terrore la sottomissione. Sottomessa, si, voluttuosamente terribilmente sottomessa. Non e' dal suo fottere che derivo piacere, scarsamente dalla sua violenza di cui divento man mano meno consapevole, dall'insulto che apporta contro il mio essere, contro la femminilita', contro il genere donna, ma dalla mia sottomissione, dal mio appartenergli, dalla mia docilita', dalla sua impunita'. Non sento dolore al collo che come effetto del potere di cui sono caduta vittima, e come segno, simbolo di questo conturbante possesso. Dalla strada mi pare di udire un clamore lontano, urla in coro, ritornelli cantati pedestramente. Francois... la vista del mio persecutore si annebbia, si sfuma. Feroce, aggressivo, fuori di se' stringe la collana con maggiore veemenza. Ti faccio un figlio, carogna, ti faccio un figlio, un figlio mio in pancia e te lo strappo poi con queste mani, te lo strappo dal ventre, carogna, con queste mani te lo strappo e te lo faccio ingoiare il frutto del tuo ventre... I lineamenti alienati, orribili, terribili, tremendi. Soggiogata pensiero trememndo non sa che non posso farne e mi dispiace, quasi mi dispiace di non poter eseguire il suo piano alla lettera. Restare incinta e fargli massacrare il frutto del mio ventre. Francois. Desidero quello che non ho ancora fatto, quello che forse finira' col fare di me. Sbava digrigna i denti fissa con occhi il demone di un verde smeraldo brillante lampeggiante la mia paura, il mio terrore la mia sottomissione. Il clamore per strada si avvicina, si fa piu' sonoro. I canti piu' distinti con ritmo ossessivo e banalmente, volgarmente arrabbiato. Degli yankees cosa ne farem un bel fascio e poi li brucerem... Le urla imbestialite le invettive incazzate furia orgiastica si innalzano per aria fino al terzo piano. Preme colpisce urla in dissonanza con le urla coristiche e ordinate dei dimostranti. Annaspo nell'aria, mi si strozza la gola, soffoco. Un calore fiammante brucia nelle reni nelle anche si spande cosce pancia, rigida divento molla, brucio brucio... i colpi sempre piu' rapidi, il suo egoismo virile piu' violento soffoco tremo dolore dolore aria... occhi verdi pezzetti di giada puntati su di me sopra forte padrone... Degli yankees cosa ne farem un bel cazzo e poi lo brucerem... No! Madonna di merda, bastardo figlio di una vacca se sei onnipotente, fatti sotto, vendicati, dio di merda, fottuto bastardo figlio di cagna... Degli yankees cosa ne farem... Vendicati porco figlio di merda... e poi li friggerem... Muoio lasciami muoio... Fottuto magnaccia boia... crepa crepa t'ammazzo io t'ammazzo quanto è... Degli yankees cosa ne farem... Francois! Crepa! Muoio... Francois Francois... Crepa crepa!! ...trionferà! Viva Marx! Viva Lenin! Viva Mao Tze Tung!! La furia appagata, smaltita, la presa si molla, lascia la preda si toglie si alza va al caminetto voltandomi le spalle. Sfinita, offesa la carne e lo spirito, sconvolta la coscienza calpestata triturata spremuta. Non ho reagito, non ho fatto niente per ribellarmi, l'ho lasciato fare. Se l'avessi voluto, se avessi scelto di ribellarmi, avrei potuto graffiarlo, cacciarlo dalla mia fica con la rabbia, la forza della sopravvivenza, ferirlo, fargli male come solo a un uomo si può far male, scappare, al limite dargli una sediata in testa. Non l'ho fatto. Ho preferito subire, subire passivamente e urlare di dolore, mescolare i miei spasimi con le sue urla frenetiche con le urla dei dimostranti fra cui... Francois, mi pento, perdonami, mi pento amaramente... Lo guardo dal sofa', dalla mia posizione prosaica volgare oscena ancora, molle sfinita esausta ancora tesa, sozza, sfatta sciatta. Ricomposto, normale per bene, che fa? piscia sul fuoco. Perche' lo spreca? perche' non lo da a me? perche' non me lo fa bere? tanto ormai... Ha fatto di me quello che ha voluto, quell'uomo la', ha invaso devastato una terra gia' arida. Ho goduto? non sono venuta, gliel'ho lasciato tutto, ma... si, vergogna, ho goduto. Confesso vergognosamente di aver goduto di questo stupro. Perche', e' di stupro che si tratta, no? No, gliel'ho lasciato fare. Gli ho lasciato credere che io... misera tapina, indifesa sottomessa verginea mi sono lasciata travolgere. Umiliata umiliata posseduta. Umiliata... torbidamente morbosamente umiliata, conquistata annullata distrutta. Ah, distrutta... annientata da quell'uomo, dal cazzo di quell'uomo, mi ha rifatta, mi ha ricostruita, gli devo la vita? gli devo la morte? quell'uomo non piu' estraneo, non piu' esteriore, quell'uomo dentro padrone della vita e della morte, onnipotente perverso malvagio sopra dentro dentro... nel regno di Francois, dove Francois solo e' re dio e padrone. Era. E'. Gli ha rubato l'amante, gli ha marchiato l'amante, macchiato... marchiato? oh ma sono ben assurda io! qualcosa grida dentro me lacerando ogni pensiero, pensieri rotti frammentati deturpati... Le urla compagne dei dimostranti roboanti sotto la finestra. Carlo si volge. Si avvicina, la apre. Il rombo si fa piu' chiaro e distinto. Una ventata d'aria gelida mi'investe portando con sè le voci del coro. Tu es Bush, tu es Georges, on te coupera la gorge... Si affaccia protendendo appena un poco il busto sopra la ringhierina di ferro battuto. E' la' che devono essere i miei amici, lo sa? che dovrei essere la', dargli manforte, scalmanare i polmoni, squarciarmi la gola, rompermi le corde vocali. Immobile, man mano meno tesa, voluttuosamente debole, inerte. La fica brucia, il collo ancora duole ed è opera sua. Sono sua. Sono opera sua. E' cosi' che Adamo ha fatto Eva? e' così che Eva si e' sentita? Si gira impassibile, ridisteso, freddo ancora ma il calore del volto sta tornando. Rimettiti a posto. Mi ha guardata un attimo, un leggero segno di disgusto trasmesso alla voce. E' un ordine che prendo come rimprovero, critica e giudizio sulla mia inferiorita', sulla mia pochezza ora piu' che mai accertata, constatata, verificata. Inferiorita' sociale, economica, spirituale e ora anche fisica. Un niente. Si. Goffa mi tiro su i collant. Vado alla finestra per raggiungerlo. Mi tengo un poco distaccata dalla ringhiera, non si sa mai qualcuno dovesse alzare la testa. Cerco con gli occhi Francois. Amore... Ormai non e' rimasta che la coda della manifestazione. Con tutto cio', cerco insistente. Passa uno striscione verde. Mi par di riconoscere di spalle la testa di Annie. Forse quel tipo con l'eskimo e' Jacques. Non faccio a tempo a cercare oltre, sono gia' passati, nascosti da altri striscioni. I canti diminuiscono, s'affievoliscono. Il rumore, lo strascichio di passi sull'asfalto freddo cominciano a dileguarsi. Carlo mi guarda. Ci sono degli amici tuoi, la'? Annuisco. Mi afferra per la crocchia dei capelli, mi tira. Cedo. Invece del bacio, infila la mano sotto il maglioncino per strizzarmi un capezzolo. Non ti negherai mai, vero? Stringe forte. Scuoto la testa. Le parole non mi escono proprio. Non era una domanda comunque, una notizia di cui mi ha resa partecipe; ci ha tenuto ad informarmi nel caso non l'avessi ancora capito, che sono sua, non l'amante, ma il suo pezzo di carne. Cosa ha detto? che ha imparato cento modi di creare il dolore, dai cinesi mi pare, o dai thailandesi, e conta di esperimentarli su di me. Forse era solo una minaccia divertente ma priva d'intenzione. Non m'illudo. Cosa mi impedisce di non vederlo mai piu'? cosa m'impedisce di correre da Francois, farmi perdonare e proteggere? Cosa m'impedisce di salvare la pelle? niente, solo... e come potrei? ma certo, mi salvo, non puo' rincorrermi per tutta Parigi. Strizza ancora con caparbia acerba il capezzolo. Non reggo. Gli occhi mi si riempiono di lacrime, ma sto zitta, mi mordo la lingua. Sorride soddisfatto lasciando la preda. Mi molla indifferente. Vieni, andiamo prima che sia troppo tardi. A che ora avevi detto di avere l'appuntamento con tuo padre? Non mi chiede di tacere. O se ne frega oppure conta sulla mia complicita'. Docile lo seguo fino alla porta dove galantemente mi da' il passo dopo avermi offerto il cappotto. Docile ma resto sulle mie. M'ha fregato. Ritornato ad essere gioviale e simpatico, compagnone. Falso. Tutta una montatura, una maschera, ora capisco. La sua natura non e' cosi'; un rivestimento civile, sociale che si e' creato. Il Carlo vero e' quello la', quello di poco fa. Il contrasto e' tale, il taglio talmente netto da farmi dubitare per un momento della effettiva esistenza di quell'episodio di frenetica violenza. Gentile cordiale alla mano, e sempre signore, sempre molto fine nella scelta delle parole, durante il tragitto in tassi', nulla lasciato al caso, nulla trapela dell'altro che aveva preso il sopravvento. Nessuna carezza tradisce il trapasso, nessun moto minimamente sessuale o di quell'affetto che talvolta gli uomini dimostrano con le donne che hanno appena smesso di fottere. Come non fosse mai accaduto. Ma io sono meno disinvolta di prima, il mio atteggiamento ha perduto verve, spontaneita'. Divento guardinga, diffidente. Freno ogni entusiasmo, contengo ogni risata ben meritata delle sue battute argute e lo spio di nascosto, spio ogni sua mossa per cercare le tracce. Timorosa e curiosa. Come prevedere il prossimo attacco? Davvero pensa sia così ingenua da rivederlo? Ci conta? se ne frega? Forse se ci provasse, se come gli altri mi toccasse con fare di chi possiede gia' i favori di una donna, di chi vuole ristabilire un contratto di servitu', forse allora mi disgusterebbe ma sarebbe normale. O forse mi piacerebbe, mi conforterebbe. Normale? qual'e' la norma? quanti ce ne sono che agiscono come lui? ma allora tanto scafata non la sono...