In un primo tempo, il Giallo Mondadori per me volle dire unicamente Nero Wolfe. Non ero del tutto vergine alla narrativa poliziesca. Verso i dieci anni avevo letto Le memorie di Sherlock Holmes di Conan Doyle, restandone folgorato. Frequentavo le elementari, e avevo subito scritto una parafrasi satirica di uno dei racconti della raccolta, Barbaglio d'argento.
Pian piano, cercai poi di procurarmi gli altri libri di Conan Doyle, e mi innamorai a fondo del personaggio. Scrissi altre due sue avventure apocrife, che facevo leggere ai compagni di classe. Avevo l'abitudine, poi rimastami a lungo, di convertire in tentativi di imitazione ciò che mi era piaciuto leggere.
Ignoravo però ancora l'esistenza di un giallo moderno. O, meglio, ne avevo nozione, ma sapevo anche che avrei dovuto tenermene alla larga. I miei genitori non apprezzavano affatto che mi interessassi di storie di delitti, tanto che mi negarono persino I gialli di Topolino, nella collana dei Classici di Walt Disney. Consideravano però, chissà perché, Sherlock Holmes innocuo. Ma era un'eccezione.
Il riscatto cominciò a dodici anni, nel 1964, quando scoprii simultaneamente Urania e il Giallo Mondadori. Mi trovavo con mia madre in visita a una sua amica. Per tenermi tranquillo, quest'ultima mi condusse in uno sgabuzzino pieno di libri e mi invitò a sfogliarli a piacimento, cosa che faci con passione. Quando venne il momento del congedo, la nostra ospite mi invitò a portarmi a casa i quattro fascicoli che avevo estratto dal mucchio. Mia madre non fece obiezioni, pensando forse che la tolleranza dell'amica fosse garanzia sufficiente. I due Urania sono all'origine di una love story che dura tutt'ora, e che col tempo ha finito per modificare la mia intera vita. Ma anche i due Gialli Mondadori ebbero un'importanza non troppo inferiore sul mio avvenire.
Erano entrambi di Rex Stout e si intitolavano La scatola rossa (nell'edizione dei Capolavori del GM) e Nero Wolfe la paga cara. Al primo volumetto mancavano cinque o sei pagine, ma non ci feci troppo caso, perché sembravano riguardare momenti in cui l'investigatore obeso non appariva. Era Nero Wolfe il mio idolo: scorbutico, asociale, pigro. Divertiva e appassionava. Molto meglio di Sherlock Holmes, così compito e ingessato. Nero Wolfe era cattivello, a volte maligno, faceva dispetti e maltrattava il prossimo. Era, insomma, più trasgressivo, e proprio di ciò avevo bisogno.
Per di più, leggendo il secondo romanzo, scritto ad anni di distanza, mi accorsi che le caratteristiche del personaggio, le sue manie, le sue idiosincrasie tornavano tutte pari pari. Proprio come auspicavo (Umberto Eco, in un bellissimo saggio di Apocalittici e integrati, ha spiegato alla perfezione il meccanismo, per cui non mi ci soffermo). A quel punto, chiaramente, volevo tutti i romanzi di Rex Stout. Per anni battei le bancarelle di libri usati (allora molto più numerose di quanto siano ora, almeno a Bologna) rastrellando ogni Nero Wolfe che trovavo.
Tanto che, quando finalmente, molti anni dopo, mi imbattei in una bibliografia completa di Rex Stout, mi accorsi che non mi mancava nessuna delle traduzioni italiane dei suoi romanzi. Rimasi anche un po' deluso, perché voleva dire che la caccia era finita.
E, ci si chiederà, la mia pulsione imitativa. Be', sulle prime non l'esercitai su Nero Wolfe. Proprio tramite le pagine del Giallo e di Urania avevo scoperto l'esistenza di un'altra collezione mondadoriana: il Fantômas di Allain e Souvestre, proposto senza accento circonflesso, in fascicoli mensili. Fu quel modello, amato alla follia, che replicai in tutte le salse, in albi a fumetti destinati ai compagni di scuola (nel frattempo ero passato alle medie inferiori. Nacquero così Quiniquens, un incappucciato che somigliava a Fantômas come una goccia d'acqua, ma che prediligeva le stragi di massa (sulla copertina di ogni albo indicavo sempre il numero di morti, ed erano sempre qualche migliaio); poi Revenant, un criminale che usava congegni complicatissimi per compiere i propri delitti. A quest'ultimo dedicai anche un romanzo. Insomma, in qualche modo fiancheggiai la moda dei fumetti neri che esplodeva in quel momento; ma il mio modello non erano loro, bensì il francese Re del Terrore.
L'imitazione di Nero Wolfe venne molto più tardi, quando decisi di dedicarmi alla narrativa popolare trasfondendovi un poco di tutto ciò che avevo amato leggere in gioventù. Il mio eroe sarebbe stato anche lui asociale e misantropo (molto, molto di più); anche lui avrebbe avuto comportamenti ricorrenti e maniacali, che il lettore si sarebbe divertito a cercare e ritrovare in ogni romanzo. Non voglio dire che il mio Eymerich sia stato ricalcato su Nero Wolfe, ma certo ne replica taluni aspetti; soprattutto, il ciclo che lo vede protagonista applica i meccanismi di assuefazione che avevo scoperto nei romanzi di Rex Stout, e di cui Umberto Eco mi aveva fornito la chiave strutturale.
Devo dire però che, nel corso degli anni, il Giallo Mondadori, smise di essere rappresentato, ai miei occhi, dal solo Stout. A parte l'odio feroce per taluni autori (Agatha Christie soprattutto, mai sopportata, e l'esangue Van Dine) e la noia suscitata da certi altri (Erle Stanley Gardner con tutti i suoi pseudonimi), scoprii Ellery Queen e il meccanismo poliziesco alla sua massima potenza, John Dickinson Carr e i suoi intrighi raffinati, William Irish / Cornell Woolrich e il prevalere dell'angoscia
La svolta vera venne però quando un amico, facendomi l'occhiolino, mi chiese se avevo mai letto i romanzi "di" Johnny Liddel. Non li avevo mai letti e mi precipitai a comprare Dum Dum per Johnny Liddel, di Frank Kane. C'era sesso, come l'amico mi aveva preannunciato: castigatissimo ma c'era. C'era violenza, benché annacquata. Il romanzo non era granché, però costituiva un'introduzione alla Scuola dei duri, cioè al genere hard boiled.
Dopo essermi letto tutti i Johnny Liddel passai ad Henry Kane, scambiandolo per Frank Kane; poi a Ross MacDonald. In un crescendo di durezza, saltato Raymond Chandler (che non mi è mai piaciuto, a differenza di Hammett), arrivai a James Hadley Chase, e dunque al noir, sia pure nella sua forma più rozza. Origine di una passioncella che non si è ancora spenta.
Dunque, il Giallo Mondadori nella mia vita ha contato, e moltissimo: da certe abitudini quotidiane (prima di leggere Nero Wolfe detestavo la birra: da allora è praticamente la mia unica bevanda) fino al mio destino professionale. E' da certi gialli che ho appreso come che ho appreso come dei personaggi negativi potessero divenire degli eroi, con un capovolgimento di valori del tutto ignoto alla fantascienza. Dal giallo, inoltre, ho capito il fascino della serialità, fino alla decisione di trasportarlo in un genere che lo trascurava.
E' curioso come io, oggi autore alla Mondadori, alla Mondadori debba non solo il mio pane odierno, ma anche quasi tutto il mio immaginario.
Incluso quello sessuale, assorbito dalle copertine di Segretissimo…
Ma questa è un'altra storia, su cui forse è meglio sorvolare.