La donna in India

Il Padma Purana, l'antichissimo codice familiare, specifica:

La donna è creata per obbedire in tutte le età: ai genitori, al marito, ai suoceri ed ai figli... Essa penserà solo a suo marito e non guarderà mai in faccia un altro uomo. Durante una prolungata assenza del marito, la moglie non uscirà di casa, non si pulirà i denti, non si taglierà le unghie, mangerà solo una volta al giorno, non dormirà su un letto, non indosserà abiti nuovi...

e questa fu per secoli la condizione della donna in India.
Fidanzata ancora bambina, e sposata ancor fanciulla all'uomo scelto per lei dalla famiglia, essa doveva adattarsi a convivere con le eventuali altre mogli o concubine dello sposo in buona armonia ed evitando di rivolgersi reciprocamente osservazioni sgradevoli ed offensive», come ammoniva sempre il Purana. Rimasta vedova, doveva scegliere fra il sacrificio volontario sul rogo del marito (sati) e i rigori, senza riscontro in altri paesi, di una vedovanza perpetua.
Ma non sempre le condizioni della donna indiana furono così misere: presso i Dravida, i più antichi abitanti del paese, e poi nella società vedica, ove era di rigore la monogamia, essa manteneva nella famiglia una posizione di privilegio, come moglie e come madre: essa partecipava alle cerimonie religiose, talvolta anche come officiante, ricevava una buona educazione, prendeva parte alla vita culturale, tanto che alcuni degli inni vedici si pensò fossero opera di donne.
Ma con il sopraggiungere delle invasioni straniere finì quell'epoca felice. Dapprima per ragioni di sicurezza, le donne vennero relegate nelle case e allontanate gradualmente dalla vita civile, in seguito l'instaurarsi del rigido sistema delle caste, e ancor di più le consuetudini degli invasori musulmani con la loro poligamia e la reclusione delle donne nell'harem, rovesciarono la situazione. Alla donna fu imposta la più assoluta sottomissione al marito, la più rispettosa ubbidienza ai suoceri, schiavitù che si allentava col passare del tempo e con la crescita dei figli, che davano alla moglie una certa autorità.
La condizione della donna sta cambiando, ma il cammino è lento: la conessione del voto alle donne, le leggi che le permettono di divorziare, ereditare e risposarsi non sono giunte a legalizzare una situazione, ma piuttosto ad anticipare una situazione ancora non frequente, dato che nelle zone rurali permane la forte tradizione, mentre nelle città ha fatto ingresso negli uffici e nelle università. Un passo importante per la sua emancipazione è stata la partecipazione al movimento di Gandhi nella prima metà del secolo scorso.

Un capitolo difficile nella storia della donna in India è quello del sati, oramai abolito nel 1956 con il Widow Remarriage Act (c he però non ha cancellato del tutto il codice imposto alla vedova); il sati è un'usanza antica conosciuta già da Plutarco, che l'aveva commentato definendolo una prova di fedeltà. Tale sacrificio non costituiva per le vedove una regola (era infatti volontario) ed era diffuso solo nelle caste superiori, quella militare e principesca, ma ne venivano escluse le donne incinte e che dovevano allevare la prole. Si è detto che il sati era volontario, ma spesso la famiglia spingeva la donna a compierlo per onore della stessa, promettendo gioia nell'al di là e perpetua gloria sulla Terra.
Nel periodo della colonizzazione britannica tale pratica venne abolita nel 1829, ma non mancarono casi anche ai primi del '900. Oggi, in ricordo del sati rimangono le cappellette lungo le strade in memoria delle donne che si sacrificarono.
L'affetto per il marito o la disperazione per la sua perdita non sarebbero però bastati a spingere la donna a sacrificarsi in modo così atroce: era la vita da vedova che l'avrebbe aspettata a spingerla maggiormente, una vita di grosse rinunce: mantenuta dai parenti del marito, non poteva ornarsi ma vestirsi a lutto perenne e radersi i capelli, doveva mangiare una sola volta al giorno ed era esclusa da ogni divertimento, anche dalle feste famigliari.
Altro capitolo importante, ma fortunatamente meno drammatico, è quello delle devavasi o schiave del dio, fanciulle votate fin dall'infanzia al culto della divinità ed adibite al servizio del tempio e al diporto erotico - compensato da un'offerta al tempio - dei fedeli. Nella letteratura esotista occidentale le devavasi venivano dipinte con caratteri che velavano la loro triste esistenza: a metà strada fra la sacerdotessa e la cortigiana, la fanciula veniva iniziata, durante un lungo tirocinio, ai misteri delle sacre scritture e alle arti della danza e della musica, ma i suoi figli rimanevano sempre legati alla vita del tempio, e passata la giovinezza la donna veniva congedata, e si riduceva quasi sempre alla mendicità.
Anche questa pratica venne abolita, nel 1950, perché inaccettabile alla mentalità di uno Stato moderno.
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