Le Upanishad sono la parte conclusiva dei Veda
: per tradizione sono 108, ma ne vengono numerate ben 200, comprendenti le 12 sotto elencate che sono le più antiche:
Brihadàranjaka;
Chandogya;
Aitareya;
Kausìtaki;
Îsa;
Kena;
Katha;
Mundaka;
Màndùkya;
Pràsna;
Shvetàshvatara;
Taittitìya,
e poi le più attuali; le più antiche dovrebbero risalire all'VIII-VII sec., quindi pre-buddhistiche, mentre le più recenti al V-VI sec. a.C. Si adotta questa datazione perché la prima data è quella della compilazione dei Veda e i primi testi buddhisti che ne fanno citazione; questo riferimento è naturalmente da darsi alle prime, dato che la produzione continuò. L'incertezza sulla datazione va a spiegarsi col fatto che fino al I-II secolo d.C. queste venivano tramandate oralmente, ma quel che è più sorprendente è la fedeltà dei testi: non si hanno infatti corruzioni dello stesso, e questo è provato da alcuni cantori che tutt'ora girano l'India e citano le Upanishad risalenti al periodo vedico con piena corrispondenza. La parola Upanishad significa «formula», «preghiera», e sono così dette perché custodi di una dotrina che il maestro rivela quasi di nascosto allo scolaro che gli siede «vicino giù accanto» (upa-ni-shidati), come una cosa che deve essere comunicata solo a coloro che ne risultino degni; si rivela per introspezione, riflessione e per intuizione ed è tale da rendere onnisciente colui che ne sia venuto in pieno possesso. Si tratta di testi d'insegnamento esoterico che hanno per obbiettivo la meditazione e la conoscenza del
Brahman (Assoluto): sono in effetti testi che appartengono alla categoria della letteratura rivelata o çruti (=che è stato udito).

La critica moderna le considera produzione di eretici, perché queste hanno il significato opposto rispetto a quello dei Veda, dato che ne analizzano la parte mistica del sacrificio, minando così l'autorità del brahmano e avendo un ruolo di liberalizzazione dal penso sempre crescente delle caste, permettendo cioé a tutti di accedere a quella conoscenza d'élite.
Questi testi tendono a trascendere, a dare cioé una spiegazione mistica e soprannaturale dell'uomo e dell'ambiente a lui circostante, ma così rendono il sacrificio vano, perché non basta l'atto materiale in se', bensì è necessario un coinvolgimento fisico e mentale; in questo mondo la conoscenza viene sì aperta a tutti, ma i requisiti per impossessarsene sono più numerosi di quelli che erano prima bastevoli a coloro che possedevano più degli altri il Brahman e quindi erano di una delle caste maggiori. Aprendo questo mondo di riti con un significato e un impegno più profoni, le Upanishad svolgono un compompito importante, quello cioé di creare degli asceti che seguendo le regole della società dell'epoca erano capifamiglia che avevano compiuto i loro doveri e si ritiravano nella foresta per meditare.
Con le Upanishad cambia totalmente il panorama religioso e spirituale dell'India e inizia veramente la sua epoca filosofica. Fino a questo punto si era trattato di comprendere "che cosa" fosse l'atto sacrificale (karman) ed in base a quali principi conducesse a un particolare risultato; con le Upanishad si tratta invece di conoscere chi è il soggetto dell'atto sacrificale e quale sia il suo rapporto con l'Essere cosmico, il principio di tutte le cose, il Brahman.
Se questo Brahman è uno ed il tutto, see è l'Uno-Tutto, come accade che vi siano tanti soggetti quanti sono gli uomini?
Qual'è il rapporto fra tale Assoluto unico e solo e il mondo molteplice della nostra vita quotidiana?
Con questi interrogativi vengono posti i problemi cardinali di tutta la speculazione indiana:
rapporto fra Brahman e Atman;
conciliazione fra la molteplicità del mondo oggettivo con l'unicità dello spirito;
origine del pensiero e dei sensi.


Il Brahman non è ben definito ovunque nelle Upanishad, è descritto solamente in termini abbozzati proprio perché non ve n'è alcuno adatto a definirlo, poiché è indefinibile, neti neti (=né così, né così). Si può tracciare un'identità fra atman e Brahman, perché l'atman pervade tutto, ma queste entità non sono la stessa. Nel Brîhadaara Nyakopanishad vi è la discussione fra Baalaaki e Ajaatashatru: per ognuna delle 12 descrizioni che il primo riesce a provvedere, il secondo gli da un esempio lo contraddice. Perciò definire il Brahman non sarebbe solo superfluo, ma anche contrario alla natura di esso stesso. Nelle Upanishad le sue descrizioni paiono inizialmente inconciliabili: esso è nirvishesha (=privo di qualificazioni), ma anche savishesha (=dotato di qualificazioni).
Ecco tre Upanishad traslitterate dal sanscrito con relativa traduzione che trattano queste descrizioni:

dve vaava Brahmano ruup, muurtam.h chaivaamuurtamcha, martyam.h chaamrîtam.h cha, sthitam.h cha, yachcha, sahcha, tyachcha.
 
«In verità ci sono 2 forme di Brahman, quella comune e quella indefinita, sottile, quella mortale e quella immortale, quella statica e quella in movimento, quella attuale (esistente) e quella permanente (essere)».
 
 
vaacha etadvaitadaksharam.h, gaargi, BraahmaNaabhivadanti ashuulam.h, anaanu, ashrasvam.h, adiirgham.h, alohitam.h, asneham.h, achchaayam.h, atamah, avaayvanaakaasham.h, asa.ngam.h, arasam.h, aga.ndham.h, achakshushhkam.h, asrotram.h, avaak.h, amanah, atejaskam.h, apraanam.h, amukham.h, amaatram.h, anamaatram.h, anantaram.h, abaahyam.h na tadashnaati kimchana, na tadashnaati kashchana.
 
«Quello, o Gargi, i conoscitori di Brahman lo chiamano indistruttibile, Non è né visibile né invisibile, né lungo né corto, né rosso sfuggente (come il fuoco) né intangibile (come l'acqua), né ombra né buio, né aria né spazio, indipendente, senza gusto, senza odore, senza maleodore, senza occhi, senza orecchie, senza voce, senza cervello, senza splendore, senza rispetto, senza bocca, senza misura, che non ha un essere interiore o esteriore. Non mangia nulla e nessuno lo mangia».
 
 
nityam.h vibhum.h sarvagatam.h susuukshmam.h tadavyayam.h yadbhuutayonim.h paripashyanti dhiiraah.
 
«Quello che è inafferabile, senza famiglia, senza casta, senza vista o udito, senza mani o piedi, eterno, che pervade tutto, onnipresente, estremamente impalpabile. Questo è l'imperituro che la maniera percepisce come la sorgente di tutti gli esseri».




Qui è sviluppata una cosmologia primitiva: inizialmente vi era il nulla, e da esso si produsse l'universo; si passa poi alla considerazione che in ogni uomo vi è una scintilla del Brahman, che sarebbe l'àtman, e su questa base si fonda la teoria del macro e del microcosmo. Color che sarranno più pieni di Brahman, che sarebbe l'àtman, sarebbero i brahmani, i sacerdoti: qui si torna quindi al motivo delle caste, anche se l'enfasi posta su quella sacerdotale non è la massima, poiché qui è un principe, membro della casta dei guerrieri, ad istruire un sacerdote: è evidente quindi che i brahmani non occupavano ancora il massimo grado della gerarchia castale.
Anche in questa Upanishad è un membro della casta guerriera ad istruire un brahmano, o meglio, egli si dimostra più perspicace. Altro elemento comune alla precedente è il riferimento cosmologico, dove il Brahman viene definito come un respiro che pervade tutto sempre, anche nel sonno; l'elemento cosmologico che accomuna questi due brani è òa concezione che dal non essere nasca l'essere, e da qui si passa a quella dell'uovo cosmico, dalle cui metà è costituito l'universo.
Viene affermata una realtà teistica accennando a un Signore (Isa), e raccomandando di cancellare i dualismi, perché solo così si può raggiungere l'àtman: si eliminano le differenze fra il singolo e gli altri, e quando così si abbandonerà conoscenza e ignoranza si arriverà all'immortalità.
«Il Brahman non può essere insegnato né pensato, e nessuno può coglierne il centro (ecc.)»
Nella Katha Upanishad si parla dell'incontro fra Naciketas e Yama, dio dei morti. Naciketas interroga Yama su cosa l'uomo è, o meglio, se esiste dopo la morte, ma non ottiene nessuna risposta esplicita in merito, solo che l'àtman è immortale.
Vengono qui ammessi due gradi della conoscenza: quello inferiore, costituito da
studio dei Veda,
atronomia,
fonetica,
ritualistica,
grammatica,
metrica,
etimologia;
quello superiore dalla conoscenza del Brahman.
La più recente fra le composizioni antiche di questo elenco ammette una trinità: dio, àtman e prakrti (per quest'ultimo, cfr. il Sàmkhya).
Il dio è colui che crea e distrugge il mondo e assume due nomi: Rudra o Shiva (vedi la famosa «danza di Shiva», con la quale ha inizio e fine il mondo).
Il prakrti è invece beffardo, perché appare in un certo modo, ma non è così nella realtà.
L'àtman è il se' individuale, ma allo stesso tempo Brahman, nella forma di quella scintilla che è insita in noi, e solo chi nel suo cuore la sa ritrovare si libererà, trovando dio, e tornando cos ìal Brahman.
Viene qui ripreso il tema dell'identità fra Brahman e àtman, e si è convinti che nel mantra aum si celi l'essenza del Brahman.

Nelle Upanishad sopra elencate si noteranno delle contraddizioni fra l'una e l'altra: questo è dato dalla già citata negazione dell'esistenza di una sola realtà assoluta nel pensiero indiano, ma anche dal fatto che la produzione si estese per un lungo periodo di tempo.

Torna a
Il Brahmanesimo

In fase di ampliamento







1