WINCKELMANN
NEL 1755 venne ad acquartierarsi in Italia un personaggio che, sebbene non italiano, era destinato a svolgere una parte di protagonista nella vita italiana, come un secolo prima era capitato a Cristina di Svezia.
Si chiamava Johann Winckelmann, ed era nato trentott’anni prima nel Brandeburgo. Il Brandeburgo era la culla della Prussia, che a sua volta, sotto la guida dei suoi maneschi Re Hohenzollern, fu la culla del germanesimo più rozzo e aggressivo. A riscattare quest’area depressa dalla sua endemica povertà era stata la patata, quando i coloni latino-americani ne introdussero in Europa la coltivazione. Era l’unica pianta capace di attecchire nel suo sabbioso terreno, e qualcuno dice che gli Hohenzollern dovevano ad essa la loro forza perché diede loro una certa autosufficienza.
Si tratta naturalmente di esagerazioni. Ma sta di fatto che quel povero Paese altre risorse non aveva. Berlino, sua capitale, era un villaggio di poche migliaia di anime, e la popolazione era composta quasi esclusivamente di contadini e solati, cioè di contadini che trascorrevano una buona aliquota della loro vita a fare i soldati perché i loro Re erano sempre impegnati in qualche guerra o guerricciola per ingrandire i propri possedimenti.
Il padre di Johann era uno dei pochi che fossero riusciti a elevarsi alla condizione di artigiano, faceva il sellaio, e voleva farlo fare anche al figlio. Ma il ragazzo aveva la passione dello studio, e per mantenersi a scuola si arruolò come cantore. Quando il suo maestro divenne cieco, gli si offrì come lettore, divorò tutti i libri della sua biblioteca, e mise su una scuola per conto suo. Avendo saputo che a Amburgo era stata messa all’asta la libreria di un famoso umanista morto poco prima, fece a piedi i trecento chilometri che lo separavano da quella città e ne tornò portando a spalla diecine di testi greci e latini. Di queste lingue aveva già un’assoluta padronanza. Ma non gli bastavano. E per imparare anche l’ebraico, s’iscrisse alla facoltà di teologia di Halle. Anche quando ebbe ottenuto un buon posto di professore, più che alla cultura degli allievi, seguitò a pensare alla propria. E infatti abbandonò presto la cattedra per un posto di bibliotecario a Dresda, in Sassonia.
Anche Dresda non era che una piccola città di provincia, ma con rango di capitale. C’erano molti diplomatici stranieri, e fra gli altri un Cardinale, Archinto, Nunzio pontificio presso il Principe Elettore. Archinto andava spesso in biblioteca, conobbe Johann, e i due si fecero reciprocamente una grande impressione. Fu così che il teologo protestante prese a frequentare la Nunziatura cattolica, dove alcuni Gesuiti lo incantarono. Fra i ministri luterani egli non aveva mai trovato gente così colta e raffinata, ma soprattutto così aperta ai valori della civiltà classica, sebbene pagana. Parlavano di Grecia in greco, di Roma in latino, mai una volta gli capitò di accapigliarsi su questioni di Bibbia o di Chiesa. "Dovreste andare in Italia" dicevano i Gesuiti. Winckelmann non chiedeva di meglio: l’Italia esercitava su di lui un richiamo sempre più perentorio. Ma non aveva i mezzi. Fu il Nunzio a offrirglieli. I1 cardinale Passionei cercava un bibliotecario di fiducia per la sua libreria, la più ricca di Roma. Le condizioni erano buone: vitto, alloggio e settanta ducati all’anno. C’era soltanto una piccola condizione da soddisfare: bisognava farsi cattolici: Winckelmann non ebbe la minima esitazione. Fece atto di abiura nella cappella stessa del Nunzio e a un amico che glielo rimproverava rispose: "A spingermi è stato l’amore del sapere, l’unica cosa che m’interessi".
In realtà non aveva abiurato a nulla perché a nulla credeva. Winckelmann non era un ateo. Ma il suo Dio era, com’egli stesso diceva, "al di sopra di ogni chiesa, confessione o sètta". Riteniamo che abbia ragione il saggista inglese Pater, quando gli attribuisce una naturale inclinazione verso il cattolicesimo per quanto esso aveva saputo conservare della tradizione classica e pagana. La Bibbia non c’entrava. Ciò che rendeva Winckelmann fisiologicamente allergico a Lutero era il suo ripudio del Rinascimento. E ciò che lo attraeva della Chiesa di Roma non era una certa interpretazione di Dio, ma una certa interpretazione della vita, come di un bene supremo da godere coi sensi e con l’intelletto. Era, diceva Goethe, un pagano.
Prima di partire, consegnò alle stampe un saggio critico: Pensieri sulla imitazione delle opere greche in pittura e scultura, in cui era già l’abbozzo del suo pensiero e che può essere considerato il breviario del movimento neo-classico. In fatto di arte, diceva pressappoco, non c’è più nulla da scoprire. I Greci hanno già detto tutto. Per raggiungere i vertici dell’eccellenza, non si può che ripercorrere i loro sentieri. Colui che c’è meglio riuscito è Raffaello. L’opera mise a rumore gli ambienti culturali di Dresda e giunse all’orecchio del Principe Elettore, cattolico devoto, che concesse a Winckelmann un vitalizio di duecento talleri all’anno più altri venti per il suo viaggio.
Quando si presentò alla frontiera, i doganieri del Papa gli confiscarono i libri di Voltaire che si era portati al seguito. Era un benvenuto alquanto in contraddizione con l’idea che Winckelmann si era fatto della tolleranza della Chiesa e del gran conto in cui teneva la cultura. Ma l’incidente non appannò i suoi entusiasmi anche perché i libri gli furono subito dopo restituiti. Le opere d’arte del Vaticano e soprattutto i marmi di Michelangelo lo immersero in tale estasi che dimenticò persino di presentarsi al Passionei, dei cui stipendio del resto non aveva più bisogno. Infatti andò da lui solo per dirgli che non poteva accettare l’incarico: a Roma, gli disse, c’erano troppe cose da vedere e da studiare. E tutto vide e studiò, meno che Roma. La città moderna nei suoi aspetti pittoreschi e miserabili, il popolo, la società, il costume, non lo interessavano minimamente. L’Urbe, per lui, non era che una pinacoteca. Ma di questa esplorò ogni angolo, con teutonico puntiglio, e sempre in stato di trance. "Dio me lo doveva - andava ripetendo - dopo tutto quello che ho sofferto in gioventù." E a un amico di Dresda scriveva: " Tutto è niente, paragonato a Roma. Solo qui ho saputo che non sapevo nulla, prima di venirci". Abitava sul Pincio, ma di lì si trasferì in un appartamento del palazzo della Consulta che gli aveva procurato Archinto. Troppo occupato a setacciare palazzi e musei, frequentava poca gente, e di veri e propri amici se ne fece due soli, che condividevano i suoi interessi: il cardinale Albani, e un pittore boemo, Mengs, che come lui era rimasto prigioniero di Roma e come lui era destinato a lasciare una larga impronta nella cultura del tempo. Mengs razzolava col suo pennello come Winckelmann predicava. Era talmente innamorato di Raffaello che ne aveva assunto anche il nome, e accanto a lui i romani, per farlo contento, dovevano più tardi seppellirlo. Winckelmann diceva che anche Raffaello - quello vero - si sarebbe inchinato davanti a certi dipinti del suo omonimo continuatore. I critici d’oggi si mostrano molto meno indulgenti, e a Mengs pittore non attribuiscono un posto di primo piano. Ma a Mengs esteta non possono rifiutarlo. La sua opera Pensieri sulla bellezza e il gusto nella pittura ( 1762 ) esercitò sulla linea di Winckelmann una grossa influenza, e tuttora rappresenta uno dei sacri testi del neo-classicismo.
Dopo aver scandagliato Roma e i suoi dintorni, Winckelmann andò a scoprire Napoli. V’incontrò Tanucci e Galiani, ma a sconvolgerlo fu Paestum. La serena maestosità di quei frontoni e colonne lo rese vieppiù certo delle proprie certezze e gli mise in corpo la smania di risalire alla fonte dell’Arte Assoluta: la Grecia. A Roma, dove rientrò per preparare il viaggio, trovò brutte novità: Albani era morto, il che l’obbligava a sgombrare dal palazzo della Cancelleria, e il Re di Prussia aveva scacciato dal trono di Dresda il Principe Elettore, il che lo privava del vitalizio. Ma nemmeno questi contrattempi lo distrassero dal suo miraggio. Doveva partire insieme a una turista inglese che prometteva di provvedere a tutto. Ma non sappiamo per quali motivi il progetto andò in fumo e Winckelmann in crisi. " Mi taglierei un dito - esclamò -, mi farei sacerdote di Cybele, pur di vedere quella terra."
Per consolarsi, tornò a Napoli ad approfondire le sue esplorazioni sui cimeli dell’architettura e statuaria greca. La sua Lettera sulle antichità di Ercolano e il Resoconto sulle ultime scoperte di Ercolano sono la prima trattazione sistematica sull’argomento e richiamarono su Pompei l’interesse di tutti gli studiosi d’Europa. Come esperto di arte classica il suo prestigio era tale che non fu scosso nemmeno dalle due pàpere che prese quando, nel suo più impegnativo trattato, cui aveva lavorato per sette anni, riprodusse e illustrò come esemplari autentici di pittura greca due composizioni che Mengs gli aveva gabellato per tali, e che invece erano frutto del suo pennello. Gli avversari (ne aveva, naturalmente) ne approfittarono per invalidare tutta l’opera e qualificarla una "patacca". Ma non è vero. L’opera resta un alto esempio di saggismo: forse il primo in cui la critica d’arte diventa arte per i suoi valori stilistici. Winckelmann non era buon scrittore. Ma quando parla di arte lo diventa. Egli fu il primo a scoprire l’incidenza che il culto del Bello aveva avuto su tutta la vita della Grecia, la sua storia e il suo costume. Alcune sue intuizioni, come per esempio quella che l’arte greca non è che Ragione tradotta in marmo, rimangono. Nessuno, prima di lui, aveva afferrato con tanta chiarezza il passaggio dal "grande" stile di Fidia e di Mirone a quello "grazioso" di Prassitele. E nessuno aveva afferrato con altrettanta penetrazione l’interdipendenza fra il culto dell’arte e quello delle libertà greche.
L’eco di questo libro (Storia dell’Arte antica), che Winckelmann aveva dedicato alla memoria di Mengs nonostante il brutto tiro che costui gli aveva fatto, arrivò fino in Prussia. Il Re Federico il Grande, amico di Voltaire, si atteggiava a patrono della cultura, e invitò Winckelmann a trasferirsi nella sua Corte di Berlino. Winckelmann chiese uno stipendio di duemila talleri. Federico ne offrì mille. E Winckelmann di rimando: "Vi risponderò come vi rispose quel castrato al quale rimproveraste di avanzare pretese superiori a quelle dei vostri migliori generali: Ebbene, Maestà, fate cantare i vostri generali! " In realtà Winckelmann, che non era per nulla avido, aveva in orrore Berlino e in grande antipatia quel sovrano che aveva cacciato dal trono il suo vecchio benefattore di Sassonia.
In Germania tornò qualche anno dopo, ma solo a cercarvi qualche sovvenzione che gli consentisse d’intraprendere il sospirato viaggio in Grecia. A Monaco fu ricevuto con grandi onori, e a Vienna Maria Teresa e il principe Kaunitz lo colmarono di doni e lo invitarono a restare. Ma Winckelmann, che non aveva mai amato i suoi Paesi, dopo il lungo soggiorno in Italia li trovò ancora più sgraziati e inospitali. Dopo neanche un mese tornò sui suoi passi, e a Trieste, mentre aspettava una nave che lo riconducesse a Ancona, strinse amicizia con un altro viaggiatore, un tale Arcangeli.
L’episodio è sempre rimasto avvolto un po’ nel mistero. Ma tutto lascia credere che si trattasse, come si suol dire, di una "amicizia particolare". Winckelmann aveva sempre concesso poco all’amore. Era troppo assorto nella contemplazione del Bello. Ma non c’è dubbio che il Bello, per lui, era quello di sesso maschile, come del resto lo era per i Greci. Le sue pagine traboccano di inni alla virile armonia degli Ercoli e dei David, mentre non se ne trova nessuno per la fragile grazia delle Veneri. Le uniche intimità che gli si conoscono sono quelle col suo allievo e compatriota Lamprecht e con un giovane romano ch’egli stesso ci ha descritto, con voluttuosa ammirazione, "alto, biondo e morbido come un atleta ateniese". Tutto questo non turbava minimamente la sua coscienza assolutamente refrattaria al senso cristiano del peccato. La sue etica era soltanto estetica.
Ci sono quindi buoni motivi per supporre che la sue attrazione per l’Arcangeli avesse dei sottintesi erotici che il giovanotto mostrò di condividere. Questi una mattina entrò nella camera di Winckelmann, contigua alla sua, tentò d’imbavagliarlo per portargli via la borsa, e siccome l’altro reagì gl’inferse cinque pugnalate e si diede alla fuga. I1 ferito ebbe solo il tempo di ricevere i sacramenti e di dettare le ultime volontà fra cui c’era anche quella di perdonare all’assassino. Ma non fu esaudito. Catturato poco dopo, l’Arcangeli fu processato per direttissima e condannato al supplizio della ruota, uno dei più crudeli.
L’opera critica che Winckelmann si lasciava dietro non è immune da errori e sordità. Avendo dovuto limitare le proprie esplorazioni all’Italia, egli scambiò per greca l’arte greco-romana, che è cosa alquanto diversa. La sue predilezione per la scultura lo rese piuttosto sordo alla pittura, di cui non fu buon giudice. E la sconfinata ammirazione per gli antichi, se da una parte lo aiutò a capirli, dall’altra lo indusse alla ostinata e sistematica negazione degl’impulsi creativi moderni. Secondo lui l’Arte doveva, come la lancetta di un orologio, ribattere sempre lo stesso quadrante, restando ancorata ai modelli di quella classica. Disprezzava i grandi maestri fiamminghi perché se n’erano distaccati e li definiva "grotteschi". Per lui tutto si riduceva a una questione di proporzioni e di simmetria. Qualunque emozione vi trapelasse era bestemmia.
Naturalmente la critica moderna rifiuta queste estreme conclusioni. Ma resta ugualmente debitrice a Winckelmann di profonde e rivoluzionarie intuizioni. Fu lui a rivelare la Grecia all’Europa contemporanea. E fu grazie a lui che uomini come Goethe e Herder ne colsero l’ispirazione più profonda. Egli fu il primo a risalire alle origini del Rinascimento e a dargli, per così dire, il certificato anagrafico. Fu il primo cioè a cogliere i nessi fra critica e storia dell’Arte. Tutto il neoclassicismo che impronta il secolo non soltanto nelle arti plastiche, ma anche in letteratura e filosofia è, nel bene e nel male, figlio suo.
Ma egli dettò anche un archetipo a tutti quegl’intellettuali nordici - e sono legione - che d’allora in poi presero a discendere le Alpi per cercare in Italia (e in Grecia) quell’armonia, quell’equilibrio, e forse anche quell’oblio che non trovavano in case propria. Byron era anche lui un Winckelmann con la scintilla della poesia. Lo era Schliemann. Lo furono, sia pure su un più modesto piano edonistico, gli scopritori e pionieri di Capri e Taormina, compreso Axel Munthe. Sono i grandi innamorati dell’Italia per quello che l’Italia rappresenta di antitetico alle loro romanticherie: la terra non soltanto del sole, ma anche delle linee nitide, delle forme composte e serene.
L’Italia deve molto a questi uomini. Gli deve anche un’immagine di se stessa, molto migliore e più lusinghiera della sue realtà.
Da: Storia d'Italia, Il Crepuscolo del 700 - Montanelli-Gervaso - Fabbri Editori