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Ellade entrò nella mia vita
sette anni dopo quel giovedì d'aprile in cui vide il
mondo e forse lo capì d'istinto.
Ci ritrovammo ad abbeverarci alla stessa fontanella,
provenienti dagli opposti lati di un
immenso cortile (che col passare degli anni tende a
rimpicciolire sempre più: che
voglia sparire?), ma provenienti soprattutto da opposti
versanti della fanciullezza. Io, sudato,
coi miei pantaloncini e canottiera da basket, ce
ne sarebbero entrati altri due dentro,
tanto ampia da creder che aspettassi ospiti a
momenti, le scarpe sportive consunte
e slacciate, lingua-in-fuori-che-fa-sghecio, ed
un'altezza più vicina allo zero
virgola qualcosa metri, che all'uno virgola qualcos'altro.
Lui, fasciato da una perfetta divisa
da lupetto, bleu-azzurro-rossoeviola, due gocce di
sudore ed i capelli, ormai castani, tenacemente
pettinati con la riga da un lato, riccioli
ipotetici costretti ad essere lisci,
per suprema volontà materna. Era la sua, una madre
da temere perché si ama o da amare
perché si teme?
Notai un particolare assolutamente
buffo. Il mese di ottobre aveva, ormai da
alcuni giorni, fatto il suo pungente
ingresso nell'esclusivo circolo quaternario delle
stagioni. Gli altri lupetti erano vestiti,
chi con jeans, chi con i classici pantaloni bleu di
velluto, e soprattutto, ognuno indossava
scarpe da ginnastica. Ellade era l'eccezione.
La nota stonata. Lo é sempre stato,
nel bene e nel male, dal nome in poi, sempre
un'eccezione. Era vestito, o meglio,
era stato vestito, con pantaloncini di velluto,
impietosi nell'esporre metà della
coscia al freddo autunnale, e rigidissimi scarponi da
montagna, altrettanto arcigni nell'ostacolare
la corsa del nostro vecchio.
Oggi ci ride su, anzi era uno dei
suoi pezzi forti quando sedevamo con gli amici
attorno ad un tavolo o ad un fuoco: la
storia del bambino che ai giochi dei lupetti
veniva sempre acchiappato perché
correva lentamente... con quei macigni ai piedi!!!
Ma allora era diverso: non pativa
il freddo o il fatto di non vincere mai, soffriva
la diversità. Soffriva sette anni
di diversità: quella dell'infante vestito da bambina a
causa delle voglie-di-figlia-femmina
della madre, delle scarpe troppo strette e dure,
che sennò il piede cresce male,
delle scarpe larghe perché il piede poi cresce di
numero, quella dei vestiti smessi dai
cugini, tanto si aumenta di statura da un giorno
all'altro a quest'età, quella
degli occhiali in plastica da cieco -o deficiente, a scelta-
lenti incluse, infrangibili, indeformabili,
indistruttibili, che "se non stai fermo con le
mani riuscirai a spaccarle lo stesso",
e quella delle figurine no, roba da piccoli e dei
fumetti neanche, roba da grandi... Una
madre troppo protesa verso la crescita fisica di
suo figlio, da non preoccuparsi, o meglio
occuparsi, del suo spirito, della sua anima,
del suo essere, barricandosi laconicamente
dietro la scusa più insulsa e ributtante -i
soldi mancano ed io non ho tempo perché
mi sbatto per te- usata in modo maligno per
delegare tutti quei fondamentali incombenti
al padre: quello che non fa niente per il
figlio; che é capace solo di parlare,
e dunque é compito suo; che ha tradito, quindi ora
sconti il suo debito; che ha denaro e
perciò tempo per essere "acculturato".
Ne riparleremo. Non ora.
Non potrò mai scordare quel
giorno. Mi trovavo in piedi di fronte allo zampillo
ristoratore, sostenendo il suddetto con
vivaci colpi sull'apposita manopola, tirando a
manetta e decelerando, come un improbabile
motociclista. La bocca sghemba, protesa
verso la sicura promessa di refrigerio
che sembrava provenire dagli allegri gorgoglii,
esitai un attimo, accompagnando gli occhi
ed il capo nella visione di quel tipo, così
fuori dal mio mondo, che non avrei esitato
a definire, con un termine allora in voga,
"un soggetto". Sorrisi e gli cedetti
il posto. Bevve per più di un minuto inducendomi a
sospettare che mi stesse prendendo per
i fondelli. Controllai, dovendo però ammettere
l'inesattezza della mia ipotesi. Quando
si rialzò, la miglior vendetta che seppi attuare,
fu apostofarlo ironicamente "quatrrocchi
cammellone". Lui, vincendo l'innata, e
spesso mal celata timidezza, rispose
precisando quale fosse il suo nome, e domandò
prontamente il mio. Al solo sentire la
parola "Ellade", sorse spontanea ed innocente (!)
la domanda: "sì, vabbé,
questo é il cognome, ma quale é il nome?". Mi contorsi dalle
risate, offrendo ai presenti confidenziali
pacche sulle spalle in cambio di un loro gesto
di consenso (ne avvertivo un frenetica
necessità), fiero di una battuta così originale.
Lui ammutolì. Era ovvio, anche
ad un bambino di sette anni come io ero, che
pretendesse delle scuse. Invero, non
sono mai stato propenso ad ammettere l'eccessiva
offensività della mia ironia,
considerandola un lato indispensabile del mio carattere.
Così, messogli il pallone davanti
al naso, proposi una sfida, con in palio le scuse da
porsi a chi ne risultasse vincitore.
Per lui, l'impresa consisteva nel segnare quattro
"miseri" punti, per me farne "ben" venticinque.
Era una proposta equa, ma ad Ellade
una tale diversità apparve superflua
oltre che scorretta, ed accettò la gara soltanto con
il medesimo punteggio finale per entrambi.
Eravamo due bambini, piccoli di statura e
privi di muscoli, scarsi nel tiro da
sotto, nulli in quello da fuori, ciascuno
immancabilmente convinto, ma io molto
più di lui, di riuscire a vincere le scuse
dell'altro. Dopo tre ore il punteggio
diceva diciotto a tredici a suo favore, ma la realtà
era un ovvio e comune K.O. tecnico per
ammutinamento dell'intera forza fisica.
Stanchi, sudati e maleodoranti, irriconoscibili
anche ai parenti più intimi pur se
provvisti di documento d'identità,
andammo di nuovo a bere. Lui al solito ingurgitò
l'acqua come una spugna secca da anni,
concedendomi il tempo, stavolta anche più di
un minuto, per trovare le parole giuste.
Dissi semplicemente "scusa".
Gli bastò.
La prima volta lasciai che bevesse
per primo, forse per pietà. La seconda,
certamente per amicizia. Da fuori poteva
sembrare una scena identica, curiosa
specularità di eventi, ma dentro
il mondo era cambiato, cresciuto in sole tre ore.
Lo sfidai per fuggire ad un dovere
morale che pesava sulle mie labbra e mi
ritrovai ad adempierlo perché
non potevo vivere ancora un attimo senza farlo.
Ognuno quel giorno strappò
alla propria realtà un brandello, per scambiarselo e
gustarlo assieme. Il sapore era nettare,
succo vitale per le nostre anime, e da allora
decidemmo, senza usar parole o sguardi
per suggellare l'accordo, di vivere una sola
realtà, costruita da noi e per
noi, mattone su mattone, perché fosse infinitamente più
ricca di quella che il quotidiano ci
costringeva a vivere, separati.
...io un lupetto? Io un bambino
vestito da cretino guidato da un cretino vestito
da bambino? Io in quei ridicoli pantaloni?
Quando me lo domandò, il candore di chi
non comprende la gravità delle
proprie parole dipinto in volto, avrei voluto ridere,
rifiutando l'indecenza di una proposta
tanto assurda con un pugno al mento, ma non ne
fui capace. Dentro di me, nell'angolo
della mente in cui ogni desiderio é vergine, non
contaminato dalla maschera inquietante
della realtà che ci imponiamo, la risposta era
"sì". In queste due lettere il
mio essere, sregolato e monolitico, affogò liscio come il
mare in certe mattine d'estate.
Non parlo di una breve e fugace esperienza di vita
all'aperto, che molti, pur reticenti,
sarebbero costretti ad ammettere di aver fatto da
bambini, sentendosi poi in dovere di
rettificare, precisare, sminuire e cancellare,
giustificandosi con una non meglio determinabile
imposizione dei genitori o con la
tenera età che non consente scelte
consapevoli. Riemergemmo sedici anni più tardi,
assolutamente diversi, novelli Dante
e Virgilio tornati "a riveder le stelle". Cresciuti,
vestivamo le esperienze fatte come modelle
gli abiti di una sfilata. La nostra
giovinezza, l'adolescenza irrequieta
e delinquente, la maturità attesa, rigettata e di
nuovo afferrata per i capelli, non solo
fu racchiusa in quei sedici anni, ma soprattutto
visse in crescente sincronia col mitico
Gruppo Scout "Roma 14": tre cuori tumultuosi
per due vite mancine. Il dubbio persistente,
é stabilire se fummo noi a consumare
quell'entità astratta -"il Roma
14"-, a crescervi dentro fin quando non ci risultò
angusto e limitante, o questo mostro
a masticarci, per poi sputarci via da sé, spremuti
ed aridi dopo cinquemilaottocentoqurantaquattro
giorni di lenta, non riuscita
digestione. Comunque sia stato, nel silenzio
della Sede, umido seminterrato in Corso
Manara 104, dai mucchi di tende Mottarone
in attesa del prossimo pennello da pulire,
o dagli strati più vecchi della
vernice sui muri e sugli armadietti, o ancora da alcune
delle mille cianfrusaglie prive di proprietario
abbandonate nel "buco nero", o infine
dalle panche e tavoli in metallo, vera
croce per i nostri azimuth e le nostre bussole, da
tutto ciò, in silenzio, si potrebbe
udir narrare la storia mia, Armando Esperia, al secolo
ARES, e del vecchio Elly, o ADE, come
preferiva esser chiamato, per difendere la sua
maschia virilità!
La storia dei cazzotti, delle sconfitte
e delle vittorie, delle sigarette, sigari e
pipatine, delle passatelle a vino o fumo
o acqua innocua che fosse, dell'ultima sbronza,
del primo bacio, delle amicizie vere
e di quelle finte come una banconota da
milllesettecentocinquantalire, del sudore,
dei furtarelli negli alimentari di paese
(gregari vecchia maniera di un inesistente
Giro d'Italia), dei soprusi fatti o ricevuti, dei
discorsi sulla vita, il sesso (allora
sì che ti serviva una bussola per orientarti), la
famiglia e la politica, delle tende da
otto in due (!!!) e di quelle da due in otto (???), del
cibo cucinato da sé, delle ragazze
"buche" e di quelle che "ci sarebbero state ma io non
ho voluto, perché sono un signore",
delle ferite, delle partite a basket, delle sfide a
"sbraco", dei grandi amori non sbocciati,
di quelli sbocciati ...ma perché proprio a
me?, di quelli supposti e basta, dei
giochi notturni, degli Hike, delle Route, degli
assalti alla kambusa, delle mani affogate
nel barattolo della Nutella proletariamente
espropriato alle Puma, alle Aquile, alle
Tigri, and so on, degli alzabandiera, delle gare
di campo, delle ispezioni, degli scherzi,
delle specialità, tappe, brevetti, dei Campi
Nazionali, della promessa, del passaggio,
di Giovanni e la sua chitarra, Andrea e i suoi
omonimi, Giulia, Chiara e Chiarina (!),
Betta e Bettina (!!), Sasa, Francesco/esca,
Ermanno, il Boccia and the family, UgoTitta,
Cataldo e Gloria, Damiano,
Furio-Valerio-Ermanno-Massimo-Federico-Gualtiero,
PippoMimmo, Lucania,
Samantah, Gianluca ed altri omonimi (una
vera invasione!!!),...e di cosa o chi non
posso ricordare in un elenco sintetico
o semplicemente menzionerò più innanzi.