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FRAMMENTI
SENZA SENSO SPARSI PER LA VIA
(in attesa di collocazione)
1). LA VITA E IL DESTINO
Ellade era profondamente agnostico.
Non credeva alle persone pessimiste
e nella possibilità che esistesse un
pessimismo come scelta consapevole del
proprio modo di essere. Credeva, tuttavia, nel
pessimismo come maschera che si indossa,
se opportuno, anche per tutta una vita.
Una eterna lacrima pendente su se stessi,
tagliente e pericolosa come il filo del rasoio.
Non credeva neanche in quei luoghi
comuni secondo cui l’uomo era
innatamente malvagio e ferino per via
della sua natura animale e predatrice, poiché,
sosteneva, se l'uomo era stato creato
da un Dio ovvero si era autonomamente evoluto
per millenni, ciò doveva essere
accaduto esclusivamente sulla spinta di una sua diversa
e ben più potente dote genetica:
la socialità
Questo era il credo umanistico
di Ellade, snocciolato alla buona durante i nostri
pomeriggi trascorsi in casa a chiacchierare
della vita e delle persone, lo stomaco pieno
e la vista del sole efficacemente preclusa
dalle tapparelle abbassate fino al totale
oscuramento.
Parlavamo di argomenti di ignoti,
adulti, quasi camaleontici, argomenti, per
tutte queste ragioni, terribilmente spaventosi;
così preferivamo farlo al buio, con gli
occhi forzatamente ciechi, creando un
singolare esorcismo contro la timidezza e le
bugie, fatto di artificiosa irrealtà.
Durante una di queste sue trance
predicatorie, sgangherate ed illogiche (e perciò
spesso del tutto veritiere) giunse persino
ad affermare che l'uomo é l'animale sociale
per eccellenza, tanto da spingere ogni
sua creazione nel senso di questa sua socialità:
anche internet non poteva essere considerata
una semplice invenzione, bensì una
esigenza strutturale del suo inventore
- la socialità, appunto, la necessità assoluta del
contratto umano, il bisogno di comunicazione-
applicate alla meccanica del computer.
Ed io ho ascoltato ridendo a queste assonanze
dislessiche (ma solo in apparenza a
pensarci bene!), ma lo devo ad Ellade
se, ancora oggi, credo fermamente che, nel voler
definire la sostanza prima dell'essere
uman, dobbiamo ammettere necessariamente che
questa non é, e non può
essere, l'odio: guai, infatti, a confondere la patologia con la
fisiologia. Quella è, infatti,
mostro partorito orribilmente dalla prima: figlio, dunque, e
non padre.
Non si deve tuttavia commettere
l'errore di pensare ad Ellade come un
inguaribile ottimista, malato del più
inossidabile positivismo ottuso e mai domo. Se
anzi, di una malattia soffrì il
nostro vecchio, questa é stata solo e soltanto la vita. Ade
usciva da tutti gli incidenti giovanili
non come una "sopravvissuto", ma come un
"vivo", anche quando risultava battuto
da una insindacabile annichilente sconfitta. La
vita costituiva la sua personale droga,
assunta a tempo pieno, priva di effetti
collaterali, incapace di indurre a forme
di assuefazione. Era infatti cosciente che il
destino, o fato, o sorte, o qualunque
altro nome si voglia assegnare a quegli
accadimenti che si pongono ben al di
là della linea del volere o potere, non fosse né
buono, né cattivo, ma semplicemente
originale. Appariva più propenso a considerarlo
come un contadino che sparge la sua semente
in un orto immenso: questa non sempre
potrà essere di qualità
superiore, come, d'altro canto, quando anche lo fosse, non
sempre giungerà su un terreno
fertile e fruttifero. In questa metafora, a lui tanto cara
-come d'altronde mille altre- i semi
altro non sono se non i fatti che ci possono
capitare, mentre il terreno é
l'uomo, sul quale essi cadono. Ed Ellade ragionava sulla
circostanza che, essendo i primi oltre
l'orizzonte della volontà e della azione, tutti
racchiusi nel guscio fragile della speranza
come inesorabilmente sono, fosse dovere
dell'uomo, irrinunciabile quale la luce
per l’esito della fotosintesi, divenire suolo
fertile, desideroso di vita da crescere.
Né si può commettere
l’errore opposto e definire passivo fatalismo questo suo
atteggiarsi al vivere, essendo Ellade
saldamente convinto che, nonostante la doverosa
sottrazione alle potenzialità
umane di molti eventi, ne residuassero un numero enorme
nei quali le energie personali giocassero
un ruolo decisivo per la riuscita, ovvero per
un possibile esito negativo. In questi
egli si impegnava, bruciando forza di volontà
come una fornace di Murano la polvere
di vetro. Ed anche quando ogni tentativo fosse
risultato insufficiente, ovvero le sue
mosse inadeguate ed inopportune, od anche il suo
mondo troppo limitato per quel genere
di impresa, il suo atteggiamento d’animo era
sempre combattivo, pur potendo apparire
l'umore tetro e lo sguardo perso nei meandri
del possibile, dove il "se avessi...."
e i "perché non..." regnano incontrastati sovrani.
Ben al di là delle impronte
che l'attimo immediato lasciava dietro di sè, egli
sapeva di aver intensamente vissuto,
e che questo non poteva risultare né inutile, né
dannoso, ad uno sguardo più lungimirante.
Ciò gli era sufficiente. Per lui vivere era
assorbire ogni goccia del giorno, ogni
istante che altri lasciavano andate tra gli spazi
miseri di un secondo. Come ho già
detto: una persona inguaribilmente ammalata di
vita, il cui unico imperativo assoluto
era: VIVI INTENSAMENTE. Il resto contava
come il due di coppe in una mano a spade
con una uscita a denari.
Di certo, fin qui arrivava l'Ellade
teorico, quello sentito nei suoi discorsi o visto
in quegli squarci meravigliosi di passato
che il mio ricordo -e spero non la mia
immaginazione- apre sovente; lampi di
tempi trascorsi nei quali quell’essere ipotetico
e la sua volontà di divenire,
in tutto coincidono con la realtà tangibile del ricordo del
mio carissimo amico Ade. Infatti, lungi
dall'essere perfetto, anche il nostro vecchio
pativa il tendersi impietoso dell’elastico
tra sé e sé: potenza ed atto1. Sapeva
dolorosamente che non sarebbe bastato
prendere coscienza dell'inesorabile divergenza
tra le due estremità: era altrsì
necessario imbracciare l'arma del coraggio più risoluto e
tirare verso di sé l'altro sé,
tirando così anche sè stesso, come due assurdi astronauti
nello spazio in cerca di un punto di
congiungimento vitale. Cercare insomma un punto
di incontro tra il dover essere e il
voler essere che non fosse poi così lontano da
quest'ultimo, il modo tale da conferire
alla esistenza medesima senso più profondo e
pieno.
Ricordo un giorno. Sedevamo su
due grossi cuscini indiani, memoria di un
viaggio lontano nel tempo di suo padre,
con chissà quale donna e chissà quale
pretesto, scusa o bugia e per chissà
quale motivazione esistenzial-cosmico-misticistica.
Lui aveva in mano “a tazzuriella e’ cafè”,
fedele compagna di vita, mentre io, baciato
in trasparenza da una spada di luce,
rollavo allegramente un solitario joint. Stufato da
questo suo egocentrismo esistenziale,
tentati di fargli considerare la presenza degli
“altri” nella vita di ognuno, la loro
influenza, ...le loro interazioni. Sì, lo ammetto, dissi
proprio "interazioni". Dio solo sa il
perché! E' stata l'unica volta che ho detto
"interazioni" a qualcuno che rispettassi
profondamente (...io non parlo così, ...io non
sono così). Fattosi d'improvviso
serio e scuro, come i pomeriggi d’autunno che
volgono a sera in un batter di ciglia,
s'alzò, venendomi dinanzi. Lo guardai da sotto in
su, aspirando la prima boccata di fumo,
incerto nel valutare la sua improvvisa
irruenza. M'afferrò per il collo
del maglione e mi tirò di forza a sé, naso contro naso,
fronte contro fronte, dicendo in tono
baritonale e secco: " gli “altri” in queste cose non
c'entrano. Chi sei e chi vuoi essere
é un fatto esclusivo tra te e te. Guarda l'ipotesi,
l'idea di Ares che vorresti realizzare
e volale incontro. Così lontana sembra un
fantasma intangibile, ma facendosi prossima
la vedrai per ciò che é: un angelo. Il tuo
angelo. É lui il tuo obiettivo.
Insegui l'angelo, diventa angelo, perché se c'é un
Dio, ed
io non ne ho dubbi, a lui solo dovrai
rendere conto, e lui non accetterà come risposta
un "ma-gli-altri". Nei Ssuoi confronti,
la Vita é una responsabilità assolutamente
personale di chi la indossa. Insegui
l'angelo, diventa angelo".
Si girò, facendo perno sul
tallone sinistro, pensieroso e concentrato, dirigendo i
passi verso l'altra stanza. Quel giorno
accaddero due fatti nuovi nella mia vita: Ellade
seppe spaventarmi, e, per la prima volta
vidi il mio angelo. Come si dice: “non c’è
patto senza contratto”. Poco più
tardi tornò da me con un raffazzonato foglio di carta,
le cui parole piegarono energicamente
le residue certezze del mio animo, che
divennero, implodendo, puro e genuino
dubbio.
Lessi:
2). LA SCRITTURA
Quando scrivo, quando riesco a
scrivere, recupero tutta l'umanità che ho
perduto nelle mie azioni dissennate e
vagabonde. Ogni immagine bagnata nel mio
inchiostro é un ricordo, piacevolmente
ascoltato una seconda volta, ed un monito
perpetuo al contempo.
3). SARA
Le prese le mani. Ne soppesò
con uno sguardo intenso la forma, lo spessore, il
colore. Indi appoggio l'indice sulla
punta del naso intirizzito e le disse:
-"tu sei perfetta".
-"non é vero... sono umana".
-"é per questo che sei perfetta".
Le risposte.
4). FRANCA
Sorrideva Ade, in questi frangenti.
Franca era sempre la ragione determinante di
un consenso o una decisione paterne,
mentre per Ellade si rinveniva sovente, con
facilità non di rado assai forzata,
una soluzione alternativa, non contestabile, in toni e
tinte minori, invariabilmente dotata
del sapore sommesso di un ripiego, che al Vecchio
sapeva tanto di amara sconfitta. Non
gelosia, ma rabbia, era dunque il sentimento
celato dietro quel sorriso amaro, che,
al contrario, era l'espressione suprema di gioia di
esistere in ogni altra circostanza della
sua vita.
*4). LA VITA E GLI ALTRI
Paragonava la vita ad un lungo
piano infinito sul quale si stagliano, ordinati
come le caselle di un cruciverba, multiformi
distese di variopinti mattoncini Lego.
Molto era contenuto in un quella curiosa
metafora esistenziale: la scelta del libero
arbitrio, un grappolo di necessari e
categorici imperativi (pensa, agisci, vivi, crea...), la
certa possibilità di un ogni futura
possibilità, la ragione, la fantasia e la maturità. Tutto
ritrovato io, nelle sue parole, perché
tutto sapeva metterci per lui, in quel minestrone di
concetti beni insaporito di spaziose
ed adolescenti similitudini, che erano i suoli
strampalati discorsi.
La vita era il contenuto inesistente
di una scatola di Lego inesistente, i cui
prezzi tuttavia, erano ordinatamente
disposti su una pianura padana immaginaria, che
potrebbe anche non esserci! Ogni combinazione
infinita di forme e colori era
potenziale in quella landa silenziosa
ma viva, e ciascuno, trovandosi nell'esatto centro
geometrico, non poteva che essere ingegnere
di se stesso, costruttore della propria
esistenza. Riteneva anzi, Dantesco come
e forse più del sommo suo amico, che il
peccato più infamante fosse, per
l'appunto, l'ignavia: nessuno doveva esimersi dal
realizzare, in vita, almeno un incastro
significativo. Certo, vedeva i "più saggi" come
creatori di strutture originalissime,
ma spesso monocromatiche; gli "artisti", architetti
di torri multicolori spianate verso l'alto
dei cieli come fucili in guerra; i "politici",
carpentieri instancabili alla ricerca
di idee sempre più efficaci per difendere le proprie
ciclopiche mura, da essi erette verso
l'esterno loro ostile, ignari che l'unica soluzione e
via di scampo sia l'apertura di altrettanto
imponenti spazi affacciati sul sociale. E via
via, davanti ai miei occhi increduli,
materializzava d'incanto, sorprendente esercizio di
ipnosi e creazione cerebrale, ogni tipo
umano che gli sovvenisse. Invero, ci
divertivamo spesso ad andare oltre quel
luogo di confine che gli altri solitamente
chiamano normalità (o sanità
mentale) con lo scopo esatto di fissarsi un limite, una
soglia oltre la quale non rispondono
più delle proprie azioni e reazioni, ma tutto
dipende da tragiche disfunzioni del sistema
umano. Questa frontiera, per noi, non
esisteva, o meglio non esisteva come
tale. Non già un limite invalicabile, bensì di un
segnale di aveva raggiunto i "minimalia"
dell'essere. Non un "di qui procedere che a
vostro rischio", insomma, ma una ponte
verso luoghi assolutamente vergini, perché
ancora da creare mentalmente. E dall'alto
di quelle cime, in una prospettiva rivelatrice
di dettagli indicativi, io ed Ellade
ci divertivamo ad osservare sotto di noi gli altri, ben
attenti a non varcare, né pestare
la linea ("don't cross the line", remember it, se vi
troverete a passare in contrade Anglosassoni!!!).Creavamo
giganteschi casellari
tematici cerebrali, appesi al soffitto
del nostro cielo in una stanza con il filo
evanescente dei pensieri in libertà.
Ellade aveva sempre un posto per ciascuno e un
"ciascuno" per ogni posto. L'ordine era
in lui mania, difetto, pregio e forma-mentis
nello stesso tempo. I miei personaggi,
invece, finivano invariabilmente nel vuoto privo
di significato compresso dall'
accalcarsi l'una sull'altra delle varie caselle. Qualunque
fosse l'argomento, il profilo in esame,
la caratteristica umana, non mi riusciva
possibile rinvenire uno spazio pertinente.
Ade sosteneva che rimanessi attratto
irresistibilmente dalle diversità
ed incongruenze piuttosto che dai tratti comuni. Lui era
capace di sintetizzare l'essenziale,
io di assaporare ciò che attorno ad esso si condensa.
Insomma, erano i particolari che deragliavano
il mio pensiero dai binari della
attenzione, verso stazioni minori, periferiche
e scalcinate. Così un giorno confessai al
vecchio di sentirmi come lo stolto, intento
ad osservare un uomo che indica verso
l'alto, vedendo solamente il dito e non
la luna che questo punta. Mi fissò intensamente,
con fare piccato e sorpreso, ed ordinò
"Guarda!" indicando un mio piccolo quadro
sulla parete, al confronto immensa, fitta
di mille altre immagini, posters, disegni, foto,
cartoline, pupazzi e ricordi di tutta
la mia vita. affastellati disordinatamente. "Cosa
vedi?", domanda. "Il quadro che ho dipinto
il mese scorso", risposi senza esitare; e lui
concluse "Questo vuole forse dire che
la parete e tutto il resto si sono ben nascosti
dietro di esso?... non importa se il
guardi ai particolari con maggiore intensità rispetto
agli elementi da altri ritenuti essenziali:
importa l'intensità". E soggiunse: "Ti sembra
di essere soltanto il vuoto attorno a
un pianeta? Prova, invece, a pensarti come una
ciambella che ricopre il vuoto attorno
al proprio buco centrale! Cosa preferisci
mangiare, il buco o la ciambella? ".
"Il buco", sentenziai immediato, ma frastornato
dalla libera associazione dei suoi pensieri
che bussava insistente alla porta degli mio
cranio per invaderlo". "Ecco", replicò,
"Lascia a me il buco. A ciascuno il proprio". Ci
aveva messo una manciata di anni, lui,
per leggermi chiaramente dentro l'anima, lo
spirito ed i desideri; ci metterò
una vita, io, per scrivere confusamente la sua, su uno
schermo monocromatico, arcaico per una
moderno ultra piatto, come un dinosauro per
l'uomo ...di domani.
5). AIGOR
Essere alternativi per scelta è
una vocazione, così come esserlo per vocazione è una
scelta: ma essere alternativi per forza
è, e rimarrà sempre, solo una stupida, futile ed
incosciente forzatura.