Concerti
Venezia, Teatro La Fenice e Teatro Malibran, 14 e 21 aprile 1982  
Teatro La Fenice, 14 aprile 1982 
Marilyn Horne 
Martin Katz 

G.Bizet 
Chanson d'avril 
Vieille chanson 
Adieu de l'hotesse arabe 
H.Wolf 
Gesang Weylas 
Um Mitternacht 
Elfenlied 
Lebe-Wohl 
Er Ist's 
G.F.Haendel 
Serse: Frondi tenere...Ombra mai fu 
Partenope: Furibondo spira il vento 
G.Rossini 
Se il vuol la molinara 
L'ultimo ricordo 
Canzonetta spagnuola 
L'addio di Rossini 
M.De Falla 
Siete canciones populares espanolas

Teatro Malibran, 21 aprile 1982 
Marilyn Horne 
I Solisti Veneti - Claudio Scimone 

G.F.Haendel 
Saul: sinfonia 
Rinaldo: Venti, turbini prestate 
Rodelinda: Dove sei, amato bene? 
Haman e Mordecai: sinfonia 
Rodelinda: Vivi, tiranno 
A.Vivaldi 
Arsilda regina di Ponto: sinfonia 
Orlando Furioso: Nel profondo 
Fonti di pianto, cantata 
Orlando Furioso: Sorge l'irato nembo 
A. Lampugnani 
Meraspe: Superbo di me stesso


In un mese, quattro concerti di Marilyn Horne. Il primo, alla Fenice davanti a una platea "brillante" in molti sensi (la serata era qualcosa tipo "Gala del Diamante") comprendeva quattro mélodies di Bizet, cinque lieder di Wolf, due arie di Haendel; e nella seconda parte quattro canzonette di Rossini e le Siete cancione populares espanolas di Manuel De Falla, con in più come bis la Habanera di Carmen, la sortita di Isabella dall’Italiana e I dream of Jeanie with the light brown hair di Stephen Foster. Il tutto accompagnato, con un’abilità tecnica e un estro espressivo sempre più sorprendenti, da Martin Katz al pianoforte.
Ciò che incuriosisce ogni volta, con la Horne, ad ascoltarla in concerto, è il contrario di quanto accade con gli altri recitalists in genere. Di norma quando costoro sono dei grandi restiamo innanzitutto sorpresi dalla loro espressività, e solo in un secondo momento prevale su di noi un fascino "tecnico". Con la Horne, il primo fascino è tutto per la tecnica: per come una voce ad esempio di volume non grandissimo (anche se irrobustitasi nel corso degli anni) riesca, in virtù di un’emissione perfetta, a correre per sale anche molto grandi; per la misura e la pertinenza con cui si serve di certi effetti - come i poirinés - abusati dalla maggior parte delle sue colleghe; e naturalmente, per quello sfoggio di virtuosismo vorticoso che le consente (come quella sera, nella strepitosa aria di tempesta da Partenope appena acquisita al repertorio) di muoversi con allucinante sicurezza, e di più, con arodre battagliero, in tessiture e passi d’agilità praticamente mai tentati in questo secolo.
Ma poi, sempre, sullo sbalordimento tecnico prevale l’incanto per la delicatezza e il sapientissimo uso di ogni mezzo nel versante elegiaco, lirico, patetico. Come pochissimi concertisti (di cui forse nessuno altrettanto a suo agio anche sul palcoscenico) la Horne ha quel dono prezioso di saper "recitare" una mélodie o un lied senza che questo si possa virtualmente scorgere sul volto, nei gesti. E’ cioè miracolosamente, quando affronta Wolf o Bizet o Schubert o il Rossini da camera, la stessa Horne che apparve la prima volta alla Scala tanti anni fa come Jocasta in Oedipus Rex di Stravinski: una statua. Ma una statua che sotto la superficie fredda e liscia e immota ospita fulmini e tempeste, solitudini allucinate o piccoli idilli Biedermeier e Rococò. Solo una cosa le è un po’ sfuggita, quella prima sera a Venezia: le Siete Canciones di De Falla. Ma lì, la sua visione di Spagna è ottocentesca e esotica e variopinta e sensuale quanto quella di De Falla è novecentesca e sul territorio, quasi ascetica e appena sfiorata dalle tenuità coloristiche (impressioniste, o meglio post-impressioniste) di un acquerello. Per cui soltanto a tratti - soprattutto nei due brani elegiaci, l’Asturiana e la Nana - c’era una sostanziale affinità: altrove, c’era un intelligente ma improprio prevalere dell’effetto. Il secondo concerto (dato con lo stesso programma a Torino e al Malibran di Venezia, e ascoltato in questa seconda occasione) era una serata di Haendel/Vivaldi con i Solisti Veneti di Claudio Scimone; e serviva da assaggio, e prova, del disco di arie di Haendel inciso immediatamente dopo dagli stessi in una villa nei dintorni di Padova. [...]
Con il terzo concerto, la Horne andava a inaugurare (nuovamente con Martin Katz) il Festival Bologna ’82 "I Grandi Interpreti" [...]. Ed e’ stato il più bel concerto della Horne. Magnifici, più freschi e intensi del solito i Bizet: con nuove allusioni e intenzioni ne L’Adieu de l’Ho^tesse Arabe di cui saltavano anche fuori - per quanto curiosi, legittimi - i connotati di denuncia sociale stile Secondo Impero. Ma assolutamente sublimi (per servirsi di un aggettivo che non andrebbe usato che due, tre volte in una vita) i quattro lieder di Schubert successivi : Im Abendrot, Gruppe aus dem Tartarus, Der Doppelganger, Fischerweise. Qui tutto quello che sa dare la Horne - tecnica, intelligenza, capacità rabdomantica di rinvenire le chiavi e gli accenti giusti - trovano quattro possibilità di incontro diversissime, in quattro pezzi di Classico/Romantico capaci di tantissime suggestioni (Gruppe aus Dem Tartarus ingloba perfino, nel suo progetto di immagine, qualche eco di alessandrinismo barocco): si avevano le lacrime agli occhi. Il resto del concerto (due arie di Orlando, Fonti di pianto, le quattro canzonette di Rossini, "Di tanti palpiti" del Tancredi, "Assisa a pie’ d’un salice" di Otello e, ancora, la sortita dall’Italiana: e come bis Habanera di Carmen, "Mon coeur s’ouvre a ta voix" di Samson et Dalila e la solita Jeanie di Forster) fu un graduale e sempre più cordiale, e alla fine appassionato, fiutarsi, accarezzarsi, adorarsi tra la Horne e il pubblico bolognese: che a un dato momento si mise in coda per offrirle personalmente, ognuno, una rosa: serata indimenticabile.
Così, nonostante il bidone scaligero di Italiana in Algeri, la Horne è venuta in Italia. Ama l’Italia, questa americana prodigiosa. Ec è capace di gesti nobili e privatissimi: come il giorno che ha fatto duecento chilometri in macchina per andare a posare un fiore sulla tomba della Malanotte, la prima interprete di Tancredi. Nessun divismo, nessun fotografo: non è stata nemmeno lei a raccontarlo. Un gesto di affetto tra colleghe, la sensazione serena e orgogliosa di essere dopo tante fatiche la depositaria di una Tradizione. Per lo stesso motivo, andando a ritirare a S. Giorgio Canavese il premio Rossini (praticamente inventato per lei dai compatrioti di un’altra grande rossiniana: Teresa Belloc) la Horne era veramente commossa: e mostrava anche nei giorni successivi agli amici quella targa d’oro su cui è inciso l’incipit musicale di Di tanti palpiti.
Forse però l’incipit da incidere era un altro, quello del recitativo precedente: Oh patria, dolce e ingrata patria, io ti saluto. Perché anche la Horne ci saluta. E se continua la demente riluttanza dei teatri a firmare i contratti in anticipo, gli appuntamenti continueranno a saltare: com’è successo con Semiramide a Roma e L’assedio di Corinto a Firenze. E tutta quest’arte, frutto di amore e studio senza molti paragoni, saremo costretti ad ascoltarla in disco.

Carlo Majer - Musica Viva VI(1982), n.6, giugno.


 
 
1