Orlando:
Marilyn Horne
Angelica: Lella Cuberli Medoro: Jeffrey Gall Dorinda: Adelina Scarabelli Zoroastro: Giorgio Surjan Direttore: Sir Charles Mackerras Regia: Virginio Puecher Scene e costumi: Pasquale Grossi |
La
Horne ha affrontato la parte di Orlando non si sa se con maggiore bravura
e pertinenza stilistica nelle colorature, o con più straordinaria
evidenza e chiarezza espressiva nella dizione e nel respiro delle frasi. D. Villatico |
[...]
se la vocalizzazione accusa qualche incrinatura di smalto, la plasticità
dell’accento specie in un registro grave ancora impressionante, l’attacco
di suono aggressivo e filante [...] lo slancio eroico e solare, configurano
un Orlando degno del mitico primo interprete del ruolo, il mitico Senesino. G. Gori |
[...]
un Orlando superbamente eroico, arditamente lanciato all’assalto delle
più impervie acrobazie canore. R. Tedeschi |
E'
un ordine geometrico animato dall'umanità di musica e canto [...]nel
rondò di Orlando, folle che compiange se stesso, Marilyn Horne si
piega [...] a una mestizia nera e trasognata che merita ancora più
lodi dello stile inimitabile nella foga acrobatica. M. Papini |
L'Orlando
di Haendel è meno furioso di quello di Vivaldi e anche di quello
di Ariosto. O meglio, lo è in modo molto più intellettuale:
dice di essere un'ombra, vuole scendere nello Stige, vede la barca di Caronte,
Medoro con Proserpina e vien meno il suo furore "se si piange all'inferno
anche d'amore". L'Orlando di Haendel a Venezia è ancor meno furioso
del previsto; ma qualora lo fosse anche, nell'estro violento di Marilyn
Horne, la sua furia, come ogni altra cosa e dimensione, s'inquadrerebbe
nel discorso civile e composto senza troppi colori e senza troppi respiri
del britannico Mackerras (diffidare degli specialisti) e nella geometria
delle immagini ordinatamente carrellate o sospese nella scenografia componibile
di Pasquale Grossi per il regista Virginio Puecher. Come un libro sullo
spettacolo barocco, raccoglie le figure di un palazzo di quelli che la
tradizione rinascimentale consegna al Settecento, d'una natura fatta nuvole
di verde, e d'altri segni, astri e nuvole, e li manda in giro per il palcoscenico,
con stile caleidoscopico, a spiegare la vicenda e lo spirito degli eventi
teatrali, in modo che, per usare una parola cara al librettismo haendeliano,
potremmo definire "implacabile". Anche i costumi servono per delineare
figure e figurette e funzioni: siano il Medoro alla Watteau del controtenore
Jeffrey Gall, sia la bella pastorella Dorinda della Scarabelli, tutta mossette
rigorosamente preventivate, e talora anche cesto in equilibrio sulla testa,
che tutti gli altri, illustrazioni animate d'una pubblicazione sul teatro
europeo del Settecento prima di Mozart. La qualità è raffinata,
la fantasia imprigionata nella rarefatta didascalicità pianificatrice:
è una lettura senza decolli, ma interessante, un contributo critico
eccellente alla conoscenza del teatro di Haendel, ed un piacere delkl'occhio
procurato con chiarezza. In questo spazio, si ascolta una compagnia di canto di quelle che vent’anni fa non si sarebbero nemmeno immaginate esistibili. Protagonista Marilyn Horne, la quale si sbriga con piena coscienza professionale l’aria dalle agilità basse dell’entrata, poi si scatena nella potenza spericolata e vincitrice delle arie dalle agilità tumultuose acute e spaziose sul pentagramma, infine approda alla dolcezza drammatica dell’aria del sonno. Non c’è imperfezione in lei, non c’è dolcezza, è l’infallibile. Gli artisti, prima, e solo molto dopo i musicologi segnano le rinascite degli autori e dei generi musicali; il pubblico, anzi, precede gli studiosi nel capire. Qui il pubblico, naturalmente, applaude con convinta ammirazione: con la signora Horne, la dolce, tenera e solo un poco imbarazzata all'inizio Lella Cuberli, voce svettante e limpidissima; la straordinaria Adelina Scarabelli, intensa e ricca ormai di colori come una primadonna settecentesca; il falsettista Jeffrey Gall, che riesce a farci amare anche una voce di così dubbia costruzione, grazie ad un gusto del fraseggio pieno di seduzione; il basso Giorgio Surjan, sempre nobile e fin troppo contenuto, interessante. Alla Fenice, dunque, il senso d'un appuntamento vincente e naturale: proprio nella circostanza in cui non troppi anni fa ci saremmo impauriti. Inevec, eccoci qui impavidi, incolto chi si annoia, eletto chi gode, tutti tenendo tra le mani il programma di sala dello specializzatissimo Lorenzo Bianconi (fra gli studiosi, fidatevi degli specialisti), che diventa uno dei più bei libri per capire Haendel e non soltanto Haendel. Pronti tutti alle antiche meraviglie, e a dire che dal 1733 non è passato molto, ma soltanto lo stretto necessario per capire con gioia nuova quest'opera ed il suo molto festeggiato autore nel suo trecentesimo compleanno. L. Arruga Musica Viva, IX(1985), n.5, maggio |