G.F. Haendel, Orlando
Venezia, Teatro La Fenice, aprile 1985 
Orlando: Marilyn Horne
Angelica: Lella Cuberli
Medoro: Jeffrey Gall
Dorinda: Adelina Scarabelli
Zoroastro: Giorgio Surjan

Direttore: Sir Charles Mackerras
Regia: Virginio Puecher
Scene e costumi: Pasquale Grossi

La Horne ha affrontato la parte di Orlando non si sa se con maggiore bravura e pertinenza stilistica nelle colorature, o con più straordinaria evidenza e chiarezza espressiva nella dizione e nel respiro delle frasi.
D. Villatico
[...] se la vocalizzazione accusa qualche incrinatura di smalto, la plasticità dell’accento specie in un registro grave ancora impressionante, l’attacco di suono aggressivo e filante [...] lo slancio eroico e solare, configurano un Orlando degno del mitico primo interprete del ruolo, il mitico Senesino.
G. Gori
[...] un Orlando superbamente eroico, arditamente lanciato all’assalto delle più impervie acrobazie canore.
R. Tedeschi
E' un ordine geometrico animato dall'umanità di musica e canto [...]nel rondò di Orlando, folle che compiange se stesso, Marilyn Horne si piega [...] a una mestizia nera e trasognata che merita ancora più lodi dello stile inimitabile nella foga acrobatica.
M. Papini
L'Orlando di Haendel è meno furioso di quello di Vivaldi e anche di quello di Ariosto. O meglio, lo è in modo molto più intellettuale: dice di essere un'ombra, vuole scendere nello Stige, vede la barca di Caronte, Medoro con Proserpina e vien meno il suo furore "se si piange all'inferno anche d'amore". L'Orlando di Haendel a Venezia è ancor meno furioso del previsto; ma qualora lo fosse anche, nell'estro violento di Marilyn Horne, la sua furia, come ogni altra cosa e dimensione, s'inquadrerebbe nel discorso civile e composto senza troppi colori e senza troppi respiri del britannico Mackerras (diffidare degli specialisti) e nella geometria delle immagini ordinatamente carrellate o sospese nella scenografia componibile di Pasquale Grossi per il regista Virginio Puecher. Come un libro sullo spettacolo barocco, raccoglie le figure di un palazzo di quelli che la tradizione rinascimentale consegna al Settecento, d'una natura fatta nuvole di verde, e d'altri segni, astri e nuvole, e li manda in giro per il palcoscenico, con stile caleidoscopico, a spiegare la vicenda e lo spirito degli eventi teatrali, in modo che, per usare una parola cara al librettismo haendeliano, potremmo definire "implacabile". Anche i costumi servono per delineare figure e figurette e funzioni: siano il Medoro alla Watteau del controtenore Jeffrey Gall, sia la bella pastorella Dorinda della Scarabelli, tutta mossette rigorosamente preventivate, e talora anche cesto in equilibrio sulla testa, che tutti gli altri, illustrazioni animate d'una pubblicazione sul teatro europeo del Settecento prima di Mozart. La qualità è raffinata, la fantasia imprigionata nella rarefatta didascalicità pianificatrice: è una lettura senza decolli, ma interessante, un contributo critico eccellente alla conoscenza del teatro di Haendel, ed un piacere delkl'occhio procurato con chiarezza.
In questo spazio, si ascolta una compagnia di canto di quelle che vent’anni fa non si sarebbero nemmeno immaginate esistibili. Protagonista Marilyn Horne, la quale si sbriga con piena coscienza professionale l’aria dalle agilità basse dell’entrata, poi si scatena nella potenza spericolata e vincitrice delle arie dalle agilità tumultuose acute e spaziose sul pentagramma, infine approda alla dolcezza drammatica dell’aria del sonno. Non c’è imperfezione in lei, non c’è dolcezza, è l’infallibile. Gli artisti, prima, e solo molto dopo i musicologi segnano le rinascite degli autori e dei generi musicali; il pubblico, anzi, precede gli studiosi nel capire. Qui il pubblico, naturalmente, applaude con convinta ammirazione: con la signora Horne, la dolce, tenera e solo un poco imbarazzata all'inizio Lella Cuberli, voce svettante e limpidissima; la straordinaria Adelina Scarabelli, intensa e ricca ormai di colori come una primadonna settecentesca; il falsettista Jeffrey Gall, che riesce a farci amare anche una voce di così dubbia costruzione, grazie ad un gusto del fraseggio pieno di seduzione; il basso Giorgio Surjan, sempre nobile e fin troppo contenuto, interessante.
Alla Fenice, dunque, il senso d'un appuntamento vincente e naturale: proprio nella circostanza in cui non troppi anni fa ci saremmo impauriti. Inevec, eccoci qui impavidi, incolto chi si annoia, eletto chi gode, tutti tenendo tra le mani il programma di sala dello specializzatissimo Lorenzo Bianconi (fra gli studiosi, fidatevi degli specialisti), che diventa uno dei più bei libri per capire Haendel e non soltanto Haendel. Pronti tutti alle antiche meraviglie, e a dire che dal 1733 non è passato molto, ma soltanto lo stretto necessario per capire con gioia nuova quest'opera ed il suo molto festeggiato autore nel suo trecentesimo compleanno.
L. Arruga

Musica Viva, IX(1985), n.5, maggio



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