A. Vivaldi, Orlando Furioso
Verona, Teatro Filarmonico, 1978  

Nondimeno, la qualità dell'esecuzione e dello spettacolo annullava i tempi morti. Claudio Scimone, che aveva riversato nella concertazione le sue esperienze di studioso di Vivaldi, dirigeva con gusto e sicurezza e i Solisti Veneti, a parte le brillanti esibizioni individuali di Clementina Scimone (flauto) e Nane Calabrese (viola d'amore), erano impeccabili. [...] Pizzi non sbagliò un colpo. Ideò costumi splendidi e scene sostanzialmente semplici sotto l'apparenza fiabesca, fastosa e insieme naive dei marchingegni settecenteschi: cavalloni alati, vascelli incantati, solenni statue, giochi di specchi e di luci; e fu felicissimo nelle movenze dei personaggi. Non provò neppure a simulare una pazzia di Orlando da frenocomio, come ancor oggi molti registi concepiscono la demenza di Lucia di Lammermoor, ma lasciò che l'alternativa di grottesco e di patetico sulla quale Vivaldi costruì la follia del protagonista si sfogasse nella musica e nel canto. Preferì ritrarre emblematicamente la tempra epicheggiante di Orlando lasciando che in alcune scene passeggiasse maestosamente in lungo e in largo, mentre tutti gli altri personaggi, eccettuata in qualche momento la maga Alcina, erano inchiodati alla staticità stilizzata e alla languida indolenza di quel pizzico di Arcadia che Vivaldi aveva mescolato alle strutture barocche dell'opera. Come se non bastasse, Pizzi riuscì a cogliere il sapore di fondo delle esecuzioni del tempo di Vivaldi, presentando i personaggi nel duplice aspetto di figure da poema cavalleresco e di "virtuosi" settecenteschi.
Orlando era una Horne che sprizzava energia, vitalità, calore. Non soltanto fu stupenda nei suoi due stili favoriti, la vocalità di bravura e quella patetica, ma colorì e accentò irecitativi con una gamma stupefacente di tinte e sfumature. [...] Come che sia, quello spettacolo impregnato di tempo antico ogni tanto mi torna alla mente. Così mi volto indietro a sbirciare le sue dorature e le sue lacche e traodo i venti e le bufere ritratti in un turbinio di vocalizzi dalla voce imperiosa della mia amica Marilyn. "Sorge l'irato nembo / e la fatal tempesta / col sussurrar dell'onde..."

R. Celletti, Memorie d'un ascoltatore, Milano 1985

 
 
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