Tancredi:
Marilyn Horne Amenaide: Margherita Rinaldi Argirio: Renzo Casellato Orbazzano: Nicola Zaccaria Orchestra e coro del teatro dell'Opera di Roma Direttore: Gabriele Ferro Regia: Filippo Sanjust |
Riferisco, del Tancredi
che ha aperto la stagione dell'Opera di Roma, ciò che ho ascoltato
per radio. E avendo ascoltato, sempre per radio, il Trovatore di
Firenze, il Poliuto di Napoli, il Pipistrello di Bologna
e, di presenza, il Macbeth di Torino e il Don Carlo
di Milano, credo di poter affermare che, fra tutte le serate inaugurali,
proprio il Tancredi di Roma ha riscosso il successo più schietto
e fervido. E' una nota lieta per un teatro che era divenuto oggetto di
sarcasmi e di dileggi - in gran parte meritati, intendiamoci - e quasi
il simbolo del dissesto dei nostri Enti lirici. C'era anzitutto, in questa esecuzione, una novità e cioè il finale con la morte di Tancredi ideato da Rossini in un tentativo di porre termine alla tradizione dei finali a lieto fine. Premesso che il pubblico del tempo non gradì l'innovazione e che si dovette tornare alla chiusa consueta (l'Allegro "Tra quai soavi palpiti"), il finale triste, che è stato rintracciato da quel formidabile filologo e ricercatore che è Philip Gosset, consiste in un lungo recitativo, qua e là vagamente arioso, inquadrato da una semplice ma suggestiva cornice orchestrale. Si potrebbe anche parlare d'una singolare anticipazione di taluni procedimenti da dramma musicale, ma con questo dovremmo implicitamente ammettere che un Rossini che risolve con recitativi un momento estremamente patetico, non è, in fin dei conti, Rossini. D'altronde, la rinascita rossiniana di questi ultimi anni è legata al fatto che il pubblico sta gradualmente accedendo al concetto di opera fiabesca e "inverosimile". Su questo presupposto, la circostanza che la morte di Tancredi sia più aderente alle fonti letterarie (Voltaire) e più drammaticamente credibile, ha, oggi come oggi, scarso peso. Se avessimo continuato a giudicare il nostro teatro d'opera con il metro del razionalismo francese o della verità drammatica romantica, non ci sarebbe stato alcun ritorno al Rossini serio. In realtà, ciò che conta, nel Tancredi, è la trasfigurazione dei fatti ottenuta con un tratteggio vocale - e spesso anche strumentale - alato ed estatico. La concezione rossiniana della musica intesa come arte ideale e non come arte imitativa e descrittiva, trova nel Tancredi la prima grande estrinsecazione. Tutto ciò che riguarda il protagonista e Amenaide è, per così dire, sublimato, dalle loro lacerazioni al paesaggio rarefatto che li avvolge e che Rossini coglie con squarci orchestrali di eccezionale bellezza: il preludio all'ingresso di Tancredi, l'introduzione all'aria del carcere di Amenaide, l'ambientazione fra l'orrido e il georgico del luogo in cui il protagonista canta la dolente cavatina "Ah, che scordar non so". A queste magie, che ci riportano a taluni panorami dei poemi cavallereschi, s'aggiungono altri echi d'un mondo epicheggiante visto ancora con l'occhio d'un Ariosto, in determinate occasioni, o d'un Tasso, in altre: trombe marziali, cerimonie guerresche, duetti di sfida. E, al centro, i lamenti celestiali di due esseri lievi e leggiadri come figure da idillio arcaico. Il Tancredi è questo e non altro. E' inutile spiegare ancora una volta perchè un autore dal linguaggio vocale trasfigurato come Rossini esiga cantanti eccezionali. L'attuale Marilyn Horne ha un'ottava inferiore resa di quando in quando artefatta e gutturale dalla ricerca di corposi suoni da contralto in buona parte estranei alla vera natura di questa voce. Anche in alto la freschezza e la purezza del timbro denunciano qualche cedimento, ma, malgrado ciò, la Horne è pur sempre una cantante eccezionale e, in Rossini, unica. E' tale, in primo luogo, per la natura del suo virtuosismo, che è espressivo in sommo grado, non meccanico. Le sue "roulades" di forza sprizzano fierezza,ardimento, orgoglio e le sue fiorettature di grazia sono le increspature sensuali di abbandoni teneri e sfumati. Quando varia, quasi sempre coglie nel punto giusto e cioè in quegli spazi che la coloratura degli operisti del primissimo Ottocento, a metà fra l'ornamentazione lata e l'ornamentazione minuta, lasciava deliberatamente vuoti sia nelle arie che nei recitativi. Chiudendo questi interstizi; ravvivando l'espressione con la fiorettatura eseguita a regola d'arte oltre che con una gamma vastissima di colori e di accenti; rendendo il canto aulico e mordente con lo slancio delle agilità granite e languido e trasparente con la morbidezza del suono e l'impeccabile architettura dei legati, la Horne non soltanto pone in risalto tutto ciò che Rossini ha scritto o ha sottinteso, ma dà all'intera esecuzione, con la sua presenza, un'impronta che potrebbe vagamente far pensare all'elettricismo di Paganini e che invano cercheremmo in quei collosi minestroni che erano il cosiddetto Rossini alla Mozart di Gui o in quegli informi pasticci, tipo un'invereconda Donna del lago datasi a Firenze una ventina d'anni fa, o tipo il Mosè, che uscivano dalla cucina verista di direttori come Serafin. E così nel Tancredi di Roma abbiamo udito - tolti i momenti in cui il tenore e il basso non ci facevano bruscamente ricadere nella valle di lacrime in cui di solito dimoriamo - una Rinaldi spronata, dall'emulazione, a superare se stessa e a darci un'Amenaide d'una leggiadria e d'una levità incantevoli. E basterebbe forse a questa cantante - che altre volte abbiamo udito bamboleggiare al modo dei sopranini scipiti ante Callas - prendere maggiore coscienza della propria bravura, dare un ultimo tocco all'assetto virtuosistico (qualche passaggio di agilità non era impeccabile, l'uso del trillo non e' completo) e sviluppare il gusto delle improvvisazioni, per essere una fuoriclasse. Ma tutto questo per una vocalista italiana è difficile, perchè vorrebbe dire lacerare quella ragnateladi superstizioni, di pregiudizi, di distorsioni che le incolte falangi dei direttori d'orchestra e dei maestri preparatori di casa nostra hanno ordita da una quarantina d'anni intorno alla vera prassi interpretativa del primo Ottocento in genere e di Rossini in particolare. Con il risultato di tarpare, in una, le capacità tecniche, la fantasia e la cultura storica dei nostri cantanti. La Horne è la Horne anche perchè è nata al teatro fuori dell'orbita funesta del battisolfismo italico. La direzione di Gabriele Ferro ha decollato in modo stentato, generando una Sinfonia limitata nella dinamica, a tratti pesantuccia, opacizzata nelle timbrature, priva di guizzi e, insomma, piuttosto antiquata e "morne". Ma anche nelle introduzioni e negli accompagnamenti di certe pagine del I atto il suono orchestrale era spesso freddo e monotono, mancava di aulicità e di abbandono. Senza poi contare che il rapporto ritmico fra la bacchetta e l'orchestra, già un poco privo di "aplomb" nella prima parte della cavatina di Amenaide, ha subito un pauroso scollamento all'inizio della ripresa di "Di tanti palpiti". Diverso invece il II atto, di cui Ferro ha abbastanza spesso afferrato e reso il carattere di idillio sublimato e di paesaggio incantato, esprimendolo con squarci orchestrali di buona trasparenza e con accompagnamenti lievi, nitidi e di ottimo stacco. Anche la parte corale è sensibilmente migliorata (in specie in "Regna il terror"), ma devo aggiungere che, per la prima volta in vita mia, ho sentito impostare e dirigere in modo apprezzabile il leggendario duetto "Il vivo lampo". Evidentemente Ferro è un direttore che deve guardarsi dall'esteriorità e dalla faciloneria delle bacchette di stampo verista. Se cede alle maniere dei battisolfa e dei kapellmeister all'italiana, diviene, pur avendo in partenza maggiore leggerezza, piatto e banale: quando invece non si adagia negli effetti scontati e ricerca il suono e i colori stilizzati, è chiaro e convincente. Gli dobbiamo, comunque, anche un'esecuzione filologicamente appropriata - almeno per quanto riguarda Tancredi e Amenaide - e, in ultima analisi, una non esigua quota del successo della serata è dia sua spettanza. Argirio era il tenore Renzo Casellato il quale ci ha dato l'esempio palpabile di che cosa significhi cantare Rossini con una voce impostata in modo verista, senza immascheramenti, senza sostegno del fiato, senza passaggi di registro. Significa, vicini a una Horne e a una Rinaldi che cantano, "parlare". Suoni sbiancati, stimbrati, petulanti, fibrosi, disuguali; agilità sdrucite e sbilenche; nessuna espressione nel recitativo e nel cantabile; tutto un tirare a indovinare, tutto un come viene viene. E badate che questa voce, con ogni probabilità, sarebbe stata piuttosto pregevole in natura. Di fatto, però, è ciò che la mancanza di tecnica, di esercizio, di gusto e di immaginazione hanno voluto che fosse. Non crediate che la Horne sia un fenomeno vocale: è un fenomeno di tecnica, di applicazione, di studio sistematico, di fantasia, di intuizioni storico-filologiche. Perciò è di cattivo gusto contestare il suo diritto a cachet elevatissimi. E' l'unica nel nostro secolo (anche a volerla confrontare con i dischi delle "rossiniane" nate cento anni fa) e come importanza, nel ritorno a costumi interpretativi autentici, è seconda soltanto alla Callas. Contesterei piuttosto la sua propensione a imporre bassi immeritevoli soltanto perchè fanno parte della sua corte celeste. L'orchestra ha avuto buoni momenti, il coro un po' meno. Le reazioni del pubblico, oltre a tutto non disturbato dall'esibizionismo di registi falsi pensatori, sono state, a quanto pare, da serata leggendaria. Rodolfo Celletti, Roma: successo fervido e schietto, in "Discoteca Hi-Fi", gen-feb 1978 |