Capitolo 27 - Dopo
"Allora?" Chiedo per costringere Vancilea a guardarmi: e lei mi guarda, forse ironica, forse dubbiosa, ma certamente felice. Mi osserva, si alza, va a prendere un pettine e mi pettina. Si ferma, contempla l'opera e mi alza un poco la riga.
"Sono bellissimo, ora?"
Evidentemente no, perché riporta la riga di nuovo in basso: "È inutile! Non sono i capelli riga che non vanno: è la mia testa!".
Deve essere così perché non sembra per nulla soddisfatta, ma dopo un terzo tentativo fa una spalluccia e mi lascia così. Reprimo, per non offenderla, il bisogno di ridarmi subito una grattata alla testa e scompaginarmi nuovamente la pettinatura. Ugualmente ha fatto un lavoro inutile, visto che adesso ho tutte le intenzioni di farmi subito una bella e lunga doccia.
Rifischio, lo stesso fischio indagatore che ho fatto per svegliarla questa mattina, e lei mi guarda e prova a fischiare anche lei: fischia, infatti, anche se con una nota completamente senza controllo, e si mette a ridere, tanto che si nasconde il viso tra le mani.
Metto a fuoco un desiderio che finora non avevo accettato: quello che questa ragazza ed io abbiamo un futuro insieme più lungo di quello di una simpatica avventuretta estiva.
Non è per questa notte, non è per il sapore della sua pelle o per come Vancilea fa e si lascia fare l'amore: è per adesso, è per quando si è alzata a preparare la colazione, per quando ha preso il pettine per pettinarmi, per il suo nascondere il riso con le mani, per il suo muoversi davanti a me con il corpo nudo sotto la mia vecchia camicia come se non le importasse di altro che di essermi vicina.
Forse era già così prima, ma io non la avevo capito, e lei mi aveva detto tante volte di no perché sentiva, come sentono spesso le donne, che quello che volevo era ancora qualcosa che qualsiasi altra ragazza giovane e bellina avrebbe potuto ugualmente darmi.
Ora è diverso. È diversa anche lei, un'altra della ragazza senza padrone trovata persa nel giardino dei colombi.
La guardo ancora muoversi nella mia vecchia camicia...
Ecco: ora anche quella camicia mi appare come il simbolo della sua scelta di essere mia e di offrire la sua pelle al contatto di quello stesso tessuto, non più nuovo e non troppo delicato, che ha conosciuto tante volte in passato il contatto della mia pelle.
Un futuro.
Sarebbe bello trovare ogni mattina al risveglio il suo corpo vicino, incontrare i suoi occhi tra i muri di casa, essere accompagnato dai suoi passi quando esco, ritrovare la notte, nello stesso letto il tepore e la vivacità del suo corpo. Avere il suo corpo come questa notte.
"Vorrei che fosse per sempre. Ti voglio bene."
Mi chiedo se sono sincero, e decido che lo sono anche se, magari tra meno di venti minuti, potrei rinnegarla: "Prima che il gallo canti ...". Ma non credo di avere mai sentito un gallo in questa contrada e quindi, per ora, va bene così.
Vancilea si siede, mi guarda, prende il giornale con il poliziotto baffuto e cornuto che ha incorniciato, lo osserva e, probabilmente per senso di colpa, sospira. Poi si alza, mi fa una domanda che non capisco, sporge un po' in avanti il mento e le labbra e va in bagno a farsi una doccia.
Non mi decido subito ad andarle dietro, tanto più che in questo momento sono in pace con i miei sensi al punto che mi stiracchio all'indietro e faccio schioccare le mascelle in un largo sbadiglio, però lo scrosciare dell'acqua diventa piano piano un richiamo abbastanza insistente. Tambureggio sul tavolo impaziente: e se fosse proprio un richiamo e lei mi stesse aspettando delusa perché non la raggiungo?
Faccio una smorfia e poi prendo una decisione: se la porta del bagno è aperta o socchiusa io entro, se è chiusa lascio perdere.
Mi alzo e vado a vedere: porta chiusa.
Faccio per andarmene ed invece la mia mano non mi ubbidisce: va sulla maniglia e la abbassa. Provo quasi sollievo quando la porta, evidentemente chiusa a chiave, non si apre.
Torno in cucina e lo scroscio della doccia si esaurisce nello stesso istante in cui mi siedo. Due o tre minuti e Vancilea esce dal bagno, un asciugamano stretto sopra i seni che la ricopre ancora parecchio gocciolante. Osservo con dispiacere che si é presa l'unico asciugamano un po' grande che ho e che quindi io dovrò usare per asciugarmi quelli piccoli. Ma finché questi sono i dispiaceri, come diceva mio nonno, possiamo pregare il Signore che ce ne mandi un milione al giorno!

Vado a fare la doccia a mia volta: io non chiudo la porta ma Vancilea non mi rende la visita e non tenta le mie virtù. L'acqua è ancora abbastanza tiepida e non fredda come temevo.
Indosso i pantaloni e tengo uno dei piccoli asciugamani sulla schiena perché i capelli non sgocciolino. Mi sento un leone e veramente devo trattenermi per non lanciare un grido-ruggito di gioia e trionfo.
Vorrei che in questo momento tutti mi potessero vedere: "Signori! Ecco un uomo felice!"
Ho un momento di sconcerto perché in cucina Vancilea non c'è, ma solo un momento perché la trovo subito sul balcone: ha portato la sdraio sul balcone e si è sdraiata a prendere il sole più che ad asciugarsi i capelli.
Muove appena la testa per guardarmi quando sente i miei passi e sussurra qualcosa come "Salinboca".
Mi siedo sul muretto del terrazzo col sole alle spalle e la ragazza davanti a me. La osservo e lei resta immobile, assente.
Potremmo andare a prenderlo in spiaggia il sole, sarebbe certamente meglio, potremmo anche nuotare, ma adesso stiamo bene qui, schifosamente bene.
In questi pochi metri quadri, oggi ho tutto quello che posso chiedere al mondo.
Guardo in strada ed è tutto tranquillo sotto il sole.
Sul terrazzo di una casa vicina, un ragazzo nella bianca divisa della marina tiene tra le sue braccia una ragazza dai capelli troppo neri per non essere tinti. Lei lo bacia ma sfiorandolo appena e sembrano entrambi spaventati o forse solo troppo timidi.
Sento cigolare la sdraio ed, infatti, Vancilea si è messa seduta e mi guarda. Vado verso di lei come un naufrago chiamato dal canto di una sirena.
Mi bacia e lascia che le mie mani le passino sulla pelle, ma poi mormora un piccolo "No!" sufficiente a non farci ricominciare.


Salvario
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