Vancilea. Mi riprendo abbastanza da sentire un dolore anche nel petto: una sfitta che con il pugno ed i lividi della caduta non ha niente a che fare ma che fa male ugualmente.
"Voglio parlarle ancora. Voglio sapere dove è ed essere sicuro che non le fate del male!"
L'uomo alza le spalle: "Non te la toccherà nessuno, puoi stare tranquillo."
Esita un attimo e aggiunge: "Io e il mio collega siamo due poliziotti privati e siamo stati pagati per trovare la ragazza e riportarla a casa. E abbiamo fatto bene e velocemente il nostro lavoro. Niente di personale quindi con te o con la ragazza."
Dicendolo, per una frazione di secondo troppo rapida perché riesca a vedere molto, mi mostra un tesserino con una stella metallica, la sua foto, una grossa scritta -Police - e altre scritte più piccole che non posso decifrare.
Ho gli occhi velati di lacrime di dolore e rabbia.
Il bestione privato fa una pausa ed aggiunge: "Il marito della ragazza potrebbe denunciarti per sequestro di persona, ma non vuole pubblicità e sono certo che non lo farà."
"Non c'è stato nessun .."
Mi interrompe subito: "Certo, ma i mariti sono persone così suscettibili!"
"E quello se la prenderà con la ragazza?" Insorgo.
Risolve la questione con un'alzata di spalle: "E' sua moglie, dovranno spiegarsi tra loro. Ma non la strapazzerà troppo, per quanto posso prevedere."
Mi osserva e scoppia ridere e mi chiede: "Ma i piatti li lavavi tu o lei?"
Lo guardo storto e replico secco: "C'è la lavastoviglie."
Col solo risultato di farlo ridere più forte.
Mi alzo, e scopro di dover zoppicare, per andare a chiudere la porta dietro al bestione ammacca nasi.
L'ultima frase che l'armadio ha detto è stata: "E stai attento quando cammini: potrebbe succederti di nuovo di andare a sbattere la faccia contro uno stipite se non fai attenzione!"
Gli ho chiesto ancora di Vancilea, ma senza ottenere altra risposta che l'esortazione a dimenticare.
"Me l'hanno portata via!" Esclamo parlando ai muri.
Sul terrazzo c'è ancora, al sole, la sdraio: mi adagio lì, lentamente per rispetto ai miei dolori, e resto immobile a cercare di non pensare perché non voglio pensare a nulla.
Ci vuole tutto il mio coraggio per rialzarmi prima che il sole a picco mi ustioni, ma i dolori sono meno crudeli delle mie paure.
Nel lavello della cucina trovo le due bottiglie di spumante e sulla lavastoviglie i sacchetti con la spesa. Sul tavolo il pacchetto con le paste dolci schiacciate e un pugno di biglietti da centomila. Li conto: dodici biglietti da centomila.
Sospiro e li riordino in un cassetto, ma poi ci ripenso e due biglietti me li metto in tasca.
Vado in bagno: la mia maglietta è sporca di sangue rappreso, in compenso la mia faccia non è poi mostruosa come temevo: probabilmente anche la bottiglia fredda ha fatto il suo effetto.
Mi faccio cauti risciacqui e mi osservo: i segni più vistosi sono tra lo zigomo destro ed il naso, ma il violetto non risalta troppo sopra l'abbronzatura.
Un paio d'occhiali da sole coprirebbero abbastanza, ma mi calzano sul naso proprio dove mi è rimasto un gonfiore dolorosissimo a toccarsi che corrisponde in negativo all'impronta di una nocca.
Camminare, ormai cammino senza problemi, mentre il bernoccolo sul cranio è una montagnola palpabile sotto i capelli.
"Vedi cosa succede a mettersi contro quelli più grossi di te?" Mi ammonisco scherzosamente, ma senza un minimo di buon umore.
Faccio disperatamente il giro dell'alloggio a caccia di tracce dimenticate, ma tutto quello che è rimasto di Vancilea è un paio di slippini rosa che trovo in ammollo con troppo detersivo insieme a due mie camicie.
Li sollevo con due dita e sono un qualcosa di così minimo che rimango a guardarli per un po' quasi affascinato.
Guardo attraverso la loro trama trasparente e poi li strizzo nel pugno di una sola mano.
"Ciao!" saluto. Come se il mio gesto fosse servito ad evocarla e Vancilea fosse ora vicina a me, in piedi, a guardarmi.