Contrasti tra Cola di Rienzo ed i Colonna.

Nel 1346 Cola di Rienzo, forte del favore del popolo di Roma volle far adottare delle leggi da lui ideate. A Stefano Colonna di Palestrina non piacquero e manifestò pubblicamente il suo dissenso. Cola di Rienzo, saputolo, fomentò il popolo contro il Colonna, il quale, fuggito da Roma, dovette riparare a Palestrina. Leggiamo come viene documentato il fatto in Cronica - Vita di Cola di Rienzo: Cola di Rienzo "[...]Aveva in sio sussidio forza da ciento uomini armati. Adunata grannissima moititudine de iente, sallìo in parlatorio, e sì parlao e fece una bellissima diceria della miseria e della servitute dello puopolo de Roma. Puoi disse ca esso per amore dello papa e per salvezza dello puopolo de Roma esponeva soa perzona in pericolo. Puoi fece leiere una carta nella quale erano li ordinamenti dello buono stato. Conte, figlio de Cecco Mancino, la lesse brevemente. Questi fuoro alquanti suoi capitoli: Lo primo, che qualunche perzona occideva alcuno, esso sia occiso, nulla exceptuazione fatta. Lo secunno, che li piaiti non se proluonghino, anco siano spediti fi' alli XV dìe. Lo terzo, che nulla casa de Roma sia data per terra per alcuna cascione, ma vaia in Communo. Lo quarto, che in ciasche rione de Roma siano auti ciento pedoni e vinticinque cavalieri per communo suollo, daienno ad essi uno pavese de valore de cinque carlini de ariento e convenevile stipennio. Lo quinto, che della Cammora de Roma, dello Communo, le orfane e·lle vedove aiano aiutorio. Lo sesto, che nelli paludi e nelli staini romani e nelle piaie romane de mare sia mantenuto continuamente un legno per guardia delli mercatanti. Settimo, che li denari, li quali viengo dello focatico e dello sale e delli puorti e delli passaii e delle connannazioni, se fossi necessario, se despennano allo buono stato. Ottavo, che·lle rocche romane, li ponti, le porte e·lle fortezze non deiano essere guardate per alcuno barone, se non per lo rettore dello puopolo. Nono, che nullo nobile pozza avere alcuna fortellezze. Decimo, che li baroni deiano tenere le strade secure e non recipere li latroni e li malefattori, e che deiano fare la grascia so pena de mille marche d'ariento. Decimoprimo, che della pecunia dello Communo se faccia aiutorio alli monisteri. Decimosecunno, che in ciasche rione de Roma sia uno granaro e che se proveda dello grano per lo tiempo lo quale deo venire. Decimoterzio, che se alcuno Romano fussi occiso nella vattaglia per servizio de Communo, se fussi pedone aia ciento livre de provisione, e se fussi cavalieri aia ciento fiorini. Decimoquarto, che·lle citate e·lle terre, le quale staco nello destretto della citate de Roma, aiano lo reimento dallo puopolo de Roma. Decimoquinto, che quanno alcuno accusa e non provassi l'accusa, sostenga quella pena la quale devessi patere lo accusato, sì in perzona sì in pecunia. Moite aitre cose in quella carta erano scritte, le quale perché moito piacevano allo puopolo, tutti levaro voce in aito e con granne letizia voizero che remanessi là signore una collo vicario dello papa. Anco li diero licenzia de punire, occidere, de perdonare, de promovere a stato, de fare leie e patti colli puopoli, de ponere tiermini alle terre. Anco li diero mero e libero imperio quanto se poteva stennere lo puopolo de Roma. Puoi che queste cose, le quale in Roma fatte erano, pervennero alle recchie de missore Stefano della Colonna, lo quale staieva in Corneto nella milizia per grano, con poca compagnia senza demoranza ne cavalcao e venne a Roma. Ionto nella piazza de Santo Marciello, disse ca queste cose non li piacevano. Lo sequente dìe, la matina per tiempo, Cola de Rienzi mannao a missore Stefano lo editto e commannamento che se dovessi partire de Roma. Missore Stefano la cetola prese e sì·lla sciliao e fecene milli piezzi e disse: "Se questo pascio me fao poca de ira, io lo farraio iettare dalle finestre de Campituoglio". Quanno Cola de Rienzi questo intese, espeditamente fece sonare la campana a stormo. Tutto lo puopolo traieva con furore. Granne se apparecchiava pericolo. Allora missore Stefano cavalcao in sio cavallo. Solo con uno fante da pede ne fuìo fòra de Roma. A gran pena se fisse poco in Santo Lorienzo fòra le mura per poco de pane manicare. Vaone a Pellestrina lo veterano. Denanti allo figlio e allo nepote lamentanza fao. Allora Cola de Rienzi mannao commannamenti a tutti li baroni de Roma che se partissino e issino a loro castella; la quale cosa subitamente fatta fu. Lo sequente dìe li fuoro rennuti tutti li ponti li quali staco nello circuito della citate. Allora Cola de Rienzi fece suoi officiali. E mo' prenne uno e mo' prenne un aitro; questo appenne, a questo mozza lo capo senza misericordia. Tutti li riei iudica crudelemente. E puoi parlao allo puopolo, e in quello parlamento se fece confermare e fece fermare tutti suoi fatti, e domannao de grazia dallo puopolo che esso e·llo vicario dello papa fussino chiamati tribuni dello puopolo e liberatori." I Colonna, restarono a Palestrina, fino a quando Cola di Rienzo, ormai divenuto Tribuno, obbligò tutti i Baroni a rendergli ubbienza. Nella Cronica: " [...]Allora li signori voizero fare una loro coniurazione contra lo tribuno e·llo buono stato: non fuoro in concordia; la cosa non venne fatta. Quanno Cola de Rienzi intese che la coniura delli baroni non venne ad effetto per la discordia loro, allora li citao e mannaoli lo editto. Lo primo che venne allo commannamento fu Stefano della Colonna, figlio de missore Stefano. Entrao lo palazzo con pochi. Vidde che·lla rascione se renneva ad onne iente. Moito era lo puopolo lo quale in Campituoglio staieva. Teméo e forte se maravigliao de sì foita moititudine. Lo tribuno li iessìo denanti armato, e sì·llo fece iurare sopra lo cuorpo de Cristo e sopra lo Vagnelio de non venire contra allo tribuno e alli Romani, e de fare la grascia, e tenere le strade secure, e non recettare latroni né le perzone de mala connizione, anche de favorare alli orfani e alli pupilli, e non fraudare lo bene dello Communo, e comparere armato e senza arme ad onne soa petizione. Data licenzia a Stefano, venne missore Ranallo delli Orsini, puoi Ianni Colonna, puoi Iordano, puoi missore Stefano. Non iamo più lontano: tutti li baroni li iuraro obedienzia con paura, allo buono stato, e offierzero le loro proprie perzone e·lle castella e·lli vassalli in sussidio della citate."

I Colonna attaccano Roma

"Ora te vengo a contare como Colonnesi fuoro sconfitti in Roma. La guerra era forte. Li citatini de Roma parevano forte affannati della fatica e dello desciascio e dello danno. Lo tribuno non pacava li sollati como soleva. Granne bisbiglio per la citate era. Li cavalerotti de Roma scrissero lettere a Stefano della Colonna, che venissi con iente, ca·lli volevano aperire la porta. Li Colonnesi fecero la adunata in Pellestrina, numero de setteciento cavalieri, pedoni quattro milia. Per forza voco tornare a Roma. Moiti baroni so' nella iura con essi. Granne apparecchio se fao in Pellestrina. E per tornare a Roma daievano dolce resposta ca volevano venire alle loro case. De questa adunanza lo tribuno forte spaventao e deventao como fussi infermo, matto. Non prenneva civo né dormiva. Una dimane tiempori, 'nanti alla sconfitta forze tre dìi, parlao allo puopolo e confortaolo e fra le moite paravole disse: "Sacciate ca in questa notte me ène apparzo santo Martino, lo quale fu figlio de tribuno, e disseme:"Non dubitare, ca tu occiderai li nimici de Dio"". L'aitra dimane sequente, de notte moito tiempori, sonao soa campana a stormo. Adunao lo puopolo tutto armato. Assettato parlao e disse: "Signori, facciove asapere ca in questa notte me apparze santo Bonifazio papa e disseme che oie in questo dìe farremo vennetta delli suoi nimici colonnesi, li quali sì laidamente vituperaro la Chiesia de Dio". Puoi disse: "Aio uno figlio - Lorienzo hao nome - que verrà con meco alla vattaglia contra li traditori dello puopolo e contra li periuri". Puoi disse: "Sapemo per le spie nostre ca questa iente ène venuta e posata appriesso alla citate a quattro miglia in uno luoco che se dice Monimento. Donne ène vero segnale che non solamente serraco sconfitti, anco serraco occisi e sepelliti nello Monimento". E ditto questo, fece sonare tromme, ceramelle e naccari, e ordinao le vattaglie e fece li capitanii delle vattaglie, e deo lo nome"Spirito Santo cavalieri". Ciò fatto, quetamente, senza romore, colle legione, ordinati da pede e da cavallo, se ne vaco a porta Santo Lorienzo, la quale hao nome porta Tevertina. Delli baroni fuoro collo puopolo Iordano delli Orsini, Cola Orsino de Castiello Santo Agnilo, Malabranca cancellieri della Poscina, Matteo figlio dello cancellieri, Lubertiello figlio dello conte Vertollo, moiti aitri. Non voglio lassare lo muodo che servao lo tribuno dello profietto 'nanti la sconfitta. Lo tribuno mannao per lo profietto. Lo profietto volenno obedire venne con ciento cavalieri per essere alla vattaglia in servizio de Romani. Da XV baronetti de Toscana aveva con seco menati. Anco avea menato sio figlio Francesco. Quella fu la prima voita que arme portao. Denanti a sé mannao cinqueciento some de grano per grascia, como se conveo a profietto. Erase sforzato de compiacere a Romani. Como fu ionto, fu invitato a pranzo. Sedenno, li fu tuoito le arme a si e alli suoi compagni. Puoi fu messo in presone esso e·llo figlio. Lo arnese e·lli cavalli li fu tuoito e dati per Romani. E fece uno parlamento lo tribuno allo puopolo, nello quale disse lo tribuno: "Non ve maravigliate che io tengo in presone lo profietto, ca esso era venuto per ferire da costa e per sconfiere lo puopolo de Roma". Ora torno alla vattaglia. Colonnesi se muossero con granne esfuorzo da Monimento dalla mesa notte e connusserose allo munistero de Santo Lorienzo fòra le mura. Era lo tiempo rencrescevile per la piovia e per lo aspero freddo. Adunarose li baroni, Stefano della Colonna, Ianni sio figlio, Pietro de Agabito, lo quale era stato prepuosto de Marzilia, signore de Iennazzano, missore Iordano de Marini, Cola de Buccio de Braccia, Sciarretta della Colonna e moiti aitri. Vennero a consiglio de que devessino fare, perché Stefano era infestato da un vomaco e tremava como fronne. Pietro de Agabito, essenno un poco affannato, sonnato se aveva de vedere la soa donna vedova che piagneva e sciliavase. Per paura de tale suonno se voleva da l'oste assentare. Non se voleva trovare alla rotta. Anco odivano sonare la campana a stormo. Sapevano che lo puopolo forte irato era e corocciato. Anco perché Stefano della Colonna, capitanio de tutta l'oste generale, como ionze là denanti a tutti, la prima cosa, solo con un fante, a cavallo a un palafreno ne gìo alla porta de Roma e comenzao a chiamare ad aita voce la guardia a nome. Pregava che operissi la porta. Adduceva queste rascioni: "Io so' citatino de Roma. Voglio a casa mea tornare. Vengo per lo buono stato". Portava lo confallone della Chiesia e dello puopolo. A queste paravole respuse la guardia della porta - Pavolo Bussa avea nome lo buono valestrieri - e disse: "Quella guardia che chiamate qua non stao. Le guardie so' mutate. Io so' venuto de nuovo qua con miei compagni. Voi non potete entrare qua per via alcuna. La porta ène inzerrata. Non conoscete quanta ira hane lo puopolo de voi che turbate lo buono stato? Non odite la campana? Pregove per Dio, partiteve. Non vogliate essere a tanto male. In segno che voi non pozzate entrare ecco che ietto la chiave de fòra". Iettao la chiave, e cadde in una pescolla d'acqua la quale staieva de fòra per lo malo tiempo che era. Quanno li baroni, staienno in consiglio, avessino recitate tutte queste cose, bene viddero che entrare non potevano. Deliveraro de partirese ad onore, fatte tre schiere, ordinati venire fi' alla porta denanti de Roma, le sonante tromme e aitri instrumenti, e dare la voita a mano ritta, tornare a casa con granne onore. Così fu fatto. Ià ne erano venute doi vattaglie, la prima e·lla secunna, sì della pedonaglia sì della cavallaria. Petruccio Fraiapane fu lo connuttore. Sonate le tromme alla porta, diero la voita a mano ritta e senza lesione alcuna tornaro. Ora ne veniva la terza schiera. In questa era la moititudine della cavallaria, erance la nobile iente, eranonce li prodi e bene a cavallo e tutta la fortezza. Uno vanno fu 'nanti messo, che nullo ferisse sotto pena dello pede. Li primi feritori fuoro da otto nuobili baroni, fra li quali fu lo desventurato Ianni Colonna. Questi nuobili primi feritori 'nanti ivano ad onne moititudine uno buono spazio. Era allora l'alva dello dìe. Li Romani drento dalla porta, non avenno la chiave, per forza opierzero la porta per iessire alla varatta. Granne romore fao lo ferire delle accette. Granne ène la confusione dello strillare. La porta ritta fu operta, la manca remase enzerrata. Ianni Colonna, approssimannosi alla porta, considerao lo romore drento, considerao lo non ordinato aperire, estimao che suoi amici avessino muosso drento romore e che avessino rotta la porta per forza. Questo considerato Ianni Colonna sùbito se imbraccia lo pavesotto con una lancia alla cossa, speronao lo sio destriero. Adorno como barone, forte currenno non se retenne, entrao la porta della citate. Deh, como granne paura fece allo puopolo! Allora denanti a esso deo la voita a finire tutta la cavallaria de Roma. Similemente tornao a reto tutto lo puopolo fuienno quasi per spazio de mesa valestrata. Non per tanto questo Ianni Colonna fu sequitato dalli suoi amatori, anco remase solo là como fussi chiamato allo iudicio. Allora Romani presero vigore intennenno che esso era solo. Anco fu più la soa desaventura. Lo destrieri lo trasportao in una grotta poco più de·llà dalla porta, dallo lato manco entranno la porta. In quella grotta fu scavalcato da cavallo e, conoscenno sia desaventura, domannava allo puopolo misericordia e adiurava per Dio che soie armature no·lli dispogliassino. Que vaio più dicenno? Là fu denudato e, datoli tre ferute, morìo. Fonneruglia de Treio fu lo primo che lo colpiao. Iovine era de bona industria, varva non avea messa. La soa fama sonava per onne terra de vertute e de gloria. Iace nudo, supino, feruto, muorto, in uno monteruozzo canto allo muro della citate drento dalla porta. Erano suoi capelli caricati de loto. A pena se poteva conoscere. Ora vedi maraviglia! Incontinente lo tiempo pestilenziale, turvato, se comenzao a reschiarare. Lo sole daieva lucienti raii. De tiempo caliginoso fu fatto sereno e alegro. Intanto Stefano della Colonna in tanta moititudine la quale ordinatamente veniva denanti alla porta teneramente domannao dello sio figlio Ianni. Respuosto li fu: "Noi non sapemo que aia fatto, dove sia ito". Allora sospettao Stefano che avessi entrata la porta. Perciò speronao e solo la porta entrao e vidde che lo sio figlio iaceva in mieso de moiti in terra li quali lo occidevano fra la grotta e·llo pantano della acqua. De ciò, temenno della soa perzona, tornao a reto, iessìo la porta. La mente razionale lo abannonao, fu smarrito. Lo amore dello figlio lo convenze. Non fece paravola alcuna, anco tornao e entrao la porta se per via alcuna poteva lo sio figlio liberare. Non se approssimao, ca conubbe che muorto era. Intenneva a campare la perzona. Tornava in reto tristo. Nello iessire che faceva della porta, venne de sopra dallo torriciello una grossa macina e percosse esso nelle spalle e·llo cavallo nella groppa. Ora lo sequitano le lance lanciate de·llà e de cà. Lo cavallo, feruto nello pietto de lancia, iettava caici, e sì spesso che, non potennose mantenere a cavallo, cadde per terra. Veo lo puopolo senza rascione e sì·llo occide in fronte della porta, in quello luoco dove stao la maine nello parete, in mieso alla strada. Là iacque nudo in veduta ad onne puopolo, a chi passava. Non aveva uno delli piedi. Moite ferute avea. Fra lo naso e·lli uocchi avea una feruta e sì terribile opertura, che pareva lo guado delle gote dello lopo. Lo sio figlio Ianni abbe sole doi ferute nello pettignone e nello pietto. Ora iesse lo puopolo furioso senza ordine, senza leie; cerca a chi dea morte. Scontraro li iovini Pietro de Agabito della Colonna che dereto fu prepuosto de Marzilia, lo quale chierico fu. Mai vestute non se aveva arme se non allora. Era caduto da cavallo. Non poteva liberamente annare, perché la terra era scivolente. Fugìose in una vigna vicina. Calvo era e veterano. Pregava per Dio che perdonassino. Non vaize lo pregare. In prima li tuoizero soa moneta, puoi lo desarmaro, puoi li tuoizero la vita. Stette in quella vigna nudo, muorto, calvo, grasso. Non pareva omo da guerra. Appriesso da esso in quella vigna iaceva un aitro barone delli signori de Bellovedere. Fuoro de muorti in poco de spazio da dodici. Alla supina iacevano. Tutta l'aitra moititudine, sì de pedoni sì de cavalieri, lassano l'arme de·llà e de cà senza ordine con granne paura. Non se voitavano capo dereto. Non fu chi daiessi colpo. Missore Iordano levao la fronnosa, non se retenne fi' a Marini. Sconfitta fu onne moititudine. Abattuti fuoro li nimici e iacquero muorti in terra, in veduta delli passanti e de onne puopolo, quelli li quali fuoro senatori illustri si' ad ora nona. Da vero che·llo stennardo dello tribuno gìo per terra. Lo tribuno sbaottito staieva colli uocchi aizati a cielo. Aitra paravola non disse se non questa: "Ahi Dio, haime tu traduto?" Puoi che·lla vittoria fu per lo puopolo, lo tribuno fece sonare soie tromme de ariento e con granne gloria e triomfo recoize lo campo e pusese in capo la soa corona de ariento de fronni de oliva e tornao con tutto lo puopolo triomfante a Santa Maria dell'Arucielo e là rassenao la verga dello acciaro e·lla corona della oliva alla Vergine Maria. Denanti a quella venerabile maine appese la bacchetta e·lla corona in casa delli frati minori. Da puoi mai non portao bastone né corona né confallone sopra capo. Po' questo parlao allo puopolo in parlatorio e disse ca voleva convertere la spada nella guaina. E trasse la spada e sì·lla forviva colle vestimenta soie e disse: "Aio mozzato recchia da tale capo che non lo potéo tagliare papa o imperatore". Quelle tre corpora fuoro portate in Santa Maria delli frati, copierti de palii de aoro, nella cappella de Colonnesi. Vennero le contesse con moititudine de donne scapigliate per ululare de sopra li muorti, cioè sopra le corpora de Stefano, Ianni e Pietro de Agabito. Lo tribuno le fece cacciare e non voize che·lli fussi fatto onore né esequio e disse: "Se me faco poco de ira quelle tre corpora maladette, facciole iettare nello catafosso delli appesi, ca soco periuri, non soco degni de essere sepelliti". Allora queste tre corpora fuoro secretamente de notte portate nella chiesia de Santo Silviestro dello Capo e là senza ululato fuoro sepellite dalle monache." Cronica - Vita di Cola di Rienzo

L'assedio di Palestrina

Nel 1353, Cola di Rienzo inviò a Palestrina due ambasciatori, allo scopo di ricevere omaggio dai Colonna. Nella Cronica il resoconto della vicenda: " Stefano della Colonna in Pellestrina. Questo Stefanello remase piccolo guarzone po' la morte dello patre Stefano e de Ianni Colonna sio frate, como ditto ène. Redutto s'è ora in Pellestrina allo forte. A questo Stefanello mannao doi citatini de Roma, Buccio de Iubileo e Ianni Cafariello, per ammasciatori, che devessi obedire li commannamenti dello santo senato, sotto pena de soa ira. Questi ammasciatori Stefanello retenne e alcuni de essi mise in oscuritate. Anco li trasse uno dente e connannaoli in quattrociento fiorini. Lo sequente dìe curze li campi de Roma con suoi arcieri e briganti. Tutto lo vestiame ne menava. Lo romore se levao per Roma. La mormoranza ne venne allo tribuno della preda de Romani che se ne iva. Allora lo tribuno cavalcao con suoi pochi famigli. Solo iessìo la porta. Li sollati lo sequitaro, tale armato, tale no, secunno che lo tiempo pateva. Curzero da porta Maiure, via de Pellestrina, per avia, per locora salvatiche, deserte. La tratta fu vana, inutile. Non trovaro né omo né vestia né arcieri. Li arcieri e·lli fanti de Pellestrina dotti de guerra per moite fiate descretamente avevano connutta la preda e nascostala in una selva, la quale se chiama Pantano, che iace fra Tivoli e Pellestrina. Là se tennero queti. La notte saviamente quella preda trassero da Pantano e salvarola in Pellestrina. Cercato che abbe moito la iente dello tribuno, non trovanno cosa alcuna, perché la notte era, venne alla citate de Tivoli. Là posao. Fatta la dimane, la novella ionze che le vestie de Romani erano tratte da Pantano e connutte in Pellestrina. Allora lo tribuno irato disse: "Que iova de ire de là e de cà per locora senza vie? Non voglio più scelmire cosa della Colonna. Alle mano voglio essere". Quattro dìi in Tivoli stette. Mannao suoi editti. Espeditamente fece venire da Roma la romana cavallaria, tutti li sollati da cavallo e·lli fanti masnadieri. Era vivace de scrivere. Staieva sio stennardo in Tivoli con soa arme de azule a sole de aoro e stelle de ariento e coll'arma de Roma. Forte cosa! Quello stennardo non era lucente como era prima; staieva miserabile, fiacco, non daieva le code allo viento regoglioso. Venuto lo stuolo de suoi sollati, le moite banniere, cornamuse e trommette assai, venuti missore Bettrone e missore Arimbaldo, li quali li aveva fatti capitanii de guerra generali, li sollati se mormoravano, ca volevano la paca. Li conestavili todeschi demannavano moneta, ché loro arme staievano in pegno. Moite scuse trovao. Non valeva più la fuga. Vedi bella lerciaria che fece alli suoi capitanii. Abbe missore Bettrone e missore Arimbaldo e disseli: "Trovo scritto nelle storie romane che non era moneta in Communo de Roma per sollati. Lo consolo adunao li baroni de Roma, disse:"Noa che avemo li offizii e·lle dignitate siamo li primi a dunare quello che ciascheuno pò de bona voluntate". Per quello duno fu adunata tanta moneta, che iustamente la milizia fu pacata. Così voi doi comenzete a dunare. La bona iente de Roma vederao che voi forestieri dunate. Serrao pronta a dunare. Averemo denari a furore". Li capitanii allora li dunaro milli fiorini, cinqueciento per uno, in doi vorze. Quella pecunia lo tribuno compartio alli sollati. Alla fantaria deo mesa paca de moneta de tevertini. Puoi adunao puopolo nella piazza de Santo Lorienzo de Tivoli e fece soa bella diceria. Disse como era ito venale anni sette, como fu in grazia de Carlo imperatore, lo cui aiutorio de prossimo aspettava. Disse como fu in grazia dello papa a despietto de Colonnesi suoi nemici. Mo' era per lo papa senatore de Roma, non lassato guidare per la tirannia de Colonnesi, per Stefanello serpente venenoso, ionco vallico. Dunque intenneva de desertare casa della Colonna e farli peio che quello che prima li fece aitra voita. Casa maladetta, ché per la loro supervia terra de Roma vive in povertate. Le aitre contrade vivo in ricchezza. Puoi aionze e disse: "Voglio fare l'oste sopra Pellestrina e farli lo guasto generale. Dunqua prego voi Tevertini che de buono core ce accompagnete, in tanta necessitate ce sovengate, non ce abannonete". Questa diceria fu fatta nello parapietto delli Palloni. Fatta questa diceria, lo sequente dìe mosse la fantaria forestiera, mosse tutta soa cavallaria e·llo puopolo de Tivoli con grascia e con arnese ad oste, e gìone a Castiglione de Santa Perzeta. Là posao dìi doi. Là se adunao la iente tutta. Puoi se mosse lo sequente dìe e fu sopra Pellestrina con tutto sio sfuorzo, anno Domini MCCCLIII[I], de mese [...], dìe [...] Assediao Pellestrina e allocao lo tribuno l'oste a Santa Maria della Villa, doi miglia da longa dalla citate. Là fuoro milli cavalieri fra Romani e sollati, fu lo puopolo de Tivoli e de Velletri, e·lle masnate delle communanze intorno e della badia de Farfa, e de Campagna e della Montagna. Puosto lo assedio, ciasche perzona cobelle faceva. Solo esso Cola de Rienzi de continuo aveva l'uocchi sopra Pellestrina. Aizava la testa e resguardava lo aito colle, lo forte castiello, e considerava per quale muodo potessi confonnere e derovinare quelle edificia. Non levava lo sguardo de·llà. Diceva: "Questo è quello monte lo quale me conveo appianare". Spesso anco, continuo guardanno e non movenno lo penzieri sio da Pellestrina, vedeva che per la parte de sopra vestiame veniva da pascere e entrava la porta de sopra per abbeverare, puoi tornava alli pascoli. Anco vedeva da l'aitra porta de sopra entrare uomini con salmarie, con some. Vedeva la traccia longa delli vetturali che venivano con fodere in Pellestrina. Allora domannava quelli li quali staievano seco e diceva: "Quelli somarieri que voco dicere?" Responnevano quelli che con esso staievano: "Senatore, quello vestiame veo da pascere e torna in Pellestrina a l'acqua per vevere. Quelli uomini portano farina e grascia per infoderare la terra che non affamassi". Allora responneva e diceva: "Diceteme, non se pòterano pigliare li passi, che questo vestiame sì liberamente non issi a pastura e quelli non portassino fodere?" Responnevano li meno liali Romani e dicevano: "Tanta è la fortura delli monti de Pellestrina, che quelle entrate de sopra e quelle iessite non se·lli puoco vetare. Tanta è la salvatichezza de questo luoco, che nulla oste là pòtera demorare". Ma non era così. Anco era la cruditate delli baroni de Roma, li quali staievano a vedere que ne iessiva, non ce volevano operare. Allora lo tribuno disse queste paravole: "Mai non te lento fi' che non te consumo, Pellestrina. E se io po' la sconfitta de Colonnesi a porta de Santo Lorienzo avessi cavalcato collo puopolo de Roma, in questa terra liberamente entrava senza contradizzione. Ià fora deruvinata. Io non sostènnera allo presente questo affanno. Lo puopolo de Roma vìssera in pace reposato". Allo secunno dìe che l'oste posta fu, fu comenzato lo guasto e fu depopulato tutto lo ogliardino de Pellestrina, tutto lo piano fi' alla citate. Non remase aitro che la parte de sopra, meno che·llo terzo. Quello poco non fu depopulato, perché alli dìi otto l'oste se partìo. E questa partenza fu per doi cascioni. La prima, che Velletrani erano odiosi con Tevertini. Subitamente se mettevano dentro in Pellestrina. Per tale via fuoro auti sospietti che·lla baratta non se levassi nell'oste. La secunna cascione fu che·lla fante de missore" La serva del Monreale riferì a Cola di Rienzo che il suo padrone voleva ucciderlo. Segue il resoconto della Cronica: " [...] [...] "Sostenga qui uno o doi de noi, lassi ire mi. Io li farraio venire dieci milia, vinti milia fiorini e moneta e iente quanta li piace. Deh, faccialo per Dio!" A queste paravole non trovava tutore alcuno. Fatta la notte, preso da primo suonno fra Monreale fu menato allo tormento. Quanno vidde la corda, desdegnato con mormorazione disse: "Ià ve aio bene ditto che voi rustichi villani site. Voleteme ponere allo tormento. Non vedete che io so' cavalieri? Como è in voi tanta villania?" Puro un poco fu aizato. Allora disse: "Io so' stato capo della Gran Compagnia. E perché so' cavalieri, so' voluto vivere ad onore. Aio revennute le citati de Toscana, messali la taglia, derupate terre e presa la iente". Allora fu tornato nello luoco delli suoi fratelli, intro li ceppi, redutto in restretto fra suoi fratelli. Conubbe che morire li conveniva. Domannao penitenza, e per tutta notte abbe con seco uno frate lo quale lo confessava. E così ordinao tutti suoi fatti. Odenno lo mormuorito de suoi fratelli, ad ora se voitava ad essi, parlava. Queste paravole diceva: "Doici frati, non dubitete. Voi site zitielli iovini, non avete provate le onne della ventura. Voi non morerete. Io moro e de mea morte non dubito. La vita mea sempre fu con trivulazioni. Fastidio me era lo vivere. De morire non dubitava. So' contento, ca moro in quella terra dove morìo lo biato santo Pietro e santo Pavolo, benché nostra desaventura sia per toa colpa, missore Arimbaldo, che me hai connutto qui in questo laberinto. Non perciò questo lasso. Non ve mormorete, non ve dogliate de me, ché io moro volentieri. Omo so', como ciello fui ingannato, como l'aitri uomini so' traduto. Dio me averao misericordia. Fui buono allo munno, serraio buono denanti a Dio, e specialemente non dubito perché venni con intenzione de bene fare. Voi iovini site: temete, ca non avete conosciuto que ène la fortuna. Pregove che ve amete e siate valorosi allo munno, como fui io che me feci fare obedienzia alla Puglia, Toscana e alla Marca". Spesse voite così dicenno, lo dìe se fece. La matina voize odire la messa, e odìola staienno scaizo a nude gamme. All'ora de mesa terza fu sonata la campana e fu adunato lo puopolo. Connutto fra Monreale nelle scale allo lione, staieva inninocchiato denanti a madonna santa Maria. Alle gote teneva uno cappuccio de scuro con uno freso de aoro. Aduosso teneva uno iuppariello de velluto bruno, cosito de fila de auro. Descento era senza alcuno cegnimento. Le caize in gamma de scuro. Le mano legate larghe. Teneva la croce in mano. Tre fraticielli con esso staievano. Mentre che odiva la sentenzia, parlava e diceva: "Ahi Romani, como consentite mea morte? Mai non ve feci offesa ma la vostra povertate e·lle mee ricchezze me faco morire". Puoi diceva: "Dove so' io cuoito? Per bona fe' diece tanta iente me aio veduta denanti e più che questa non è". Puoi diceva: "So' alegro de morire là dove morìo Pietro e Pavolo. La mea vita senza trivolazione non è stata". Puoi diceva: "Tristo questo male traditore po' la mea morte!" Nella sentenzia fuoro mentovate le forche. Allora stordìo forte e levaose sùbito in piedi como perzona smarrita. Allora quelli che stavano intorno lo confortaro che non dubitassi. Fecero fede che connannato era alla testa. De ciò fu contento, stette queto. Abiato allo piano, per tutta la strada non finava volverse de là e de cà. Parlava e diceva: "Romani, iniustamente moro. Moro per la vostra povertate e per le mie ricchezze. Questa citate intenneva de relevare". Moite cose diceva. A peta a peta la croce basava. Forte se maniava de quello che poteva. Omo operativo, triomfatore, sottile guerrieri. Da Cesari in cà mai non fu alcuno megliore. Questo ène quello lo quale, con fortuna arrivato, ruppe in piaia romana, como ditto ène de sopra della galea sorrenata. Puoi che fu nello piano, là dove fuoro le fonnamenta della torre, fatta la rota intorno, inninocchiase in terra. Puoi se levao e disse: "Io non staio bene". Voitaose invierzo oriente e raccommannaose a Dio. Puoi se inninocchiao in terra, basao lo ceppo e disse: "Dio te salvi, santa iustizia". Fece colla mano una croce sopra lo ceppo e basaola. Trasse lo cappuccio e iettaolo. Posta che li fu la mannara in cuollo, favellao e disse: "Non stao bene". Allora era seco moita bona iente, fra quali era lo sio miedico de piaghe. Questo li trovao la ionta. Puosto lo fierro, allo primo colpo stoizao in là. Pochi peli della varva remasero nello ceppo. Frati minori tuoizero sio cuorpo in una cassa, ionto lo capo collo vusto. Pareva che atorno allo cuollo avessi una zaganella de seta roscia. Fu tumulato in Santa Maria de l'Arucielo lo escellente omo fra Monreale, la cui fama sonao per tutta Italia de virtute e de gloria. In la citate de Tivoli staieva uno domestico sio de sio lenaio, lo quale, odita la morte de sio signore, lo sequente dìe de dolore morìo senza remedio. Muorto questo valente omo, li Romani ne staievano forte afferrati. Allora lo tribuno adunao lo puopolo, favellao e disse: "Signori, non staiate turbati della morte de questo omo, ché ène stato lo peiore omo dello munno. Hao derobato citate e castella, muorti e presi uomini e donne, doi milia femine manna cattive. Allo presente era venuto per turbare nuostro stato e non relevarelo. Cercava de essere libero signore. Esso voleva le grazie fare. Voleva depopulare Campagna e terra de Roma, lo residuo de Italia. Nostra briga bene connuceremo a buono fine colla grazia de Dio"

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