Bianco
(pubblicato nel numero "Bianco" della rivista Vulcano, n.1 2002)

"Lavasbianca è fantasmatico/
L’uso è facile ed è pratico/
Ti dà il bianco superattico/
tra i tessuti è delicattico/
Lavasbianca è fantasmatico"

Jingle promozionale di Lavasbianca


Di punto in bianco. Biancheria. Bianco come un cencio ovvero sbiancare in volto. Capelli imbiancati e anima candida. Uomo bianco. Battersi all’arma bianca, forse con foga al calor bianco. Notti bianche, o notti in bianco. Voci bianche. Mangiare in bianco. Dare o avere carta bianca. Esistono poi altrettante varianti del sostantivo stesso: biancagno, biancastrino, biancastronaccio, biancolina, biancoso, biancuccio e, dulcis in fundo, biancozzo.

Se la fortuna di un vocabolo si misura dalla sua proliferazione semantica, quella del bianco, simbolo dell’ardore guerriero (dal tedesco antico blanch, "splendente", riferito al lucido riflesso della spada del guerriero), ha generato gerghi e metafore tanto numerosi quanto vari e intricati. Si comincia con la dea egizia Nekhbet, avvoltoio bianco che, appollaiato sulle spalle del sovrano, conferiva dignità sacra al faraone. Si prosegue con Shiva "bianco come il gelsomino" e come tutti quegli elementi che traggono valenza simbolica dalla parentela stretta con il bianco: la purezza della neve e del latte, l’energia del seme umano (la "bianca forza" cantata dai greci), il misticismo della luce generatrice del colore e del calore della vita.

Il bianco è come l’Essere di Parmenide, realtà nella sua impermeabilità a mutamenti e variazioni nei gradi di presenza: o essere o non-essere, o bianco o colore. Il bianco è per definizione e per limite ontologico privato della possibilità di sfumare, di accattivare con cangianti nuances. Sfugge ad ogni determinazione quantitativa o qualitativa. E’ fuori da ogni quantificazione ma al contempo ne è l’imprescindibile origine e fonte di legittimazione, vaso di Pandora dal quale scaturiscono tutte le quantità della luce, i colori, senza eccezione alcuna. Non ha parenti stretti o lontani, ma come Saturno divora i colori come fossero figli e presenta una veste immacolata, candida e innocente (dove i due aggettivi non sono da intendere come giustapposizione ma come endiadi). Il bianco è la purezza delle vergini, della sposa e delle vestali, ma anche un colore molto amato dal Profeta, sicché nel mondo islamico le feste di fidanzamento vengono bagnate da spruzzi di latte in virtù di sue presunte virtù magiche. In Occidente il bianco delle lenzuola nuziali era tabula rasa sul quale la virilità del maschio incideva, nella prima notte di nozze, le prime lettere di sangue, macabra composizione dove si riusciva nel virtuosismo di esaltare la purezza della donna e al contempo di ammirare l’irrimediabile contaminazione operata dall’uomo ai danni di quella: l’ennesimo incrocio di opposti sui percorsi che formano l’urbanistica intricata del bianco.

Il bianco si accampa indifferentemente all’inizio o alla fine della scala cromatica, e così anche la simbologia che lo accompagna si associa alla purezza della nascita o all’assenza di vita della morte. Il bianco è purezza, vita non ancora compromessa col mondo, semplicità incorrotta: è il colore del neonato, il colore della luce emanata da Dio che non consente scissioni e rifiuta le distinzioni con le quali la ragione dell’uomo cerca di far presa sull’esperienza. E’ la purificazione operata dal freddo della neve e del ghiaccio, che sostituisce il rituale incruento del battesimo al bagno di sangue dei guerrieri germanici devoti a Wotan. Il bianco è anche morte: sbiancare in volto significa perdere l’aria "rubiconda" che testimonia l’afflusso regolare del rosso sangue e quindi della vita. Il bianco è il manto della morte, il sudario che copre il cadavere a testimoniare l’avvenuto annientamento della vita e la riduzione del corpo a cosa, svanita l’anima candida che lo sosteneva; in alcune regioni dell’Africa, ancora oggi le vedove si tingono il viso di bianco ad indicare la propria separazione dalla vita e dalla varietà dei colori che ne è simbolo. D’altra parte, il pallore del volto femminile è da sempre indizio di bellezza anche quando gravato dalla malattia (vedi il fascino morboso delle eroine ottocentesche tutte tisi e svenimenti). E’ un simbolo di pace perché impone armonia a tutti i colori dell’iride, che solo mantenendo i giusti rapporti tra loro possono sperare, fuor di metafora, di dare alla luce il bianco come propria sublimazione.

Il bianco è la scorciatoia per la bellezza, la via breve per lo spirito con buona pace di Hegel e delle sue infinite mediazioni. Nel percorso dell’esistenza il bianco sceglie il percorso più semplice: sempre dritto senza deviazioni, senza destra né sinistra, senza curve, tornanti e pendii. L’umanità ha sempre vissuto il bianco come il colore degli estremi, negazione di ogni compromesso e promessa di una dimensione diversa del reale (non necessariamente migliore: vedi l’ovattato mondo dei "telefoni bianchi" cinematografici steso come una patina sulle insegne nere del regime fascista). E’ la sua intenzionalità semplice ad affascinare, ed il fragile equilibrio cromatico su cui si regge si fa forza nella corazza del simbolo.

 

 

 

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