L’artista allo
specchio Lo studio di un artista non è più molto loquace; se mai lo è stato, simile come è spesso più all’ufficio di un geometra che alla fucina del genio. L’esperienza del contemporaneo vive di shock, frammenti, velocità, contaminatio, e tutto ciò si riflette in una segmentazione del lavoro creativo che è sempre più un assemblaggio di espressività, lavoro d’equipe, “factory” per usare l’espressione di Warhol; parcellizzazione che dissemina i gangli della creazione in una pluralità di procedure tecniche. D’altra parte, questo ritrarsi all’oscuro della creazione ha una storia antica e l’idea di ritratto cela, dietro i secoli di un’immacolata gloria, il pudore delle proprie origini. L’etimologia ne svela la pusillanimità: ritratto come di un atto di vigliaccheria, un tirarsi indietro, da trahere (tirare o portare) e re (indietro). Il ritratto è menzogna, ma qui Platone, con quella celebre idea dell’arte “due volte lontana dal vero”, non c’entra nulla: sempre, nel volto riprodotto, un soggetto manda avanti un proprio simulacro, tirandosi indietro come soggetto. Eppure vi fu un tempo (ed oggi geografie e intere culture) in cui l’illusione dell’immagine come presenza funzionava ed anzi dettava legge. A Costantinopoli prima dell’iconoclastia si raschiavano i colori delle icone per mescolarli con il vino della messa e quindi con il sangue dei fedeli. Il simulacro simula il sacro in assenza del Dio, l’effigie è vicaria del potere quando il sovrano è assente, cura e cela, con la sua presenza fisica e simbolica, un horror vacui altrimenti insostenibile. Si racconta che l’imperatore Costantino, informato da zelanti delatori che qualcuno aveva preso a sassate la sua statua, se ne sia preso gioco sostenendo di non aver sentito alcun dolore per quell’aggressione; al di là dell’invenzione agiografica, l’aneddoto mostra come il confine tra persona e ritratto sia labile e sempre problematico. Quanto a quella specie particolare che è il ritratto d’artista, qui si respira una certa aria di impudenza e, mi si perdoni il gioco di parole, di imprudenza, con quella pretesa di fissare il momento della creazione, come se fosse facile risolverlo in una forma, come se l’istante cosmogonico dell’arte non fosse proprio l’”irrapresentabile” in quanto condizione stessa della rappresentazione (“La sua propria forma di raffigurazione l’immagine non può raffigurarla; essa la esibisce” Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, 2.172). Il ritratto dell’artista vorrebbe fissare il presente della creazione e cogliere il creatore, per così dire, con le mani in pasta, ma tra le mani si ritrova invece un cadavere imbellettato al posto di un cuore pulsante, una parodia della vita che, nel vano tentativo di ipostatizzare i momenti della creazione, sostituisce al suo dinamismo e alla scansione temporale del suo processo maturativo la rassicurante e solida stabilità del prodotto finito. Nella tensione di questo gesto due specchi, l’artista e il suo volto, si fronteggiano, aprendo una fuga infinita di immagini la cui profondità rimane loro enigmatica: “Videmus nunc per speculum in aenigmate” (S.Paolo, Corinzi I, 13, 12). Fare di sé stessi o degli altri un volto significa fondare la propria identità sul riconoscimento da parte dell’altro, abdicare ad una parte di sé, rassegnarsi all’ineluttabilità del fraintendimento. Non c’è ritratto in un mondo solipsistico: dove l’io è la totalità delle cose la possibilità di un pubblico scompare e con essa l’apertura per il ritratto. Nel ritratto troviamo gli altri più che noi stessi, un’oggettivazione che ci fonda nuovamente come un io esposto al gioco del riconoscimento altrui e che diventa, da privato, pubblico; quello che nasce è la persona nel senso latino del termine (persona è la maschera posta sul volto dell’attore), come individualità che fissa i propri confini non nell’infinita profondità dell’anima ma nell’ostensione senza fine all’esperienza dell’altro. Il volto dell’artista è un gioco di specchi dove soggetto e oggetto, coscienza e mondo si fondono e sorge quella terra di nessuno dove le identità si decidono e si formano. Nel ritratto d’artista si può dire che l’arte azzardi un salto mortale, osando ciò che appare come l’impossibile superamento di un’antinomia costituzionale della forma: trasformare in oggetto, materia per definizione esposta allo sguardo (ob-jectum, l’ente in quanto posto dinnanzi a noi), ciò che per eccellenza è soggetto, “atto puro”, cioè l’artista, che, prima che fautore d’arte, è metafora di sé stesso, simbolo della soggettività e forma della creazione. Come rappresentare un’azione nella forma della raffigurazione, come mostrare la dinamicità con la staticità, la vita con la morte, l’organico con l’inorganico? Nel proprio ritratto, quella monade che è l’artista spalanca porte e finestre, da cui per Leibniz era impossibile potesse uscire qualcosa; ma il soggetto che si cala negli abiti della forma corre sempre il rischio di negarsi e di ridursi a icona fittizia di sé stesso e di un’azione che è svanita, mentre si afferma se nel ritrarsi o nel farsi ritrarre trova uno sguardo capace di mimare i suoi gesti creativi, creando egli stesso qualcosa che non c’era prima ovvero creando a sua volta, mostrando l’artista attraverso un’immagine che sarà tanto più vera quanto meno realistica, meno aderente e sottomessa alla forma esteriore del modello, fedele allo spirito che vivifica e non alla lettera che uccide. Un’immagine che come tale è sempre falsa, ma non perché l’immagine, come ci ha insegnato Sartre, è sempre l’evocazione di un’assenza, bensì perché il ritratto che reifica l’artista riproduce solo la forma esteriore dell’attività creatrice, non il suo contenuto cioè la sua anima viva e dinamica; scimmiotta la creazione sostituendole uno stereotipo prestampato e dimenticando l’adagio popolare per cui non basta l’abito per fare il monaco. Ciò che, di un uomo, ci fa dire che è un artista non sono solo i manufatti prodotti (pena il rischio di feticizzare l’opera e di ridurre l’artista a griffe) ma, più intensamente, il gesto poietico che li genera e li porta alla luce; l’atto del creare si articola quindi nella dimensione della temporalità e quando si incarna in una materia elaborata, nella staticità dello spazio, è perché portava con sé questa forma come l’assestarsi conclusivo di un processo vitale che in tale forma continua a vibrare, aperto alla possibilità di un’infinita riattivazione di senso, “mimesi” nel senso non banale del termine, “imitazione” come la intesero i greci e come la pensò Platone, che non a caso citava la danza come forma mimetica per eccellenza, vita nella fissità dell’espressione. Il richiamo alla mimesi evoca il teatro e la rappresentazione, e ci ricorda che un ritratto in fondo è sempre una figura del fraintendimento, una maschera; l’immagine ha in sé un tono provocatorio che può risultare urtante ma, se l’espressione ci appare sgradevolmente cinica, non dimentichiamo, a consolazione non parziale, che “tutto ciò che è profondo ama la maschera” ( Al di là del bene e del male, 40), un’intuizione di Nietzsche sulla quale sarebbe bene e bello riflettere.
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