Sul dolore
(pubblicato come
La carne del mondo sul numero aprile/maggio '03 di Juliet)

"Essere stanca, sentire duole, pensare distrugge"
(Pessoa, Una sola moltitudine, I)

  Le prime parole del pensiero greco suonano come una precoce cognizione del dolore del mondo: "Principio degli esseri è l’infinito. [...] In ciò dai cui gli esseri traggono la loro origine, ivi si compie altresì la loro dissoluzione, secondo necessità; infatti scontano reciprocamente la pena e pagano la colpa commessa, secondo l’ordine del tempo" (Anassimandro, fr. 1 Diels-Kranz). Essere è sin dalle origini un indizio di colpevolezza: esistere significa avere a che fare con la differenza, la scissione e conseguentemente con la sofferenza; la potenza del logos non è mai stata la presa di coscienza di chi registra con algida atarassia il lamento del mondo, ma sempre la luci-da consapevolezza, precocemente espressa dai filosofi ionici, del pathos come senso autentico dell’essere. La sentenza di Anassimandro consegna all’uomo un mondo ma gli sottrae l’innocenza di chi non era ancora esposto alla gigantomachia tra le forze del bene e del male, della verità e della menzogna, dell’amore e dell’odio.

  All’altro capo della cultura d’Occidente le nostre radici ebraico-cristiane ci parlano con accenti quasi identici del legame originario tra dolore e conoscenza del mondo: "Disse alla donna: Renderò assai numerose le tue sofferenze e le tue gravidanze; con doglie dovrai partorire figli" (Genesi,3,16) e anche: "Maledetta sia la terra a causa tua ! Con sofferenza ne trarrai il nutrimento per tutti i giorni della tua vita" (Genesi, 3,17). Eva proverà il dolore del parto ora che ha scoperto cos’è il mondo, e conoscere il suo nome significa divenire mondo come luogo della faticosa convivenza degli opposti bene-male, pace-guerra, felicità-dolore. "Amor ch’a nullo amato amar perdona" scrive Dante: il sentimento del dolore non conosce eccezioni alla regola per cui conoscerlo significa al suo contagio. Non esistono pinze asettiche o, per usare le parole della filosofia, intuizione eidetiche per maneggiare il dolore: "sapere il dolore" significa "averne il sapore" (sapere da sapio, assaporare, provare gusto), la traduzione è pregnante non meno che etimologicamente ineccepibile. A differenza degli animali l’uomo ha, del dolore, non solo il sapore ma anche il sapere, e la sofferenza quadra il cerchio speculativo congiungendo spirito e corpo nell’immediata trasposizione dal tono distaccato del piano teoretico alla partecipazione dell’esperienza vissuta.

  Il mondo si schiude all’uomo attraverso l’esperienza del dolore; la sofferenza appare quindi come la consapevolezza di una lacerazione insanabile che procrastina indefinitamente il ristabilirsi di una simbiosi uomo/mondo ormai inattingibile e forse mai attinta. "La realtà umana si percepisce come essere incompleto nella sua venuta all’esistenza. [...] La realtà umana è superamento continuo verso una coincidenza con se stessa che non è mai data." (Sartre, L’essere e il nulla, II,3). L’errore può essere nascosto (l’errein ovvero l’errare ha qualcosa dell’eremnoV , "ciò che è celato") e tutto sommato fa la sua comparsa tardi nella storia della civiltà, mentre il dolore emerge prepotente dalle prime lallazioni del sapere, terribile e già maturo come Athena che prorompe armata di corazza e saggezza dal capo di Zeus. Questo perché il dolore esula immediatamente dai limiti del mondo delle sensazioni dove nasce per farsi idea, sintomo di una mancanza congenita, di un vuoto d’esistenza radicato nel cuore stesso del nostro esserci: "La realtà umana è sofferente nel suo essere" (ibidem), scrive quindi Sartre, mentre Jaspers parlerà del dolore come "situazione-limite" ovvero"manifestazione dell’esserci dell’esistenza" (Filosofia, II). Questo sul piano dell’esistenza, ma le cose non cambiano dal punto di vista teoretico: con quella scissione primaria che è il dolore si fa avanti per noi il mondo come oggetto da conoscere e non più come ambiente da vivere. Se l’inizio della nostra esistenza è il dolore del distacco dal grembo materno, il primo pensiero dell’uomo è quello della propria mancanza ontologica frutto di questa originaria scissione: una sorta di "cogito ergo patior" insomma. E’ la nascita dell’io come qualcosa di diverso dal mondo; è il dolore del neonato che riconosce la madre come realtà distinta da sé; è il pudore di Adamo ed Eva che si scoprono esposti alla presenza di altri, alienati, oggettivati. Questo, che potremmo definire dolore primario, costituisce l’archetipo dei dolori del quotidiano, quando ci scopriamo sottoposti a forze alle quali siamo soggetti, ma delle quali non siamo i soggetti.

  La conoscenza del mondo impone un costo salato ed è un tossico potentissimo che, come ogni pharmakon, può essere medicina come veleno, a seconda delle dosi e dell’intelligenza di chi lo maneggia. Conosceva bene, Epicuro, il valore "farmaceutico" delle nostre filosofie: "Della scienza della natura non avremmo bisogno, se il sospetto e il timore delle cose dei cieli non ci turbasse, e non temessimo che la morte possa essere per noi qualcosa, e non ci nuocesse il non conoscere i limiti dei dolori." (Massime capitali, IV, 140). Anche gli dei, quando scendono tra gli uomini, devono imparare subito a convivere con il loro destino di dolore: Cristo muore sulla croce, né miglior sorte incontrano gli dei greci che, scesi in campo a Troia, urlano di dolore sotto i sapienti colpi di Nestore e Aiace. Il sapere è un farmaco che cerca di guarire il dolore che esso stesso ha provocato, come un vaccino dove i batteri che generano la malattia sono anche quelli che la curano.

  Il dolore è sempre coscienza del dolore, esperienza di un pathos che cresce nella misura in cui ci rendiamo conto, soffrendo, non solo dell’oggetto del soffrire ma anche della predisposizione umana alla sofferenza. Soffriamo di qualcosa ma soprattutto soffriamo di soffrire, per cui come uomini ci troviamo di fronte ad un dolore elevato al quadrato; Sartre scriveva che "la sofferenza che io sento non è mai abbastanza sofferenza" (L’essere e il nulla, II, 3) intendendo con questo che l’uomo non può accettare il proprio dolore senza attribuirgli un significato universale e che nella sofferenza il singolo vuole ergersi di fronte all’altro come icona del soffrire e come categoria del dolore. E’ il patire di chi percepisce, più che la lacerazione, l’essere lacerato come forma archetipica del vivere umano. Da qui il dolore nelle ferite del corpo, quando la pelle, limite e difesa del nostro io, si lacera fino a confondere il dentro col fuori ed il fuori col dentro, abbandonandoci privi di protezione alla fragilità dell’esistenza; da qui il dolore di cui si nutre l’odio, quando l’altro diventa Altro, presenza concreta che si fa categoria del pensiero e forma del male, demone che divide ("diabolon") insanabilmente, minacciando i vincoli organici che sorreggono l’equilibrio individuale e collettivo. Il dolore è il venire meno di un’armonia: soffriamo quando quel sottile equilibrio, fisiologico, dermatologico o psichico che reggeva la nostra vita viene a tendersi fino a spezzarsi. E’ l’intuizione con cui nasce la scienza del dolore, la medicina: "L’uomo è sano quando gli umori siano reciprocamente ben temperati per proprietà e quantità. E’ malato quando di essi vi sia eccesso o difetto." (Corpus Hippocraticum, La natura dell’uomo). Le nostre ferite ci sbattono in faccia la verità di un’esistenza che non è data ma strappata al dolore.

  Da Leibniz in poi noi chiamiamo teodicea il tentativo di spiegare l’esistenza del male nel mondo: la sua storia è però più antica, dalla filosofia patristica e agostiniana al dualismo manicheo, dalla religione di Zarathustra alla dialettica di Hegel. La storia del dolore conosce diverse varianti e qualche certezza: dall’indifferenza degli stoici alla sopportazione di Epicuro, alla sublimazione cristiana ed hegeliana. In qualche modo cerchiamo sempre di farne qualcosa, di farlo "fruttare". Nessuno può prendere il dolore per ciò che è; se questi pensieri hanno un valore non è perché sfuggono a tale limite ma perché lo accettano e vi insistono, perché parlare del dolore vuol dire comunque accettarne una versione addolcita, razionalizzata dalla parola: giocare in casa, insomma, mentre la sofferenza ci coglie sempre in trasferta, fuori posto, con il dolore non ci si sente mai a proprio agio. Forse è da questa consapevolezza che nasce tanta arte contemporanea del dolore: la macerazione ossessiva del corpo che diventa oggetto d’arte ovvero cosa, l’esposizione di corpi straziati o di carcasse d’animale, tutto questo segna un punto di non-ritorno, la denuncia di un’impossibilità, di una sopraggiunta afasia dell’artista che all’interno del repertorio di strumenti proprio della tradizione espressiva non trova più parole, forme e colori che sappiano "dire" il dolore, dargli una veste alfabetica, costruirci una sintassi comprensibile, accettabile, feconda. L’arte non imita la natura e la realtà dal suo canto non imita più l’arte o la cattiva televisione: l’epidermide che separa l’interno dall’esterno, le forme dell’arte dalla natura formatrice si assottiglia sempre più, portando via con sé la speranza di una redenzione estetica dal dolore. L’idea è che la carne del mondo (per usare il linguaggio metaforico di Merleau-Ponty, che qui cade a proposito) parli da sé senza necessità di costruire imbastiture simboliche, che la dimensione estetica sia luogo di scoperta e di una rinnovata lucidità della coscienza: accademia del vedere più che del senso filosofico, scuola di volo per sguardi che hanno smarrito la capacità di leggere ciò che gli sta intorno, discarica dove decantano quei rifiuti della civiltà che, sedimentati, ci offrono l’immagine di ciò che è il nostro mondo. E’ il progetto di una strana palingenesi estetica, protesa com’è nel tentativo paradossale di recuperare una perduta verginità del sentire.

  Malinconia, disperazione, angoscia, struggimento, trepidazione sono sfumature del dolore sempre meno percepibili, tonalità affettive che provocano scarsa eco in noi, parole di cui si va perdendo il controllo. Ma con il nome perdiamo la cosa, o almeno la possibilità di farne "qualcosa". La forma simbolica del nostro tempo sembra essere la scissione: scissione dell’atomo, scissione della famiglia, scissione della psiche. L’isolamento di un mondo fatto di individui accresce esponenzialmente il dolore ma anche la difficoltà di pensarlo, perché il dolore è il rimosso della modernità, che alle categorie "patetiche" della memoria e della comunità contrappone gli idoli del progresso e dell’individualismo.

  Secondo Schopenhauer l’esistenza in sé stessa è dolore o, per usare le parole di Borges che ricalca maliziosamente un’elegia di Teognide (per dire che l’idea viene da lontano), volesse Dio che fossimo nati morti. In un supplemento al IV libro de Il mondo come volontà e rappresentazione Schopenhauer traccia una rapida storia di questa antiteodicea: da Eraclito a Sofocle, da Byron a Shakespeare a Gracian. Ma questa è solo una delle infinite storie che l’uomo si racconta quando il sopraggiungere della notte richiede un supplemento di coraggio. Nel fondo di ognuno di noi giace intatto anche un altro racconto. E’ il sogno di Lucrezio: "E’ dolce, quando i venti sconvolgono la superficie delle acque del mare sconfinato, osservare da terra il pericolo altrui; non già perché rechi gioia e piacere che qualcuno sia in difficoltà, ma perché è dolce osservare di quali mali tu stesso sei privo" (De rerum natura, I). Ed è sempre dolcissima la speranza di non naufragare in questo mare.
 

 

 

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