Favole e martelli
(Da "Juliet", settembre '04)

Germania, 1750: il filosofo Alexander Baumgarten pubblica il primo volume della sua Aesthetica, inventando un termine destinato ad una straordinaria fortuna e sdoganando l’artistico come forma di sapere sul mondo che, se non possiede l’apoditticità delle scienze fondate sulla ragione, entra tuttavia stabilmente tra i saperi fondanti per la comprensione della realtà. L’intellettuale non potrà più prescinderne, come ancora poteva permettersi di fare Cartesio nel secolo precedente, e lo sguardo estetico sul mondo verrà ad aggiungere il proprio posto alla tavola della cultura occidentale accanto a filosofia, matematica, fisica, teologia. Le forme visive come possibile sintassi del sapere, insomma: ecco una verità sacrosanta, dalla quale tuttavia non partiremo. 1876, La nascita della tragedia: "Solo come fenomeni estetici l’esistenza e il mondo sono eternamente giustificati" scrive un giovane filologo tedesco infatuato dalla conoscenza di Wagner. Quello che con Nietzsche si avverte è uno scarto ed un’improvvisa accelerazione, che dilata l’estetico a cifra del mondo; attorno a questa idea, così intrigantemente sottesa come ad un perno a quell’aggettivo "giustificati", si gioca la possibilità di ripensare l’arte come modello di ogni indagine di senso, fuori da ogni sua riduzione all’inessenziale, come la celebre profezia hegeliana della "morte dell’arte" poteva far temere.

Solo come opere d’arte, creazioni manu-fatte e in-naturali, il mondo e i viventi diventano qualcosa di sensato. Ragionando su una possibile parafrasi, la frase di Nietzsche potrebbe avere il senso dell’evocazione nostalgica del tempo in cui gli uomini vivevano e morivano soffrendo per il dolore del vivere, non per la sua assenza di significato; l’idea, temprata dai secoli, di un Dio creatore a fondamento ontologico ed etico dell’esistenza, e del mondo come l’opera d’arte più riuscita, capolavoro ineguagliabile che dalla propria origine divina prende vita, significato e valore. Ma sarebbe quantomeno curiosa, una simile forma di teodicea nietzscheana, e l’evidente ossimoro dell’espressione ci fa capire che non è questa la strada da seguire. Strano a dirsi, per un filosofo amante della montagna, ma la direzione non è quella verso l’alto delle vette, come nella soluzione teologica, bensì un cammino a ritroso verso le fonti del senso, una "genealogia". Ciò che Nietzsche cerca di costruire non è una valutazione comparativa dei valori tra i quali operare una scelta, ma il radicale pensiero della loro origine, l’idea che essi "hanno" un’origine, e che a fondamento di questi santuari intangibili della verità ci sia un gesto cosmogonico, creativo, con cui l’uomo forgia il proprio mondo senza che sia vincolato dalla necessità, senza uno zoccolo duro ontologico e poi assiomatico con il quale scendere a patti. I valori etici, politici, o estetici sono le coordinate del nostro mondo, ma non hanno il senso della necessità: sono tracciate e non trovate, sono create e forgiate dalla materia nuda come un prodotto estetico. L’idea che il mondo sia un’opera d’arte fa della creazione artistica una sineddoche del mondo stesso: è una "filosofia con il martello" che usa l’estetico come clava, come un martello, appunto, sull’incudine di una cultura chiusa nelle proprie beghe di bottega, trasfigurando la questione in una visione "alta e altra" dove l’arte si fa immagine autentica dell’etico, figurazione della vita nella spirale infinitamente metamorfica (Nietzsche scriverebbe "dionisiaca") delle sue forme.

Il mondo non solo ha una forma, per quanto mutevole; questa forma, o queste forme, hanno anche una genesi: sono creazione, opera. Ma non nel senso che quella estetica sia una prospettiva privilegiata sul mondo: ne è piuttosto la forma ontologica. Qui l’estetico non è in rapporto dall’esterno con l’essere, ma vi si protende dall’interno, ne è articolazione, prefigurazione, archetipo. Il mondo esiste non in quanto "è", ma in quanto è "significato" dall’uomo; senza questa donazione di senso originaria, la realtà rimarrebbe un guazzabuglio materiale senza (qui il luogo comune cade a proposito) né arte né parte. L’arte parla della vita, per così dire, non tanto con le parole quanto con i gesti, non tanto con i significati ma con quella sintassi dei significanti che con essa condivide. Creare ed esistere sono l’uno la forma dell’altro, una ricerca inesausta ed inesauribile di assestamento tra forze in movimento, così che aveva ragione Giordano Bruno quando scriveva che "tanti son geni e specie di vere regole quanti son geni e specie di veri poeti"; tante cioè e tanto mutevoli sono le forme dell’arte quanto lo sono quelle della vita. L’arte stessa prefigura come unica possibile filosofia una sorta di ontologia debole, ad assetto variabile, radicata nella consapevolezza che non c’è una datità originaria o un’oggettività di fondo, e non si dà mondo finché non c’è un gesto intenzionale di significazione del mondo stesso. Idea feconda se, settant’anni dopo e in tutt’altro contesto, Merleau-Ponty potrà scrivere senza sussultare: "Il mondo fenomenologico non è l’esplicitazione di un essere preliminare, ma la fondazione dell’essere, la filosofia non è rispecchiamento di una verità preliminare, ma, come l’arte, la realizzazione di una verità" (Fenomenologia della percezione). Per dirla invece con le parole de La gaia scienza: "Il mondo è […] divenuto per noi ancora una volta infinito: in quanto non possiamo sottrarci alla possibilità che esso racchiuda in sé interpretazioni infinite". Che è un altro modo per dire l’essenza estetica della vita.

Nel Crepuscolo degli idoli c’è un breve capitolo, cui la celebrità non ha fatto perdere l’incanto, dal titolo ‘Come il mondo vero diventò favola’, dove Nietzsche in una paginetta scarsa rilegge da par suo l’intera storia del pensiero occidentale. Non ci sono più mondo vero e suo racconto, realtà e disegno: ogni realtà è disegno, ogni mondo è invenzione di mondo, interpretazione, costruzione. Il tempio della realtà non ha più bisogno di sacerdoti devoti ma di nuovi architravi. E’ cessato l’incanto con cui ci avvolgeva la favola di un mondo vero, se con questo bisogna intendere una realtà oltre la propria narrazione: la fabula, il racconto del mondo coincide col mondo stesso e sfuma la necessità che oltre la maschera ci sia un volto. Muore il Motore Immobile dell’universo, Dio, o meglio l’idea di Dio. "Incipit Zarathustra", conclude quindi Nietzsche, ma negli appunti preparatori troviamo scritto "incipit philosophia", ad indicare che la presa di coscienza della natura di opera d’arte del mondo corrisponde alla profondità di una vera sapienza filosofica, quel mezzogiorno "dove l’ombra è più corta" e le parole dell’arte coincidono fino a confondersi con le forme della realtà.. L’arte non si è certo fatta pregare (il termine è d’obbligo) per sfruttare l’occasione e si è gettata rapacemente sul cadavere di Dio per trarne nuova linfa, avvezza com’è da secoli a trattare con le cose del sacro; tutto sta a capire come intendere questo passaggio di consegne, se come, per dirla con Freud, l’avvenire di un’illusione (l’arte ovvero la nuova ricetta per la cucina di metafisiche certezze, variante speziata dell’"oppio dei popoli") o come l’accettazione dell’abisso dietro i valori, della loro fondamentale infondatezza ma anche dell’eternità della volontà di potenza che li sostiene. L’esperienza dell’arte contemporanea, ostile, avendone mostrato l’inconsistenza, ad ogni forma di assolutizzazione dei valori ed abituata a vivere nella e della propria crisi, si configurerebbe allora come una sorta di manuale di sopravvivenza per l’uomo moderno, disinnescando il pericolo, evocato dalla filosofia hegeliana, di un estetico ridotto all’inessenziale, weekend dello spirito e lifting culturale.

Nietzsche descrive uno ad uno i sintomi del nichilismo estetico montante ma questo non fa che ribadire la centralità dell’estetico anche nella modernità: se l’arte è prefigurazione dell’essenza del mondo, lo è anche quando il suo fondamento ontologico sia lo sradicamento. La deriva soggettivistica dell’arte contemporanea, il suo scarso interesse per l’intellegibilità e il disincanto di fronte ad ogni possibile forma del vero (e l’idea che del vero qualsiasi forma sia possibile, accettabile) tradiscono la volontà di potenza che vi soggiace e che è la vera essenza dell’uomo contemporaneo, il nucleo etico di un’umanità interessata al dominio più che alla comprensione, perché comprendere significa accogliere uno stato di fatto e l’uomo moderno ha sempre meno interesse per questi pazienti compromessi. E’ l’interpretazione che di Nietzsche dà Vattimo nel suo La fine della modernità: "L’artista è una Vorstufe, un luogo in cui si è data a conoscere e si è attuata in piccolo quella che ormai […] può svelarsi come l’essenza stessa del mondo, la volontà di potenza". L’arte svela perché dice prima, "pre-dice", e se accetta che l’inattualità sia il proprio tempo la sindrome di Cassandra sarà il prezzo da pagare. Così, la perplessità diffusa del senso comune di fronte all’arte contemporanea, a quel suo caratteristico mancare di punti di riferimento e di remore etiche, quel compiaciuto senso di precarietà, quella costante malizia nel sottrarsi ad ogni tentativo di fissare parametri valutativi stabili, ebbene questa ostinata incomprensione somiglia sinistramente al riso degli uomini di fronte all’annuncio del folle, la morte di Dio, nel celebre aforisma 125 della Gaia scienza. E’ un deserto quello che avanza, ma queste dune mobili, sembra dirci Nietzsche, sono il terreno sul quale dobbiamo imparare a muoverci.

Come è evidente, più che una soluzione dei problemi questo è un modo nuovo di porli ed apre davanti a sé, come propria ricchezza, una serie di questioni su cui deve esercitarsi il pensiero. Citiamone una su tutte, quasi in cauda venenum: se l’estetico è modello per l’etico, e l’opera d’arte mima la posizione di valori su cui si fonda un ethos e una società di uomini, come conciliare questo nucleo etico dell’estetico con la "immoralità" dell’arte moderna e postmoderna, intesa come assenza di ethos, di un terreno linguistico comune tra artista e pubblico? Se è vero, come scrive acutamente Regis Debray, che "il gioco simbolico è un gioco di squadra", l’unico schema che l’arte contemporanea è in grado di applicare sembra essere il contropiede.

 

 

 

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