Metafisica naturale
(pubblicato sul catalogo della mostra "Metafisica naturale", Mozzate aprile 2005)

 

E se la paurosa immensità degli abissi del firmamento non fosse che
un’illusione, un riflesso esteriore dei nostri abissi, percepiti ‘in uno specchio’?
L. Bloy

A un certo punto, il bisogno di spazio si fa sentire… Ci prende senza avvisarci. Poi, non ci lascia più.
L’irresistibile voglia di avere uno spazio proprio. Uno spazio mobile che ci porterà lontano.[…]
Non siamo mai stati tanto bene sulla Terra come nello ‘Spazio’ [Espace]
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Tà metà tà physiká: "le cose che stanno oltre le cose naturali". Così Andronico di Rodi, nel I secolo a.C., ripartendone l’opera per la prima edizione critica definiva la raccolta eterogenea degli scritti di Aristotele che da allora va sotto il nome, appunto, di Metafisica. Sedotta dalla straordinaria pertinenza del neologismo, la filosofia se ne è subito innamorata e ne ha fatto una categoria dello spirito, una vera e propria teoria del desiderio teoretico. Il linguaggio comune, da parte sua, l’ha presa per come riusciva a capirla, aggrappandosi al suo senso più immediato di luogo ulteriore o superiore ed alla concretezza inoppugnabile dell’estensione materiale; quel che si dice monetizzare un’intuizione investendo nella solidità del mattone. L’ oltre è diventato altro, un al di là da risolto con una duplicazione dello spazio visibile e vivibile, un rimando topologico che addita oltre la sfera meramente naturale conquistando una dimensione di senso, anche se a scapito di un’autonoma cogenza della realtà. Metafisico alias trascendente, il non-luogo come archetipo della genesi infinita degli spazi, iperuranio peripatetico: l’ennesimo happening dell’Assoluto, insomma, seguendo i cippi posti sulla strada dallo Stagirita stesso, con quelle vertiginose pagine sulla Causa Prima e quella immagine del Divino come pensiero di pensiero che, più che un accenno, è un’istigazione al deliquio metafisico.

Tà metà tà physiká: "le cose che stanno da un’altra parte rispetto a quelle naturali". Se sciogliamo l’intreccio della frase provando a dar conto dei possibili sensi delle parole, cominciamo ad intravedere la possibilità di un percorso differente. Proseguiamo: "le cose che stanno da un’altra parte" indica che occorre isolare qualcosa, e metterla da parte, rispetto a qualcos’altro; ciò non significa che le cose siano diverse, ma che quel metà va inteso, più che come indicazione topografica, come rilievo metodologico per chi le physiká deve pensare. C’è qualcosa che va isolato dagli oggetti nell’immediatezza della fruizione sensibile, perché solo così di essi è possibile render conto ponendoli a stagliarsi su uno sfondo che dona loro figura e significato; solo così può prendere forma e visibilità quello zoccolo duro che delle cose è la consistenza ontologica, celata dall’apparente e mutevole inconsistenza del mondo percettivo. Il guardare metafisico chiede occhi capaci non solo di oltre-passare il dato naturale verso l’alto (metà come oltre) ma anche di fissarsi nel mezzo (altro significato di metà) delle cose stesse per abitarne il senso. Qui è il sentimento greco del mondo a parlare, lo stesso che sentiamo nelle parole aurorali con cui Talete, all’alba del pensare filosofico, sentenziava che "tutto è pieno di dei": è la totalità del reale ad essere divina, significante, e questo senso è nell’immanenza, non nella trascendenza; in fondo, ogni trascendenza non è che una diversa figura dell’immanenza. Deus sive natura (Dio ovvero la natura) sarà capace di pensare, sotto altri cieli, il genio metafisico di Spinoza.

In questo quadro l’aggiunta dell’attributo naturale a metafisica ha, tutto sommato, il sapore della ridondanza. Il paradosso dei contrasti in questo caso non funziona, perché non c’è reale contraddizione di fondo e più che di ossimoro si dovrebbe parlare di tautologia. La metafisica qui intesa è l’oltre di un riciclaggio semantico, volto a recuperare l’orlo sfrangiato dei luoghi nel nichilismo semantico dell’esistenza moderna. Un habitus mentale e un abitare gli spazi che significa reinvenzione delle sue unità di misura a partire dagli equilibri che la fruizione esistenziale spinge a ricercare. Il luogo come gesto creativo; di più: l’intuizione che la realtà è un percorso metamorfico di genesi del senso, l’assetto variabile di volta in volta risolto in quell’equilibrio che chiamiamo spazio (e di cui lo scorrere del tempo è il respiro). Il pensiero occidentale ha sempre avuto idee brillanti ed abbondanti sul tema; parlarne significa porsi in ascolto dell’eco sommessa di quella gigantomachia che è lo scontro delle idee. Nella sua Fisica Aristotele definisce lo spazio come "limite immobile che abbraccia un corpo" ovvero come la posizione di una sostanza rispetto ad altre; ma è sempre lo Stagirita a suggerirne, almeno nell’interpretazione che ne dà Sesto Empirico, una versione ontologicamente forte quando, usando per il Motore Immobile del cosmo l’espressione "limite dei cieli", sembrerebbe identificare lo spazio con Dio stesso ovvero con la realtà suprema, non lontano dalla soluzione di Spinoza, per il quale, come è noto, l’estensione è addirittura attributo di Dio, così che si può dire che "tutto ciò che è, è in Dio" (Ethica more geometrico demonstrata). Altrettanto nota la posizione di Kant, capace di imprimere una svolta gravida di conseguenze al dibattito in corso indirizzandolo verso l’io e facendo dello spazio non una realtà percepita ma la condizione stessa della percepibilità, "rappresentazione necessaria a priori che sta a fondamento di tutte le intuizioni esterne" (Critica della ragion pura). Soluzione che non a caso riecheggia a distanza nelle parole di Merleau-Ponty, quasi a definitivamente avvalorarle, a marcare un punto di non ritorno: "Lo spazio non è l’ambito in cui le cose si dispongono, ma il mezzo in virtù del quale diviene possibile la posizione delle cose" (Fenomenologia della percezione). "Una mera forma, cioè un’astrazione, e cioè quella della esteriorità immediata", questa la definizione, icastica come suo solito, dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio di Hegel. All’idealismo hegeliano fa da contraltare l’impostazione esistenzialista del primo Heidegger: "L’esser-già-presso-il-mondo costituisce come tale l’essere dell’esserci" (Essere e tempo), e lo stesso suffisso –ci di quell’ esserci con cui il filosofo tedesco definisce la realtà umana chiarisce bene l’appartenenza dello spazio alla struttura originaria dell’esistenza.

Questa sovrabbondanza, tuttavia, rischia di alimentare una bulimia teoretica paralizzante. Contrariamente alle "storte sillabe" di Montale, qui abbiamo fin troppe parole a dirci ciò che siamo, ciò che vogliamo. Facciamo allora un passo oltre (metà, appunto). "Non esiste un punto in cui si possano fissare i propri limiti in modo da poter dire: fin qui, sono io.": così Plotino, nel sesto libro delle Enneadi. Nella discussione sulla metafisica e i suoi luoghi non abbiamo avvertito la presenza di un ospite sottinteso, di un convitato di pietra che soggiace ad ogni nostro discorso sullo spazio: l’io, il soggetto, l’uomo. L’io si protende oltre i limiti della presenza fisica e definisce il luogo in un modo più pieno e concreto di quanto non possa fare la materia estesa racchiusa nella sua epidermide. Io sono qui ma sono anche là, presso le cose distanti, come sguardo che le recinge, le ap-prende e le significa, le col-loca e dis-loca in relazione a sé come l’Altro, l’Oltre. Alla fine, non è l’essenza del luogo tutta in questo oltre/metà, in questo continuo ed infinito differire? Lo spazio è il tessuto oggettuale con cui ci siamo costruiti l’abito del nostro abitare il mondo, non è uno sfondo colorato sul quale giocare con le presenze reali come con dei trasferelli. Non si tratta solo del pensiero che allunga il collo oltre il fisico, ma è il fisico stesso che dichiara la propria congenita predisposizione a questa attivazione di senso. Il richiamo del buon senso all’evidenza di un’esistenza concretamente e innegabilmente tangibile oltre la nostra coscienza di essa non toglie nulla alla patina semantica che da subito ricopre la realtà dischiusa all’apprensione teoretica ed esistenziale. Così il fiorista e l’innamorato guardano lo stesso mazzo di rose ma intenzionano e vivono cose diverse, in un’ipertrofia dell’io che si gonfia: spazio da spa, radice sanscrita che sta per "gonfiare, espandersi"; fisico dal greco phyo, "essere, nascere, produrre, generare" che a sua volta rimanda alla radice bhu, "nascere" appunto. La metafisica naturale indica l’essenza dinamica, genetica di quello spazio che siamo soliti considerare come l’archetipo della fissità: è la forma linguistica di questa creatività spaziale dell’io.

"Il modo dell’estensione possiamo ormai chiamarlo il simbolo primo di una civiltà" scrisse Spengler, all’inizio del secolo, ne Il tramonto dell’Occidente. Al di là di quella evocazione un po’ impressionistica di un simbolo primo, qui viene messo a fuoco un punto importante: se lo spazio è estensione, tale estensione è un "muoversi verso", una direzione dell’io; unica vera dimensione dello spazio è "la direzione del moto da sé verso una lontananza, un là, un futuro", così che "il sistema astratto delle tre dimensioni non è un dato della vita, ma una rappresentazione meccanica" (ibidem). Ci fa sorridere la sicurezza fallace con cui Aristotele designava per ogni realtà fisica un proprio luogo naturale (alto per l’aria, basso per la terra ecc.), ora che la parola teleologia applicata alla natura è diventata una bestemmia impronunciabile; eppure in quell’errore c’era una verità preziosa da non disperdere, l’idea che esiste un orientamento nel reale ovvero che non c’è realtà senza un orientamento, un’intenzionalità immanente alla struttura esistenziale dell’uomo. Non si dà nesso semantico senza l’attività di significazione dell’io: è lui che traccia la rotta, e nel tracciarla l’eterogeneità delle tappe si fonde nell’unità di senso del viaggio. Dall’Odissea in poi abbiamo imparato che lo spazio è un luogo di movimento: fondamentalmente, una dilazione del ritorno al proprio luogo naturale, un "torno subito" che intenziona gli spazi come vuoti o pieni, vicini o distanti, alti o bassi. L’assenza del soggetto riempie lo spazio e lo definisce come luogo non del vuoto ma dell’attesa del ripresentarsi della presenza, come vacanza della presenza; lo orienta teleologicamente e lo definisce quindi strutturalmente, come attesa dell’io, prefigurazione di un ritorno. Tutto è in funzione dell’attesa, tutto è differito, segnato da questo costitutivo differire, come nel racconto di Stefano Benni: "Un pianeta molto strano è Dapocus: lì tutti gli abitanti c’erano fino a un momento prima. Si capisce che ci sono, perché ci sono le case, i camini fumano, le automobili hanno il bollo in regola […] Ma se suonate a una casa vedrete il cartello "sono in giardino", […] ma non c’è nessuno in giardino. […] Lontano, sentite il rumore della banda che si allontana. Allora vi arrabbiate, vorreste urlare, gridare, ma non potete. Neanche un minuto prima, siete andato via." (da Terra!).

Quando l’arte si impianta nello spazio riesce a farne ciò che vuole. E l’arte ha voluto in infiniti modi: dall’utopia al concettuale, dall’evanescenza del fondo dorato, liquido di contrasto per epifanie metafisiche, al romanticismo del paesaggio che fa eco al sentimento e diventa cassa di risonanza dell’io, mappa o labirinto della propria interiorità, dalla land art alla body art (mitopoiesi operante su quello spazio primario che è il corpo) fino a quelle nature rinascimentali che con la loro sinuosità richiamano le forme procaci delle dame in primo piano. Oggi, sfrattata dal centro del vivere cittadino in nome di più lucrosi estetismi l’arte è andata ritagliandosi addosso i luoghi della marginalità, pur mantenendo il vezzo e il lusso dell’eccesso, da signora decaduta che non si rassegna a trasferirsi in periferia. Il suo rifiuto di assimilarsi allo sfondo ambientale nasce da un’alienazione autoimpostasi di fronte ad un paesaggio omologato che non può sentire come proprio, ec-centrica per vocazione e per destino. Margini, periferie, ritagli: l'arte si trova sempre più spesso ad abitare i luoghi della dismissione del senso, gli spazi irriciclabili, da rottamare, gli abiti smessi dall’urbanistica e rimossi dall’architettura, protetti e covati dal proprio stesso degrado funzionale. Eppure è nei luoghi di confine, in queste dogane dello spirito perduto che si definisce l'identità di un territorio, in questi spazi della rinuncia che la quotidianità non sa più strutturare, come traccie e relitti di un mondo di cui si sia perduto il senso. Lo spazio deprivato della funzione e "adottato" dall’artista ritrova la risonanza emotiva che aveva smarrito: non più guscio vuoto dove l’io implode ma intenzionalità rappresa, codice espressivo con il quale articolare pensieri topografici.

L’artista è geometra: alla lettera, misura la terra. Ma la terra non c’è prima della sua misurazione ed è noto il nesso che lega l’homo all’humus. In un lavoro di certosina pazienza l’artista dispone e ridispone le pedine, assegna le parti e delinea i caratteri, si concede perfino il lusso di cambiare le regole del gioco, per il puro piacere di farlo. Eppure è lì, in quelle volute capricciose, che si genera lo spazio dove viviamo, che è sempre forma simbolica, spazio estetico, perché l’Holderlin di Heidegger ci insegna che "poeticamente abita / l’uomo su questa Terra". In questa genesi fluttuante lo spazio si mostra in tutte le sue stratificazioni di senso, con una forza centrifuga che fa esplodere i punti di vista e sostituisce al monolite di un luogo assoluto il fascino malizioso della pluralità dei linguaggi; e proprio quando è ospite in un edifico storico, luogo della fissità di una memoria storica, l'arte dimostra di saper articolare parole diverse da quelle della venerazione museale, e nell’osare la strada della creazione dimostra che il dialogo è una forma di rispetto più profonda di una conservazione che mummifica gli spazi avvilendoli in quell'ospizio della vita che è la monumentalizzazione. L'oltre contenuto nella parola metafisica indica il vissuto di un spazio stropicciato, né asettizzato né pretrattato ma percorso, abitato, e quindi costantemente ripensato: le opere che della mostra scandiscono i luoghi non li invadono ma ci scambiano due parole, offrendoci la possibilità di un’esperienza creativa dello spazio che non è eccezione o capriccio ma il senso profondo del vivere come invenzione di mondo. Quando allora l’arte riesce ad astenersi dal ricomporre il dato naturale in immagine e ad impedirsi di fare della vita la mera rappresentazione di sé stessa, si apre la possibilità di un’esperienza estetica dello spazio come autentico passo carrabile dell’esistenza. Perché se l’inferno, come scriveva Sartre, sono gli altri, la metafisica della natura siamo noi, tutti noi.

 

 

 

 

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