DIARIO FILOSOFICO

 

fino al 30 gennaio

 

 NB: i primi di gennaio è nato un mio blog, che non poteva che essere dedicato al nonsense. Per trovarlo, clicca qui

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Il nostro progetto esistenziale ci spinge talvolta a riconoscere un significato, un senso nei nostri costrutti. In altre occasioni invece è il nonsense a presentarsi. La continua oscillazione da un polo all'altro determina la nostra vita. Sembra esserci il senso, sembra esserci il nonsense. E non ci decidiamo, barcamenandoci tra le due direzioni proprio come marionette.

 

Perdersi tra le risposte non sarebbe il danno peggiore. Ma non avere a disposizione delle domande, con le quali formulare il nonsense, questa si che sarebbe l'illusione!

 

È come se la scrittura del nonsense imponesse a tratti un doveroso silenzio, quasi dettato dal senso del pudore. Esiste un nonsense del pudore?

 

Destarsi con la sensazione che un dio sciocco abbia organizzato tutto ai nostri danni. Sarebbe un pensiero gnostico, e come tale fuori luogo, anacronistico. Al di là del giudizio, però, potrebbe essere possibile nell'ambito di una realtà virtuale. Che strano! L'originalità degli attuali costruttori di universi deriverebbe direttamente dalla gnosi. Non ci si faccia illusioni in merito.

 

Un'etica del nonsense non dovrebbe prescrivere né l'attaccamento al frutto dell'azione, né il non attaccamento al frutto dell'azione.

 

Comportati come se il frutto dell'azione ti fosse indifferente e tu non ti accorgessi neppure di star seguendo una norma etica. È il valore della solidarietà taoista, di un atteggiamento che non va appreso e che si esibisce con naturalezza.

 

Chi può dire fino a che punto si spinge il disinteresse, e quando invece esso dovrebbe fermarsi per cedere il posto a un qualcos'altro, che sarebbe il nonsense?

 

Io mostro disinteresse, solo finché un'azione o un risultato riescono a non interessarmi, non quando soffoco un interesse che invece potrebbe manifestarsi come tale.

 

Più che l'indifferenza, un'etica del nonsense potrebbe prescrivere l'equanimità, ponendo tutti i risultati sul medesimo piano. Il fallimento come il successo, un grande fallimento come un grande successo. È questo, anziché il distacco, l'elemento essenziale: non tanto che ci si allontani dalla situazione, ma che la si viva soltanto come una delle possibili situazioni, perciò soggetta a eventuali variazioni o alterazioni.

 

Riuscire a trovare un equilibrio mentale, in cui i pesi della bilancia non si muovano troppo repentinamente, o non diano a adito a ripensamenti. L'amore del fato, l'accettazione del principio "così fu". Da seguire.

 

Anche nello yoga si pone tutto sullo stesso piano, in una condizione di equanimità. Senza sforzi, cioè accettando semplicemente ciò che ci arriva. Nello stesso tempo, dovremmo essere pronti anche alla non accettazione.

 

Le difficoltà non consiste tanto nel seguire certi principi, quanto nel liberarsi da quelli che già che ci sono stati inculcati, dall'etica normativa e tutte le religioni istituzionali. Anche laiche.

 

Affidarsi a tutte le proprie risorse, per poi consegnarsi nelle mani del fato. Un atteggiamento di saggezza, che potrebbe essere dettato semplicemente dall'etica del nonsense.

 

Solo quando abbiamo compreso che non c'è niente da perdere, che siamo arrivati alla fine della strada, ci sentiamo veramente noi stessi, e cioè nulla o un vuoto. Il nonsense ci prescrivere questo, come al solito nei toni di una non prescrizione.

 

Impossibile dettare le leggi di un comportamento, ci perderemmo come nei meandri di un labirinto nel quale non siamo mai entrati.

 

Un'etica del nonsense va sempre a cozzare contro il pregiudizio, che non sarebbe neppure l'assunzione della normatività.

 

A quella persona che una volta comprese che l'uccisione del Buddha era da intendersi nei modi di un delitto reale.

 

Il problema tende a ripresentarsi: l'omicidio nel nonsense. Alta la posta in gioco, ma solo per il rischio del fraintendimento. Niente da dire sull'uccisione del Buddha all'interno di se stessi, o l'imperativo evangelico di separarsi dal padre e dalla madre.

 

Beh, come negarlo? Talvolta cogliamo nelle parole dei saggi un'esortazione al crimine, ma questo, ancora, è solo dentro noi stessi.

 

Se prendiamo la Bhagavad Gita, esordisce con un appello alla battaglia, con poco nonsense, e molto fanatismo. Poi l'opera tende a mutare tono, impercettibilmente, e qualcuno ne sarà sviato, come sempre avviene nella ricezione dei grandi pensieri.

 

Come si sviluppa un grande pensiero? Come faccio a sapere, pensando, che il mio pensiero ha una misura enorme, o semplicemente più grande del normale? La qualifica del grande pensiero sembra rapportarsi al piccolo, ma non saprei produrre un piccolo pensiero, neanche a volontà. Lo stesso dicasi del grande.

 

Non eliminare il problema come se fosse qualcosa di secondario, da accantonare senza troppi scrupoli. La distanza tra il crimine e il problema appare ridimensionata.

 

Non c'è una guerra che arrivi da sé, spontaneamente, né interiormente né esteriormente. Contro la Bhagavad Gita.

 

Neanche il conflitto che quotidianamente facciamo esplodere contro noi stessi, dal mattino alla sera, potrebbe essere il frutto di una nostra volontà. A meno che non si colga anche la via secondaria, uno sviamento, come qualcosa di fondamentale o naturale.

 

Il cielo apre la sua porta, ma non è detto che lo faccia una volta ogni vent'anni. O che sia disposto a farlo.

 

Tutto è interpretazione, e la frase che lo denuncia si sottrae per un verso al principio e per l'altro lo conferma.

 

O il biasimo è un dato di fatto, che accettiamo su di noi per evitare la considerazione esteriore, oppure non dovremmo cercare neppure di suscitarlo. Ma è l'ultima posizione, per l'appunto, l'impossibile, proprio per questo tanto più appagante e stimolante.

 

Per la lode vale tutto ciò che già si è detto del biasimo. Ma non bisogna urlarlo ai quattro venti. Il nonsense si lascia dietro tutto questo, alla stregua di ogni coppia di opposti.

 

In un'opera la contraddizione non è indice di trascuratezza, né di distrazione. Potrebbe essere anzi proprio la chiave, che si andava cercando. Quando il nonsense è presentato come l'evidenziazione delle contraddizioni, nulla è detto con ciò del valore delle dottrine chiamate in causa. Lo stesso dubbio che sorge, in merito alla validità del principio, riporta prepotentemente al nonsense stesso.

 

Supposto che il nonsense sia uno scopo, non potrebbe esserlo della vita, pena il venir meno delle sue caratteristiche fondamentali, che sono per l'appunto non caratteristiche.

 

L'etica del nonsense può prescrivere semplicemente che dovremmo lottare con tutte le nostre forze per perseguire lo scopo principale che ci siamo assegnati nel corso dell'esistenza. Ogni tentativo di estenderlo ad altri, però, facendone lo scopo fondamentale di ogni esistenza, si qualifica come un crimine, ma solo perché per questa via si terrebbe ancora conto degli opposti.

 

Nessuna preoccupazione per gli opposti, se non in materia di convenzioni. È questo il senso della distinzione stabilita all'interno della scuola del vuoto, da Nagarjuna, tra un piano di realtà supremo e uno linguistico o abituale.

 

Non avere fretta di sbarazzarti di un problema. Ciò che è stato già detto si può ripetere, e non sarà mai la stessa cosa. Il nonsense gira attorno alla questione, senza affrontarla mai direttamente, né esaurirla. Nei testi orientali antichi, e non solo, le stesse parole ritornano per gli stessi problemi. Ma sarà sempre diverso, non sarà mai la stessa cosa. Cosa ho detto? Che non sarà mai la stessa cosa.

 

La sospensione della considerazione esterna è dettata dal nonsense? L'altro viene messo tra parentesi, al pari dell'io. Nasce il dubbio, sia pure non metodico.

 

Una filosofia che dia voce all'io potrebbe essere meno condizionata dalla sua storia. Ci si illude, almeno.

 

Il nonsense può esprimersi attraverso l'arte, per esempio la musica. Soltanto in Gurdjieff sembra esserci un chiaro monito in questa direzione.

 

Come se la filosofia fosse la ricerca, dettata dall'insoddisfazione. E qualcuno dirà che anche così essa sarebbe il bene più pregiato.

 

Dire che non si hanno pregiudizi non viola il non dire, e non cade nemmeno nel non discorso.

 

Dire che la saggezza non è filosofia significa già concedere alla tesi dell'avversario un enorme vantaggio. Si potrebbe dire semplicemente che la saggezza è una filosofia non sistematica, non conclusiva, non apodittica. Esiste un solo modo per fare filosofia? Ma allora questo sarebbe il sistema, e necessariamente questo?

 

Resistere alla tentazione di dire tutto, sia pure in una sola riga.

 

Il punto di degenerazione va individuato in Platone, Aristotele o Gesù?

 

Il giusto mezzo è semplicemente il colpire nel centro. Ogni aggiunta ci farebbe cadere da una parte o dall'altra della bilancia, senza poter più realizzare l'equilibrio.

 

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