CARATTERI GENERALI DELLA FILOSOFIA CINESE
di Leonardo Arena
(da: La filosofia cinese, citazione
in calce)
L’antefatto
La Dinastia Hsia, la prima storicamente nota,
trova frequenti menzioni, ma nella totale scarsità di documenti
archeologici. I primi reperti testuali della civiltà cinese ci vengono
dagli Shang, intorno al 1400 a. C. Sono brevi iscrizioni su ossa e pietra
tombale. È una Dinastia pacifica, che fu soggiogata dalla brama
di conquista dei Chou, intorno al 1122 a. C. Il re della nuova Dinastia
morì poco dopo la vittoria. E presto l’Impero cominciò a
sgretolarsi. Fu il duca di Chou, zio del nuovo, giovane re, a salvarlo
da una decadenza altrimenti inevitabile. Il suo fu un regime autoritario,
però, dopo sette anni, l’aristocratico riconsegnò il potere
nelle mani del nipote, al cessare del pericolo. Il duca fu riverito come
il fondatore della tradizione confuciana, benché sia vissuto molti
secoli prima di Confucio; morì nel 1094 a. C.
Per giustificare la loro violenza, i Chou
dichiararono di basarsi sul “decreto celeste” (ming). Il concetto legittimava
la necessaria uscita di scena d’una Dinastia, al venir meno delle condizioni
che ne avevano garantito la prosperità, e il subentrare d’un’altra,
foriera di nuovi successi e fortune. L’ultimo re degli Shang veniva dipinto
come uno squallido avventuriero, che opprimeva i suoi sudditi: per questo
sarebbe stato deposto. Un concetto arcaico della filosofia cinese poggiava
su basi ideologiche.
Da quel momento, ogni Dinastia poté
richiamarsi al decreto per giustificare la sua irruenza e la sua ascesa.
Ma un altro aspetto della questione non va sottaciuto: il mandato stabilisce
che il re è stabilito in funzione del popolo, e non il contrario.
Ciò giustifica l’umanesimo cinese, l’attenzione per le masse popolari
o almeno per i problemi politici e sociali, da sempre in primo piano nell’ambito
speculativo.
I Chou suddivisero il loro immenso territorio
tra i vassalli, i quali erano per la maggior parte i loro stessi familiari
o i capi delle tribù che li appoggiarono. I signori feudali più
forti si combatterono a vicenda, per ampliare i loro domini. Poi formarono
alleanze e fazioni, affrontando persino il re. Intorno al 771 a. C., l’attacco
di una coalizione sostenuta da tribù semibarbare si concluse con
la morte del sovrano in carica. Nonostante la proclamazione d’un erede,
da quel momento i re dei Chou non furono che marionette, nelle mani dei
feudatari più potenti.
Cominciò così un lento, inesorabile
processo di decentramento del potere. Lo si vede a Lu, lo Stato nativo
di Confucio, dove viene nominato un duca, ma il potere è gestito
effettivamente da alcuni suoi parenti, i grandi ufficiali dello Stato.
Feudatari e ufficiali confermarono le proprie posizioni per diritto di
nascita, allorché i re dei Chou furono troppo deboli per poterli
contrastare.
Ciò aggravò la sorte di molti
rampolli nobiliari. Non erano i figli maggiori, e per loro non c’erano
posti. Alcuni divennero soldati mercenari, e altri funzionari minori di
Corte; altri invece vagarono da uno Stato all’altro in cerca di miglior
fortuna. Però esercitarono una funzione educativa impareggiabile,
formando un ceto medio che non perse il contatto con gli strati più
umili della popolazione, pronto ad appoggiarne, con la protesta, le rivendicazioni.
Uno di loro avrebbe consegnato il proprio
nome alla posterità, per essere indicato nei secoli come il modello
impareggiabile del comportamento virtuoso: si tratta di Confucio, con cui
inizia la Storia del pensiero cinese, in un’epoca che sarebbe sfociata
nei cosiddetti “Stati guerreggianti”. La denominazione indica che ogni
Stato combatteva per imporsi sugli altri, approfittando di circostanze
cruente e sanguinose: nel caos, poteva conquistarsi una posizione egemone.
Quest’epoca coincise con l’istituzione delle grandi Scuole, e solo nel
nostro secolo si poté assistere a una medesima proliferazione di
idee e tendenze in Cina. Confucio morì alla vigilia di questo periodo
confusionario, i cui prodromi poté però conoscere e vagliare.
Arcaismi di pensiero
La conquista degli Shang, da parte dei Chou,
comportò il transito da una società di tipo tribale a una
feudale. Molte ingenuità vennero, se non proprio accantonate, ridimensionate:
i lavori di irrigazione sostituirono le preghiere e i rituali della pioggia.
E la stessa idea del mandato o decreto celeste, benché ideologicamente
connotata, metteva in luce che la fortuna di una Dinastia dipende dalla
virtù, anziché dal favore degli spiriti. Nel “Libro dei riti”
(Li-chi) si legge che il popolo dei Chou serve e rispetta le creature
spirituali, ma le tiene a distanza: quest’atteggiamento è indicativo.
Tra gli Shang l’essere supremo era una sorta
di divinità antropomorfica, molto affine allo Jaweh biblico; tra
i Chou si passa gradualmente da quest’idea alla divinità del Cielo
(t’ien), un elemento naturalistico che acquista tratti sempre più
impersonali.
Nel “Libro dei documenti storici” (Shu-ching)
si legge che l’augusto Cielo aiuta solo i virtuosi. Se gli uomini si attengono
ai princìpi etici basilari, il Cielo non avrà occasione di
rimuovere il mandato, per destinarlo ad altre Dinastie. Quest’asserzione
è messa in bocca al duca di Chou. L’enfasi è sull’etica,
piuttosto che sulla religione: sarebbe stato questo l’atteggiamento più
diffuso, nell’ambito della civiltà cinese. La virtù di re
Wen, il fondatore dei Chou che governò tra il 1171 e il 1122 a.
C., è presa a modello.
Riguardo ai princìpi etici basilari,
si insiste sul rispetto reciproco, l’amore e il culto per gli antenati,
la considerazione per il popolo e soprattutto la virtù (te). Dietro
a questo termine si cela un complesso di regole non scritte, indicative
del comportamento esemplare. Anche gli esseri spirituali, kuei e
shen, non mancano di soccorrere i virtuosi. Sarà Confucio, più
tardi, a entrare in maggiori dettagli, sistematizzando o riprendendo tradizioni
precedenti, e insistendo su valori più concreti: la solidarietà
e la giustizia.
Il culto degli antenati mostra la grande importanza
della famiglia nella società cinese. I vincoli di parentela vennero
sentiti come non mai, in questo tipo di cultura patriarcale. Nel “Libro
delle odi” (Shih-ching) si legge: “di tutti gli uomini al mondo,
non c’è uguale dei fratelli...”; e “non c’è uno da riverire
come il padre, né una da cui dipendere come la madre”. Si insisterà
a più riprese sulla pietà filiale (hsiao), imponendola persino
in termini giuridici. Il Confucianesimo costruirà la sua fortuna
anche sull’ipervalutazione del nucleo familiare, attraverso il concetto
di amore differenziato: non si potrà mai amare un estraneo come
i propri parenti o genitori.
Se la famiglia è in ordine, anche il
mondo sarà ben strutturato. Questa convinzione sarà alimentata
nel Confucianesimo, ma fa parte del corredo arcaico del pensiero cinese.
Un residuo animistico ci informa dell’equivalenza tra il micro e il macrocosmo,
come se l’uomo e il mondo ubbidissero alle medesime leggi. È il
pensiero analogico, su cui si fonda il cosiddetto “universismo” cinese,
secondo la nota espressione di de Groot. Questa mentalità si ripercuoterà
sulla medicina, l’etica, la politica e la cosmologia: non c’è ambito
della filosofia cinese che non ne avverta il peso.
Ma al centro di questa visione delle cose
c’è pur sempre l’uomo (jen), il destinatario principale di qualsiasi
riflessione o teoresi.
Le questioni ricorrenti
Ogni tradizione speculativa alimenta i propri
problemi, che ritiene essenziali e prioritari. Nella filosofia cinese si
impongono questioni pratiche, di una semplicità che in realtà
è profondità, se osservata attentamente. Mentre il mondo
occidentale si interroga sull’etica, per rivolgersi all’utilitarismo, la
normativa, il lassismo, e così via, il pensiero cinese si pone il
seguente quesito, spontaneo e naturale: qual è, in origine,
la natura dell’uomo? È buona o cattiva, eccellente o detestabile?
Si formulano diverse risposte, che partono sempre dalle situazioni concrete
della vita quotidiana. Meng-tzu, il “secondo Confucio”, indica al lettore
la triste circostanza d’un bimbo che stia per precipitare in un pozzo,
ricavandone la propria teoria di una disposizione mentale umana universale
che non sopporta la sofferenza altrui. O si paragonerà la natura
umana all’acqua: pura alla sorgente, nel suo corso incontra detriti fangosi,
da cui può essere contaminata. Certi esempi di Hume o, più
in generale, dei filosofi anglosassoni ricordano quest’attitudine alla
semplicità.
Le strutture delle cose esistono? Come molti
filosofi cinesi contemporanei hanno sottolineato, la questione può
essere correlata al concetto platonico di idea. Sin dal “Libro delle odi”,
si insiste su questo: “poiché esistono le cose, ce ne sono anche
i modelli” (tse) (ode n. 260). Ogni cosa si conforma a una propria configurazione
o articolazione: i Neoconfuciani che si richiamarono al li (“principio
costitutivo”, “legge”, pattern, ecc.) trovarono un terreno fertile su cui
edificare le proprie argomentazioni. Da diversi secoli i Cinesi sviscerano
il rapporto di questo li, reperibile in qualsiasi oggetto, occasione o
evento, con l’energia vitale (ch’i) che permea il cosmo. Energia che fu
avvertita, a seconda delle epoche, come psichica o spirituale, materiale
o eterea; di recente, la si è equiparata all’elettricità.
Struttura ed energia sono correlate; in che senso? Non soltanto il Neoconfucianesimo
si premurò di fornire una replica. Altre tradizioni di pensiero
stigmatizzerebbero la domanda come secondaria o inopportuna; dopotutto,
altre problematiche potrebbero apparire ugualmente criticabili: nel Medioevo
occidentale ci si affannava a chiedersi quanti angeli potesse contenere
la capocchia d’uno spillo (!).
L’uomo resta l’oggetto centrale di qualsiasi
dottrina. Il Confucianesimo, il Taoismo e il Buddhismo, le tre correnti
principali di pensiero, lo elevano puntualmente al rango di interlocutore
privilegiato. Il primo ne analizza gli atteggiamenti nella vita sociale,
proponendogli il modello della rettitudine completa: persino nella solitudine
della sua camera, gli si rammenta di non smarrire la virtù. Il secondo
ce lo mostra tra la quiete dei boschi o il silenzio dei monti, ma pur sempre
nei meandri della ricerca interiore, con un programma di autorealizzazione.
Il terzo, in quanto cinese, accentua l’umanesimo: è Buddhismo pratico,
del lavoro compiuto in società oltreché su se stessi.
Si rischia la genericità e la banalizzazione,
ma è senz’altro vero che la filosofia cinese è pragmatica
e politica, anche quando è all’individuo che rivolge l’attenzione.
Qui si vuole solo mostrare al lettore alcune strutture di pensiero, per
orientarlo nella disamina d’un’altra tradizione, in realtà complessa,
nonostante l’apparente facilità di approccio.
Come già nel mondo indiano, ogni corrente
si chiede come sia possibile scoprire se stessi, fornendo le risposte più
opportune. Una teoresi fine a se stessa sarebbe inconcepibile. Quando la
Scuola ming-chia o dei dialettici tentò di esaltare un tipo
di conoscenza privo di qualsiasi addentellato con la vita quotidiana, venne
subito ammonita: a che pro sondare la logica e gli artifizi del ragionamento,
senza aver prima tentato con il proprio cuore? Tutte le dottrine vertono
sull’autoanalisi, attraverso la disamina spesso impietosa, ma sempre efficace,
delle potenzialità dell’uomo.
La morte di Dio, più volte dichiarata
nella filosofia occidentale e resa celebre dal grido di dolore nietzschiano,
fu quasi da subito una realtà molto tangibile nell’universo sinico,
proprio perché l’uomo occupò il posto del sacro. Shang Ti,
il supremo reggitore, venne in secondo piano. Qualcuno si chiese se esistesse
un governatore del creato, un legislatore che curasse la messa a punto
e il mantenimento dell’universo, per poi rispondersi che tutte le cose
lo davano a vedere, ma che era impossibile individuarlo. Un modo tipicamente
cinese per concludere una riflessione, senza sentirsi frustrati dalla sua
irresolubilità.
In una Premessa si può solo accennare
all’ampia quantità di tematiche affrontate dai filosofi cinesi.
Queste sommarie indicazioni evidenziano una mentalità differente:
i sintomi di una ben distinta “malattia (o passione) del pensiero”, che
però possono essere condivisi nella nostra cultura; non soltanto
come raccomandazioni etiche, da verificare nelle occupazioni più
comuni. Si consideri che l’appello alla semplicità consentirebbe,
se raccolto, alla filosofia occidentale di estirpare ogni orpello dispensabile
e superfluo: obiettivo che, al giorno d’oggi, appare più che mai
ottimale.
La lingua
L’ostacolo essenziale è sempre il medesimo:
la logica e il linguaggio d’una cultura procedono nella stessa direzione,
quindi l’una è incomprensibile a prescindere dall’altro, e viceversa.
Nel caso del cinese, ciò sembra implicare difficoltà insormontabili.
In realtà, se soltanto ci prendessimo la briga di occuparcene per
un po’, scopriremmo che la questione è più semplice di quanto
non appaia. La lingua è molto logica, e certe frasi si potrebbero
rendere nel codice dell’aritmetica tipografica, il calcolo proposizionale
o la logica simbolica. Senza addentrarsi in questi campi, una buona dose
di intuizione permette già di coglierne le strutture, dopo un primo
studio intensivo dei caratteri. È vero che se ne devono conoscere
circa duemila per praticare la lettura, ma le strutture grammaticali risultano
dal contesto delle frasi e solo la frequentazione dei testi, supportata
dal vocabolario, è formativa del sinologo.
È uno studio “dall’interno” che si
rende necessario, anziché la conoscenza preliminare di declinazioni
o coniugazioni verbali. Si tenti subito l’approccio alle opere. Vale la
regola generale per cui un carattere è verbo (generalmente non coniugabile
nei tempi), aggettivo, sostantivo (generalmente senza indicazione della
quantità) o avverbio a seconda della sua posizione nella frase.
Lo spirito di osservazione, che permette di distinguere un carattere da
un altro, individuandone il radicale per la consultazione lessicale, fa
il resto.
D’altra parte, occorre una mentalità
speciale. L’apprendimento del cinese è frutto d’un’apertura mentale,
piuttosto che di uno studio disperato o ininterrotto: si deve essere disposti
a imparare, accantonando i requisiti che sembrerebbero chiamati in causa
nei casi delle lingue fonetiche; pure nel cinese la fonetica svolge un
certo ruolo, ma sarebbe possibile leggere un testo anche senza conoscere
la pronuncia dei caratteri, diversamente che in giapponese. Ciò
implica che, attraverso l’apparato del greco e del latino, non ci si accosta
affatto al cinese: si richiede lo sviluppo dell’emisfero destro, quello
delle immagini, per la comprensione della lingua. L’attitudine estetica
facilita l’approccio, mentre chi ne è carente troverà vari
problemi.
È peraltro vero che si individuano
sempre nuove strutture, anche dopo uno studio decennale, e che le varie
Dinastie o epoche storiche alterano il significato dei caratteri. Il Buddhismo
Ch’an della Dinastia T’ang attinge ampiamente a stilemi colloquiali, impensabili
nel Neoconfucianesimo. Per limitarmi a un esempio, il carattere sheng (“vita”
o “produzione”) chiude di solito nel Ch’an una proposizione interrogativa,
equivalendo a un punto di domanda. Ignorandolo, per intenderlo nell’accezione
più comune, incapperemmo in gravi errori di lettura. Le Scuole,
come è il caso del Buddhismo, coltivano spesso un lessico particolare:
la derivazione dalla cultura indiana, quindi dal sanscrito e dal pŸli,
comporta il largo uso di traducenti cinesi in funzione fonetica, complicando
la lettura testuale, e richiedendo l’ausilio di vocabolari specialistici.
È quasi impossibile, anche per il sinologo esperto, vagliare i testi
buddhisti senza avvalersi del dizionario di Soothill e Hodous, o dei suoi
corrispettivi. Il Taoismo alchemico, pure, sfrutta un lessico proprio:
caratteri molto comuni vengono dotati di accezioni inedite e funzionali
al contesto.
In genere, la resa dei termini filosofici
pone particolari problemi al traduttore. È difficile, per il profano,
focalizzare persino i titoli delle opere, confrontando traduzioni differenti.
La stessa operazione, condotta su porzioni testuali più ampie, gli
darebbe la sconcertante impressione che si tratti di opere diverse; l’esempio
del Chuang-tzu è particolarmente rivelatore. E le frasi si prestano
spesso a versioni molto differenti, polivoche e complementari; ecco perché
il traduttore è costretto a una scelta, consapevole di non poter
rendere le molteplici sfumature dell’originale. Il che è vero per
qualsiasi lingua, ma ancora di più nel caso del cinese.
Il termine tao indica la via maestra,
ovvero la modalità principale per svolgere un qualsiasi compito,
oltreché il corso dell’universo. Come tale è intraducibile,
e nessuna accezione, presa singolarmente, riuscirebbe a renderne conto.
Asserire che il tao è la Via, come purtroppo si è quasi costretti
a fare, implica la consapevole limitazione di ampie possibilità
linguistico-semantiche. L’inglese way e il tedesco Weg, compendianti
la duplice accezione di “metodo” e “via”, sono favoriti. Poiché
un’altra delle accezioni del termine è “parlare” e “dire”, nelle
traduzioni sino-giapponesi dei Vangeli l’espressione giovannea “In principio
era il lógos” diviene: “in principio era il tao”. Lao-tzu, nell’opera
che gli viene attribuita, insiste anche su questa valenza del carattere.
Riguardo alla resa di altri termini tecnici particolari, è spesso
difficile trovare due traduttori che propendano per la medesima accezione.
L’ostacolo linguistico esiste, ma non va accentuato
o esasperato. Solo un sincero interesse per la filosofia cinese permetterà
allo studioso di immergersi nella materia; ma dovrà prepararsi a
una lettura lenta e ardua, nei primi tempi, nonché a una costante
dipendenza dal vocabolario. In seguito, esaminando vari testi di provenienza
storica diversa, i risultati non si faranno attendere: si scoprirà
una grande semplicità espressiva, la stessa che caratterizza la
logica dei singoli filosofi. È stato giustamente osservato che la
comprensione d’un pensatore indiano classico non pone agli occidentali
maggiori difficoltà di quante ne presenterebbe a un indiano moderno
(K. Satchidananda, Philosophy in India: Tradition, Teaching, and Research,
Delhi 1985). Lo stesso può valere per le teorie d’un filosofo cinese,
con l’aggiunta che in questo caso si tratta di un materiale ancora più
accessibile ovvero più intelligibile.
Un rapido sguardo d’insieme
La situazione descritta nell’antefatto prelude
al primo capitolo. Più tardi, nel 136 a. C., sotto gli auspici della
Dinastia Han sarà il Confucianesimo, assai gradualmente, a imporsi
come filosofia statale. Per vari motivi. Innanzitutto grazie al costante
richiamo alla tradizione e alla funzione sociale dell’uomo, due aspetti
cui i cinesi furono sempre sensibili. Ciò non implica che i princìpi
di Confucio venissero effettivamente praticati: il “dover essere” non coincideva
con l’ “essere”, lo stato delle cose, ma era già molto che valesse
come mèta.
Confucio venne visto, di volta in volta, come
un riformatore, un filosofo, un moralista, e addirittura una creatura semidivina
che fondò una nuova religione. È senz’altro il personaggio
più illustre della cultura cinese, il Maestro per antonomasia con
cui comunque si deve fare i conti; viene indicato con il solo appellativo
di tzu: la locuzione tzu-yüeh può valere tanto come “Confucio
disse”, quanto come “il maestro disse”.
La netta ascesa del Confucianesimo, a scapito
delle altre Scuole, fu promossa soprattutto da Tung Chung-shu (ca. 179-104
a. C.). A questo tipo di ideologia si sarebbe opposto il Neotaoismo, nella
ripresa del Taoismo originario, già alieno alla sfera politica;
ma Lao-tzu vagheggiava una società ideale, mentre Chuang-tzu era
anarchico e individualista. Però anche i Neotaoisti ammiravano Confucio:
il suo indubbio merito consisteva nel non aver mai parlato del nulla (wu),
mentre Lao e Chuang vi si erano dilungati. Una questione puntualmente dibattuta
verteva sui limiti e le possibilità espressive del linguaggio: “chi
sa non parla, e chi parla non sa” - così avevano sentenziato i primi
Taoisti, rinnegando in pratica l’assunto.
Fu in questo periodo, nei primi secoli della
nostra era, che i Neotaoisti, con le loro categorie del vuoto (hsü),
il nulla e l’azione senza azione (wei-wu-wei), aprirono la strada al Buddhismo.
I Cinesi erano estremamente sciovinisti e aristocratici: molto più
dei Romani, ritenevano barbara ogni altra etnìa. Eppure accettarono
come mèntore il Buddha storico, Gautama Siddhartha, convertendosi
alla sua dottrina. La rilessero ampiamente, però, aiutati dal Taoismo,
in direzione autoctona. Nel mondo occidentale contemporaneo è proprio
questa la dimensione che si va imponendo, contrariamente a quella indiana
delle origini, la quale attecchì nell’Europa del secolo scorso.
Il Ch’an parlava direttamente al cuore del
Cinese medio, con il suo richiamo alla praticità e alla vita quotidiana.
Non poteva mancare di far breccia in questa cultura, dove l’uomo, di natura
essenzialmente contadina, ricercava la tranquillità accordandosi
ai ritmi stagionali e accettando i fenomeni universali. Esigenze che il
Taoismo aveva già provveduto a soddisfare, e che il Buddhismo alimentò
e corroborò. Il Taoismo dei T’ang assunse una connotazione più
specificamente religiosa, distanziandosi dalle tendenze speculative delle
origini; ormai si volgeva unicamente alle pratiche alchemiche dell’immortalità
o ai riti cultuali, smarrendo sovente l’etica dei rapporti interpersonali.
Nell’epoca Sung il Confucianesimo ritornò
prepotentemente in primo piano. I termini per una ripresa erano maturi,
ma ormai si trattava d’una linea di tendenza ampiamente contaminatasi con
il Taoismo e il Buddhismo. Le tecniche di meditazione furono recepite in
profondità, al pari di un certo atteggiamento di distacco dal mondano:
con il Neoconfucianesimo Sung e Ming si attuò una sintesi filosofica
molto interessante, comprensiva delle maggiori linee di tendenza speculative
cinesi.
Si deve studiare il principio costitutivo
di una cosa o la propria mente, cioè l’individualità? Era
questa la domanda che dominò la filosofia cinese per diversi secoli,
grazie alla controversia tra Chu Hsi (1130-1200) e Wang Yang-ming (1472-1529).
Non si trattava della mera contrapposizione tra realismo e idealismo, come
alcuni storici l’hanno intesa, inconsapevoli che le etichette occidentali
vanno applicate con cautela ad altre filosofie. Chu Hsi stabilì
che andavano vagliati i princìpi delle cose, in modo da capire meglio
se stessi; Wang osservò che si doveva invece partire dalla propria
individualità, dai recessi della mente per studiare l’universo.
Il primo poneva i libri al centro di qualsiasi riflessione; l’altro insisteva
sull’uomo e sulla irripetibile singolarità dell’esistenza personale.
In seguito, l’esigenza di una maggiore concretezza
invalidò molte certezze del Neoconfucianesimo, spostando gli oggetti
e i livelli di indagine. K’ang Yu-wei (1858-1927) e Mao Tse-tung (1893-1976)
ritennero che l’autorealizzazione umana si attuasse nella sfera politica,
proponendo diverse soluzioni. Esiste una continuità di fondo nella
filosofia cinese, che non viene sacrificata dal mutare di impressioni e
ideologie.
Mentre in Europa e in America si stenta a
trovare una direzione unitaria, un’autentica filosofia mondiale - ma il
discorso riguarda soprattutto noi del vecchio continente -, in Cina (ma
anche in India e in Giappone) le difficoltà della riflessione speculativa
contemporanea si devono proprio a certi sforzi. Nel mondo orientale si
cerca di assimilare gli stilemi della filosofia occidentale, nonostante
le asperità d’approccio e gli effettivi ostacoli logico-linguistici.
È per questo che il connubio tra il Confucianesimo e la filosofia
europea, largamente praticato al giorno d’oggi nella cultura cinese, pone
speciali problemi, che saranno superati soltanto in futuro, come è
lecito sperare. Laddove si tenta una mediazione, si rischia di impantanarsi
in impacci imprevedibili, ampliando il campo della speculazione. Però
ci si cimenta, e questo è già qualcosa, in un mondo che si
apre al villaggio globale non solo nei modi della comunicazione.
Forse un’opera come la presente avrà
soddisfatto i suoi scopi se contribuirà, com’è auspicabile,
ancorché lievemente a espandere il campo della riflessione: se permetterà
di far capire, soprattutto nel nostro Paese, che non si può indugiare
in un’unica, monolitica tradizione culturale; specie ora che, con il nuovo
millennio, è proprio l’apertura mentale che si rende più
che mai indispensabile.
(Cfr.: Leonardo Arena, La filosofia cinese, Milano, Rizzoli 2000, pp. 5-14) ©2000 Rizzoli, RCS Libri
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INDICE DEL VO;LUME
Premessa: Caratteri generali della filosofia
cinese
1. L’umanesimo di Confucio
2. Lao-tzu e il Tao-te-ching
3. Testi confuciani: “La Grande dottrina”
e “Il Giusto mezzo”
4. La “sinistra” del Confucianesimo: Mencio
5. La “destra” del Confucianesimo: Hsün-tzu
6. Me Ti e l’amore universale
7. Il Taoismo di Chuang-tzu
8. La scuola dei logici o dialettici: Hui
Shih e Kung-sun Lung
9. La scuola yin/yang o dei Naturalisti. La
filosofia dell’ I-ching La filosofia della medicina: Nei-ching
10. La scuola dei Legisti
11. Il Confucianesimo di Tung Chung-shu
12. Gli sviluppi del Taoismo: Huai-nan-tzu
e Lieh-tzu. Il Taoismo alchemico (cenni). Il Confucianesimo taoista di
Yang Hsiung
13. Lo Scetticismo di Wang Ch’ung
14. Il Neotaoismo: Wang Pi e Kuo Hsiang
15. Le prime scuole buddhiste cinesi. Seng-chao
e Tao-sheng
16. Le principali scuole buddhiste cinesi:
del vuoto o della via di mezzo; lo Yogacara o della “mente sola”; il T’ien-t’ai;
lo Hua-yen; il Ch’an (Zen)
17. Dal primo Neoconfucianesimo alla scuola
dello studio del principio (Chou Tun-i, Shao Yung, Chang Tsai, i fratelli
Ch’eng, Chu Hsi)
18. Il neoconfucianesimo posteriore: la scuola
dello studio della mente (Lu Hsiang-shan e Wang Yang-ming)
19. Critiche al Neoconfucianesimo: Wang Fu-chih,
Yen Yüan, Tai Chen
20. La filosofia cinese contemporanea: K’ang
Yu-wei, Chang Tung-sun, Mao Tse-tung, Fung Yu-lan
Nota bibliografica
Tavola cronologica delle dinastie cinesi