(dal mio libro: Del nonsense,
cap.1)
1. Non è possibile formulare una filosofia esente da contraddizioni. Quando si pensa, ci si contraddice: si producono certe visioni del mondo e certi pensieri, ma anche, contemporaneamente, visioni del mondo e pensieri opposti. Di fatto, nelle pagine di ogni filosofo si cela il tarlo dell'incoerenza, una volta che tutte le premesse d'un'argomentazione vengano sviluppate a fondo.
Se la vita è contraddittoria, e noi stessi ci comportiamo diversamente a seconda delle circostanze, sarebbe velleitario pretendere che quest'incongruenza non intacchi la sfera del pensiero. Non siamo mai gli stessi: smentiamo costantemente le alte dottrine morali a cui aderiamo con i nostri opportunismi e le nostre grettezze quotidiane. Tuttavia, ciò non deve svilirci: è proprio la nostra situazione, assurda e contraddittoria, a permetterci di filosofare, di elaborare una dottrina.
Solo da uno stato di cose avvertito come intollerabile, può scaturire una genuina riflessione filosofica. Chi coltiva una visione asociale della vita deve smentirla in continuazione, perché pressato da situazioni banali, dai rapporti di lavoro quotidiani, che la inibiscono per definizione. E si deve fingere, giorno per giorno, che la vita abbia un senso, e che esso possa essere còlto dal sapere filosofico. Questa è la finzione essenziale. In realtà l'esistenza si snoda in eterno, senza un perché e senza un fine, a dispetto del fatto che vorremmo inserire le nostre attività in un quadro armonico e coerente, nel perseguimento d'un progetto.
L'esistenzialismo ha contribuito ad accantonare la filosofia parolaia, i preziosismi tecnici d'un lessico concettuale stantìo, ma è restato avvinghiato all'idea di 'progetto', e quindi all'illusione che la condizione umana abbia un senso. Anche l'esistenzialismo si contraddice, quando ci esorta a scoprire il senso della vita o almeno quando ammette che ce ne sia uno.
L'assunto essenziale del nostro discorso è il seguente: ogni dottrina è contraddittoria, se sviluppata a fondo. Cerchiamo di analizzare la genealogia dell'opera filosofica: il pensatore si mette a tavolino ed elabora la ridda di rappresentazioni che gli vengono in mente. Così facendo, organizza e struttura un materiale che era frammentario ed incoerente, nella sua natura primitiva. Si dirà: ciò è necessario, affinché il discorso abbia un senso. Ma perché appellarsi al senso, come fondamento del discorso? Non è questa, forse, un'esigenza arbitraria? Da un altro punto di vista, potremmo aspettarci che il discorso debba essere composto da tante frasi brevi, o che sia privo di avverbi. Potremmo pretendere, ancora, che lo stile sia il fondamento e la garanzia della coerenza del discorso.
Si dirà: ogni discorso filosofico è un discorso coerente, poiché obbedisce (o dovrebbe obbedire) al principio di non contraddizione. Ma cos'è mai questo moloch che condiziona la discussione? Se qualcosa è a, non può essere, nel contempo, ¬a: ciò basta a tranquillizzarci? Se applichiamo all'uomo il principio di non contraddizione, misconosciamo l'essenziale ambivalenza di questa creatura. Eugen Bleuler ha avuto il merito di aver indicato chiaramente che lo schizofrenico ama ed odia simultaneamente le stesse persone: spunto sùbito assimilato dalla psicoanalisi freudiana, in cui costituisce il pilastro della dottrina delle nevrosi. Nella sfera umana, il principio di non contraddizione perde spessore e consistenza: io amo x e nel contempo lo odio, e lo amo perché lo odio, né più né meno. Se x mi fosse indifferente, non proverei per lui alcun tipo di sentimento, né amore né odio. A cosa serve, in questi frangenti, il principio di non contraddizione?
La psicoanalisi insiste sul fatto che i processi psichici del nevrotico e dello psicotico sono qualitativamente gli stessi dell'individuo cosiddetto normale; però, esiste tra essi una differenza quantitativa, di grado e intensità. Io ho bisogno di correlare alla mia persona quanto accade nel mondo esterno, per rendere conto degli eventi: questo processo è noto come 'proiezione'. Tuttavia, se esaspero questo meccanismo, esagerando la mia compartecipazione nei fenomeni del mondo esterno, cado nella paranoia. E' la schizofrenia del pittore Louis Wain: egli confonde il gatto e lo sfondo, colorandoli della stessa tinta, poiché entrambi sono ormai, per lui, una cosa sola. In una celebre occasione, Van Gogh, un altro famoso schizofrenico nell'arte, si taglia l'orecchio per offendere Gauguin: gesto incomprensibile, se non si capisce che lo schizo, mutilando gli altri, mutila se stesso. Qualitativamente parlando, l'ambivalenza ha una portata universale: è un fenomeno tipicamente umano (benché, da un punto di vista quantitativo, le sue manifestazioni siano soggette a variazioni individuali d'intensità).
L'ambivalenza permea anche il pensiero: penso che il mondo abbia un senso e nello stesso tempo dubito di quest'asserzione. Ecco il tema fondamentale che qui cerco di sviluppare. Nel momento in cui penso che il mondo abbia un senso, posso individuarlo nella natura, poiché certi fenomeni sembrano presentarsi con sorprendente uniformità e frequenza, ad incoraggiare una concezione teleologica dell'universo. Poi, un attimo dopo, mi accorgo che il senso non esiste, e sono io ad attribuirlo al mondo. E' solo la scelta, che debbo compiere, a farmi propendere per una soluzione o per l'altra, per un momento o per l'altro. Essa sarà la mia scelta, poiché fonderà il mio mondo (e non il mondo dell'altro, che si sentirà altrettanto legittimato alla sua scelta).
Le contraddizioni sussisteranno anche dopo aver compiuto la scelta: le mie incongruenze, i miei dubbi, continueranno a sussistere. In queste righe, voglio scegliere di aderire a questa proposizione: il mondo non ha senso. Naturalmente, non mi sottrarrò all'ambiguità summenzionata. Mentre effettuo questa scelta, sento insinuarsi in me un dubbio, una tentazione ad effettuare la scelta opposta. E forse potrebbe persino formarsi una terza possibilità, cioè la sospensione del giudizio (epochè).
Siamo certi che i filosofi non ragionino in questi termini? Che anche per loro, dopotutto, non sia tutta questione di scelte? Molti, certamente, credono che le cose non stanno così, e che si possa, adottando certe regole, dare adito al 'discorso fondato'. Anche costoro, però, dovranno venire a patti con le loro contraddizioni. Perché, se non s'accorgono che la loro mente sta prospettando la possibilità di soluzioni opposte a quelle già suggerite, sono semplicemente ciechi. Essi non vogliono prendere atto della multiformità dell'esistenza, d'una natura contraddittoria ed incoerente, che, nonostante cerchino di rintuzzarla, li avvilupperà ugualmente nelle sue spire.
Quando penso di essere riuscito a non contraddirmi, ho soltanto accantonato le ipotesi scomode, i fatti che smentiscono il mio discorso: fatti che conosco, ma dei quali fingo di ignorare l'esistenza. Ogni discorso, se sviluppato in tutti i suoi corollari e le sue conseguenze, riconduce a questo punto-limite: la contraddizione e l'incoerenza, ovvero il venir meno delle premesse iniziali.
La filosofia contemporanea sa di non poter evitare la contraddizione. Da qui la sua lucidità. Paul K. Feyerabend ammette tranquillamente che la sua teoria è incoerente: non è certo con l'ammissione opposta - cioè nascondendosi dietro a un dito - che ci si libera della contraddizione!
Poiché il mio discorso mira ad indicare ed a far vedere, e non a dimostrare alcunché, non mi sembra il caso, per corroborarlo, di addurre esempi storico-filosofici. Si può dire, tuttavia, che il filosofo non s'è liberato dalla contraddizione, ed ha sottoscritto, senza discuterlo, il principio di non contraddizione aristotelico, aderendo alla logica che vi si fonda. Com'è noto, esistono altre logiche: ad es., la logica dialettica, per comodità definita 'hegeliana' (mentre la si potrebbe ugualmente chiamare 'eraclitea' o 'platonica'). Anch'esse, però, ammettono il principio di non contraddizione. Benché ne riconoscano l'essenziale limitatezza, ridimensionandone le pretese e allargando così le possibilità del discorso, non lo invalidano affatto, bensì lo 'incorporano' nella loro struttura.
Hegel è il filosofo che più si preoccupa di fondare razionalmente (cioè a prescindere dalle contraddizioni) il proprio discorso. In lui il principio della razionalità del reale gode del supremo diritto di cittadinanza. Ecco perché Hegel viene eletto a rappresentare una concezione che, malgrado le apparenze, non elimina il principio di non contraddizione.
Anche il nostro discorso
sarà esposto a contraddizioni ed incongruenze: ostili al principio
aristotelico, che troviamo inesaustivo e superfluo, saremo tuttavia costretti
ad usarlo, nel prosieguo dell'esposizione. In ogni caso, date le premesse,
solo il dogmatico potrebbe tacciarci di incorenza.
2. Se la filosofia, come dovrebbe risultare a chiunque, rispecchia il mondo, non può esentarsi dall'accogliere il nonsense dell'universo.
Cosa significa ciò, in concreto? Che tutto avviene senza una causa, anche se possiamo trovarne una a posteriori, quando il fenomeno è già avvenuto. Ogni cosa finisce nel nonsense . I filosofi della scienza dibattono ancora sulla questione 'caso'/'necessità', dimostrando l'interazione dei due termini in ogni fenomeno naturale. A noi interessa invece sottolineare che questo atteggiamento dipende da un atteggiamento sostanzialmente interpretativo, con cui si cerca di render conto una tantum della molteplice ricchezza ed imprevedibilità della realtà. Si consideri il complesso problema dell'evoluzione della specie: non esiste, in realtà, un piano preordinato, nella transizione da una specie ad un'altra, ma soltanto circostanze occasionali (cattività, eventi naturali, ecc.), che poi, una volta impostesi nel processo, mostrano l'apparenza d'un disegno, d'un programma.
Imputare i fenomeni al caso, o alla necessità, o ad entrambi, non risolve la questione. Che ne sappiamo dei fenomeni? Che cos'è l'evoluzione? Ogni teoria filosofica e/o scientifica nasconde qualcosa a sé stessa. E cioè le pecche, i difetti d'un'impostazione razionale puntualmente sconfitta, se confrontata con la realtà vitale della natura. Sosteniamo con ciò che ogni interpretazione del mondo è, per l'appunto, un'interpretazione del mondo: questa proposizione è una tautologia, ma non è inadeguata. C'è voluto Wittgenstein per scoprire che la logica sbocca nella tautologia, e non c'è spiegazione dall'esterno che riesca a rendere conto della complessità del mondo naturale.
Se il mondo è contraddittorio, o imprevedibile, quale margine rimane all'indagine filosofica? Quale può esserne l'ambito? Si può solo stabilire che la contraddittorietà è inevitabile. Questa è la consapevolezza suprema.
Non voglio sostenere una tesi, o un'opinione, che sarebbe ugualmente caratterizzata dall'insopprimibile contraddittorietà: sto solo dicendo che ogni teoria non può che rispecchiare il mondo, ed il mondo è nonsense. Questo è il termine su cui vorrei richiamare l'attenzione, poiché il suo significato è essenziale. Non sto affermando il 'privo di senso', né 'l'ostile al senso': mi servo del termine nonsense unicamente per sottolineare, tramite un referente linguistico, che le cose sono estranee alla logica ermeneutico-epistemica. Il nonsense è il momento del nudo: ad esso dedicherò un'esclusiva attenzione.
Il nudo è il riconoscimento della totale insignificanza del mondo. "Tutto è lì" - questo è il motto del nudo. Del resto, non è che il nudo abbia una parola d'ordine. Le parole del nudo sono piuttosto costellate dal silenzio. Il nudo si esprime, e parla, attraverso il nonsense , che però non è la mancanza di senso.
Il nudo teme di essere occultato. E, di fatto, lo si occulta di continuo, ogni volta che si va in cerca, febbrilmente, di nuove interpretazioni. Lo si occulta, ad es., sostenendo che i fenomeni naturali sono prodotti dall'interazione di caso e necessità. E anche quando si pensa che la constatazione della contraddittorietà del mondo equivalga ad ammettere un elemento situato oltre la contraddittorietà del mondo. A questo punto, il mio discorso potrebbe apparire inintelligibile.
Del resto, poiché esso valica, in un certo senso, la sfera linguistica, non può evitare di esporsi a contraddizioni. Lo abbiamo già visto. Ma questo è il rischio: parlando del nudo ci esponiamo a difficoltà insormontabili. Il dogmatico potrà tranquillamente abbandonarci: non abbiamo bisogno di lui. Chi ricerca una nuova logica, invece, potrà seguirci, perché gli offriamo il nudo. In realtà non stiamo lusingando un ricercatore di questo tipo, perché non gli stiamo offrendo niente. Questi nodi si chiariranno lungo il percorso: per ora possiamo considerarli pietre miliari d'una via itinerante.
Ritornando al nostro punto di partenza, ribadiamo che il mondo è contraddittorio: ciò vuol dire, nei nostri termini, che non ha senso. La contraddizione è l'elemento ostile alla definizione. Il mondo è lì - questo è il contraddittorio, ed il nonsensical , nel contempo. Questi termini, a modo loro e in diversa prospettiva, esprimono il nudo. I fatti avvengono tranquillamente. I fenomeni naturali si snodano davanti a noi in una nudità totale, che non vuol essere incapsulata in un codice. Il codice si può costruire a posteriori, ma non è primario: la priorità del nudo non è ostacolata dal codice.
Il corpo umano ha senso? Sembra una macchina ben costruita, un ingranaggio perfetto, eppure.... La vicinanza dell'esofago e della trachea dovrebbe almeno far intuire una pericolosità intima, che compromette la 'perfezione' dell'ingranaggio. Per chi aderisce al creazionismo, è perlomeno strano che un dio abbia accostato i due organi: era forse un cattivo demiurgo, per dirla con Cioran? O non prevedeva le conseguenze d'un tale accostamento? Comunque sia, il mondo è assurdo: dipana le sue immagini davanti a noi, senza offrire alcun particolare spettacolo, alcuna 'meraviglia'. Noi assistiamo alla rappresentazione, e possiamo solo dire: "questo non ci piace"; "questo sì!" Ma non eliminiamo il nonsense , che regna sovrano. E' il nudo ad avvolgerci: assistiamo ad una proiezione cinematografica non pianificata, a immagini frammentarie che si susseguono senza soluzione di continuità. Eppure noi, critici velleitari, affibbiamo ad esse un senso, cercando di cogliere un significato oltre la visione. E, in un primo tempo, potremmo stabilire che un significato sia assente.
Tuttavia, non si può
asserire che un significato sia assente: esso è il nudo !
Questo tema dovrà essere dibattuto nel corso del libro. Per ora
prendiamo atto della contraddittorietà del mondo: essa, riflettendosi
nella filosofia che la evidenzia, non può che colorirla d'una fondamentale
contraddittorietà. Ma questo discorso ha almeno il pregio di ammettere
a chiare lettere quanto è taciuto dagli inseguitori della verità
inoppugnabile e incontrovertibile.
3. Ogni filosofia è frutto di tendenze pulsionali ed istintive. Il filosofo elabora le sue idee, ovvero le idee d'un nevrotico. Con ciò non vogliamo etichettare ogni teorico come nevrotico, formulando una generalizzazione indebita, ma solo puntualizzare, seguendo Freud, che la differenza tra normalità e nevrosi è solo questione di grado e non di qualità. Quindi, anche il filosofo sarà più o meno nevrotico. E dobbiamo a Freud un'altra importante acquisizione: il filosofo è soprattutto uno psicotico e, ancora più in particolare, un paranoico. In ogni filosofia si nasconde la paranoia: infatti, i metodi che il filosofo ed il paranoico usano nel loro approccio al reale sono affini.
Non c'è mai un momento in cui il filosofo, in virtù di chissà quale privilegio, riesca ad accantonare i propri tratti nevrotici e a partorire un sistema assolutamente 'normale', ossia privo di interferenze caratteriali e soggettive: la 'realtà' è sempre distorta. Kant non avrebbe insistito tanto sulle tavole sinottiche, che aprono alcune sue opere (si veda lo schema complesso della Fondazione della metafisica dei costumi ), se non fosse stato un nevrotico ossessivo. Le sue passeggiate quotidiane ad un'ora prestabilita non sono da disgiungere dalla sua filosofia, ovvero dalla convinzione che il mondo sia un regno di fini, una totalità organizzata. E quante volte il nevrotico ossessivo s'è interrogato sulla morte, o sull'esistenza di Dio, finendo per riconoscere la propria impotenza, nel momento in cui veniva abbandonato dalla sua terribile razionalità?
Il fatto che Kant dichiari che è impossibile dimostrare l'immortalità dell'anima, e possa soltanto postularla, ci sembra proprio il diretto risultato di siffatte meditazioni. Esse nascono dalla tendenza al rimuginare, tipica del nevrotico ossessivo, dalla folie du doute a cui dev'essere ricollegato anche il cogito cartesiano. Perché ricercare una certezza basilare, come Descartes, se non si è afflitti da un'ossessione che ci perseguita, dalla cui tirannia possiamo liberarci soltanto trovando un referente, un elemento che incuta fiducia? L'ossessivo elabora un cerimoniale per proteggersi dalle proprie idee ricorrenti ed accantonare la concomitante angoscia. E il filosofo cartesiano fa la stessa cosa, affidandosi al nume tutelare della razionalità, credendo che sotto la sua egida possa sentirsi protetto.
Si risolve il problema della conoscenza scoprendo una certezza basilare. Che strano! Questo procedimento invalida alla base una filosofia scettica, per la quale non c'è più spazio. Che si debba partire da una certezza ci pare tutt'altro che assodato: si tratta d'una petitio principii bell'è buona! Solo l'ossessivo potrà considerare valido questo principio ed accettarlo dogmaticamente, poiché vi riconoscerà il suo modo di pensare, a cui è nevroticamente affezionato.
Come s'è visto, ogni filosofia deriva dalle proprie pulsioni, da ciò che Freud chiama Trieb . La filosofia contemporanea ha un grande merito: ha evidenziato i fondamenti d'ogni sistema filosofico, riconducendoli alle idiosincrasie personali del suo autore. Non possiamo pretendere che Hegel, come paladino della razionalità esasperata, riconosca questo fatto. Possiamo però rivolgerci a Fichte, per il quale la scelta d'una filosofia dipende dal tipo d'uomo che si è: il dogmatico sceglierà il realismo, il libertario l'idealismo. Benché la realtà storica abbia sconfessato questo principio, esso era epistemologicamente giusto: ogni filosofia si connette alle preferenze personali (per noi: nevrotiche) del suo creatore. E non si tratta solo di scegliere una filosofia piuttosto che un'altra, ma di elaborarne una anziché un'altra, proprio perché si soffre di certe nevrosi anziché di altre. Quanto si sta affermando dovrebbe essere dato per scontato. Come si fa ad ammettere che il filosofo abbia accesso ad una zona preclusa alla nevrosi? Eppure i filosofi si ritengono immuni da certe contaminazioni, e si ritengono i detentori effettivi d'una verità 'normale'. Sono come i religiosi: aderiscono ad una determinata dottrina e credono che il mondo sia veramente come essa lo dipinge.
Su questo terreno, nel misconoscimento della neutralità del filosofo, è forse Novalis, sulla scorta di Fichte, ad essersi spinto più avanti degli altri. Si filosofa quando si vuole, e nella direzione che si vuole, non esistendo un percorso tracciato una volta per tutte. Si filosofa seguendo la propria soggettività, cioè le proprie idiosincrasie ed inclinazioni. E Nietzsche sviluppa gli spunti novalisiani, esasperandone le conclusioni. Il filosofo è l'uomo che pone valori - beninteso a partire dal mondo che egli stesso ha creato, essendo inconcepibile che possa farlo dal mondo d'un altro. Perché non si entra nell'altro, malgrado ogni buona intenzione o velleità. Agli ideologi ciò appare inconcepibile, abbagliati come sono dal solito miraggio della verità assoluta ed incontrovertibile.
E che dire di Kierkegaard, incomprensibile se si mette tra parentesi la sua personalissima e letterariamente feconda nevrosi religiosa? Anche lui era un nevrotico ossessivo, i cui sensi di colpa ne condizionarono l'intera produzione filosofica. Non cerco altri esempi perché ne troverei a iosa: tutti i filosofi, nessuno escluso, potrebbero rientrare nel quadro. Si consideri questo elenco di nomi, tutti caratterizzati dall'inevitabile connubio tra filosofia e vita istintuale: Agostino, Socrate, Tommaso d'Aquino, Spinoza, Kant, Marx, Schopenhauer e Wittgenstein (per limitarci ai più rimarchevoli).
Il filosofo ci presenta
un mondo condizionato dalle sue pulsioni: i suoi dubbi e i suoi timori
(cfr. Kierkegaard) ne impostano la metodologia, stabilendo una tantum
la differenza tra essenziale e secondario (cfr. Cartesio), tra ciò
che è razionalmente dimostrabile e ciò che è solo
postulabile (cfr. Kant), tra dogmatismo e criticismo (cfr. Fichte). Ciò
è ben noto alla filosofia contemporanea, almeno sin dall'opera di
Karl Jaspers, influenzata da Nietzsche (Psychologie der Weltanschauungen
);
tuttavia, alcuni epigoni della certezza assoluta mostrano ancora, e con
violenza, di non tenerne conto. A loro sono dedicate queste annotazioni,
che ad altri appariranno banali o scontate.
4. L'ossessione del nevrotico si evidenzia più che mai in coloro che vogliono fondare un 'sistema filosofico'. Per il nevrotico, il delirio e l'allucinazione sono componenti essenziali dell'interpretazione del mondo: tutto deve quadrare in un insieme coerente, in un quadro organico. Solo così ci si difenderà dagli imprevisti, ossia dalle situazioni che minacciano di invalidare le nostre certezze e di annientare i nostri numi tutelari. Con poche varianti, il discorso è applicabile anche al costruttore di sistemi. Costui è fondamentalmente un pigrone che formula, come già indicato da Nietzsche, uno schema per essere esentato da ulteriori ricerche - per non pensare più, per non pensare ciò che è oltre il pensiero. Torneremo in seguito sulle abitudini che si riflettono sul suo filosofare. Per ora è sufficiente notare che il filosofo adora un idolo particolare, un nume, conscio del fatto che solo così potrà difendersi da situazioni spiacevoli. Diversamente, egli potrebbe trovarsi davanti a circostanze esistenziali disarmanti e inspiegabili. E' per questo che il filosofo sistematico mette le mani avanti, cercando di rifugiarsi in proposizioni e princìpi che gli garantiscano l'incolumità. Questi princìpi sono l'equivalente degli atti rituali compiuti dall'ossessivo per difendersi dall'emersione dei pensieri spiacevoli, ormai rimossi.
In ogni filosofia, cioè in ogni concezione razionale, organica e sistematica della realtà, ci sono elementi indiscutibili ed indimostrabili, che devono essere intesi come assiomi. Si dirà: ciò è perfettamente naturale, poiché anche in matematica si procede in maniera analoga. Questo fatto, anzi, sarebbe particolarmente rilevante per garantire l'affinità della filosofia e della scienza, da un punto di vista strettamente metodologico. Osservando più attentamente le cose, ci accorgiamo che la matematica è un sistema di costruzioni artificiose, cioè l'ennesimo tentativo umano di costruire una rete di convenzioni utili, che garantiscano un orientamento nella realtà. Nessun matematico metterebbe in dubbio il carattere artificiale della scienza a cui aderisce (il che non vuol dire che ne misconosce la validità). Su questo punto, il filosofo ed il matematico presentano atteggiamenti contrastanti: il primo non ammette che il suo sistema sia solo un insieme di convenzioni, più o meno artificiose, tese a rendere conto della realtà. Egli sostiene la validità assoluta del suo sistema, negando quella parziale (mentre il matematico, con buona pace di Pitagora, si limita all'ambito numerico, sapendo di non esaurire la realtà). Il sistema non può essere di applicazione limitata, ma deve includere ogni ambito della realtà (etico, epistemologico, teologico, estetico, ecc.). I medesimi schemi teoretici dovranno essere applicati ai più diversi ambiti, e risultare validi in ogni contesto. Già da questa proposizione si dovrebbe avvertire la gravità del delirio.
Ma torniamo al tarlo principale del sistema: i princìpi primi, che si suppongono incrollabili. Benché l'analogia con la matematica sia venuta meno, il nostro teoreta continua a credere che questi princìpi siano necessari all'economia del sistema, e continua ad asserirne la scientificità, in un modo o nell'altro. Tra loro, i sistematici giustificano completamente questi princìpi: in base alle loro convenzioni non scritte, ogni elemento può giustificarne e dimostrarne un altro, e il processo non può durare in eterno. E' come se ammettessero la possibilità d'un ragionamento spaziale, che si muove in un percorso predeterminato. Il ragionamento trova un punto limite, e si ferma.
A nostro avviso, la dichiarazione di scientificità dei sistematici evidenzia, in realtà, l'irrazionalità fondamentale da cui vorrebbero essere esentati. Tale dichiarazione - se sottoscritta letteralmente - equivale infatti ad ammettere che il pensiero ha un limite e che il ragionamento, ad un certo punto, deve cedere le armi; questo punto, inoltre, lungi dall'essere secondario, rappresenta anzi il vertice, cioè l'essenza, del mondo e del sistema. I sistematici cadono, evidentemente, nell'irrazionalità che cercano di esorcizzare.
"Forse non tutti i sistematici ammettono l'esistenza degli assiomi" - potrebbe sostenere un ipotetico obiettore. Cosa rispondergli? Anche in questo caso pochi riferimenti basteranno ad illustrare un quadro assai più ampio.
Si consideri il motore immobile di Aristotele (che eleggiamo primo sistematico del pensiero occidentale), punto finale d'un itinerario logico che sbocca nell'inintelligibilità: elemento che permette il movimento (e la logica), ma non ne viene contaminato. Divertente pensare che per Dio (questo è il vero nome del motore - nome inflazionato che non significa nulla) il principio di contraddizione non abbia valore: divertente pensare Dio come un superman extra-logico.
E si consideri, sempre in ambito sistematico ma in un diverso contesto storico, l'Io puro fichtiano, che è perché è . Si evidenzia così che la tautologia, lungi dall'essere un espediente discorsivo di quart'ordine, costituisce invece la quintessenza della teoria. Si dirà: l'Io fichtiano non è dimostrabile perché, se lo fosse, non sarebbe tale, cioè non sarebbe libero - solo per suo tramite ha luogo l'azione, e dunque il pensare, ecc. Quest'argomentazione ha senso all'interno del sistema fichtiano. Se però vi riflettiamo sopra, arriviamo a questa singolare conclusione: se l'Io fosse dimostrabile, non sarebbe Io... E allora? Cosa si perde se non è Io? Cosa si perde negando la primarietà dell'azione? A questo punto, ad essere messo in discussione sarebbe solo il sistema fichtiano: ben poca cosa, si dirà allora, ne facciamo volentieri a meno. Possiamo rinunciare ad un oggetto la cui unica utilità consiste nel preservare se stesso.
Lo stesso discorso vale per i princìpi primi espressi dagli altri sistematici: se rinunciamo ad ammetterli (cosa peraltro assai semplice, poiché sono indimostrabili), viene a cadere soltanto il sistema che sorreggono. Poiché non perdiamo altro, siamo ben lieti di vederli crollare. Che cos'è, ad es., la volontà di Schopenhauer? Non è altro che il tentativo di giustificare l'ingiustificabile, ossia di trovare un referente ultimo a tutti i costi. In realtà, lo si potrebbe trovare solo uscendo dalla razionalità, ma ciò è impossibile, per il filosofo di Danzica: infatti, Schopenhauer può soltanto postularne l'esistenza. Del resto, contrariamente alla dottrina fichtiana, la presenza di quest'elemento non è indispensabile al sistema: se ne potrebbe benissimo fare a meno. Se la razionalità e il principio di ragion sufficiente vengono condannati, in termini schopenhaueriani, è contraddittorio invocare l'esistenza d'un principio primo, cioè della volontà. Come Nietzsche fa notare, la volontà è solo un'incognita: è l'estrema risorsa del sistematico che, cercando di fondare a tutti i costi una visione coerente della realtà, si affida ad un principio ultimo di legittimazione. Poiché però quest'ultimo non può essere razionalmente fondato, ma solo postulato, smentisce la stessa funzione che dovrebbe svolgere. L'assioma ultimo risulta garanzia di irrazionalità e di incoerenza - elementi che il sistematico cerca di esorcizzare, e che invece, rivelandone l'impotenza, gli ritornano a mo' di boomerang. Se abbiamo insistito su Schopenhauer è solo perché la sua posizione è assai ambigua: per certi versi, cerca di fondare una nuova razionalità, minando la vecchia, per altri si riaffida esplicitamente a quest'ultima ed ai soliti, logori schemi di coloro che cercano di esorcizzare la nudità dell'esistenza.
Quindi, il fatto che il sistematico ricorra a princìpi indimostrabili, come ultima scappatoia, anziché garantire la coerenza della sua impostazione speculativa, ne accentua i limiti. Infatti, è lo stesso teoreta a riconoscere, in questo modo, che il pensiero è limitato e l'essenziale, in ogni visione del mondo, è un elemento ultimo, l'assioma, che sfugge alla dimostrazione (sia esso il motore immobile, l'Io puro o la volontà). A questo punto, cadendo questi princìpi, viene meno anche il sistema su cui si fondano. In realtà, sono essi a fondare il sistema: in loro assenza, ogni discorso sarebbe un mero flatus vocis . Questi princìpi dovrebbero essere la garanzia della dimostrazione, e invece sono indimostrabili; il discorso poggia su di loro, ed essi, per definizione e per vocazione, gli sfuggono. E' evidente, a questo punto, che sono superflui.
5. Come s'è visto, nella visione filosofica tradizionale, si cerca di esorcizzare il nonsense . Ogni filosofo, e soprattutto il sistematico, rivendica diritto di cittadinanza in una terra di nessuno (no man's land ), al riparo dalle limitazioni abituali del pensiero (che, pure, vengono denunciate). Ogni filosofo pretende di eliminare le contraddizioni e di fondare un linguaggio coerente: mera illusione, poiché siamo sempre frammentati e divisi, e il pensiero non è mai strutturato in maniera unitaria. Si coltivano sempre molteplici punti di vista: se uno prevale sull'altro è solo perché abbiamo deciso che debba essere così. Fingiamo di non accorgerci che le argomentazioni contrapposte alle nostre sono a loro volta plausibili, e coltiviamo l'illusione che soltanto certe opinioni siano fondate. Ci rifacciamo ad uno schema già presupposto, in base al quale poter decodificare i fenomeni del mondo. In realtà la contraddizione è inevitabile, e si cela in ogni ambito del discorso, in ogni allusione e in ogni minimo frammento del ragionamento.
Altra illusione: crediamo di poter mettere a tacere le tendenze pulsionali che, incessantemente, agiscono e lottano nel nostro intimo, costringendoci, di volta in volta, ad allucinare la realtà coi nostri deliri speculativi. Anche in questo caso, non si capisce in virtù di quali diritti, viene rivendicato l'accesso ad una no man's land in cui poter vedere il mondo come veramente è, a prescindere dalla lente deformante delle nostre passioni.
Anche Kant, il cui apporto al pensiero filosofico è assai vario, problematico e non risolutorio, non esce da questa impasse , anzi costituisce un esempio chiarificante della tipologia del teoreta. Egli nota, in un primo tempo, che la conoscenza non può prescindere dal soggetto, cioè dall' 'io penso', elemento che s'incarica di elaborare i dati empirici e mentali. Quindi la no man's land summenzionata non avrebbe ragione di essere: infatti, è definita Unding ('non cosa') o Ding-an-Sich ('cosa in sé'), cioè in termini puramente ipotetici, che non preludono a realtà autenticamente esistenti. Tuttavia, ad un certo punto del suo iter teoretico, non si sa bene in virtù di quale influsso dogmatico, il filosofo di Königsberg ritiene necessario postulare l'esistenza di questa realtà, con gli inevitabili corollari teoretici che vi si correlano (Dio, l'immortalità dell'anima, ecc.). Quest'atteggiamento è illustrativo della tendenza del sistematico. Kant rivendica l'accesso ad una terra di nessuno in cui, a differenza dei comuni mortali, è stato ammesso per ricevere la rivelazione, e ora sa (in questo caso, che Dio esiste). In un primo tempo, il filosofo di Königsberg aveva accentuato i limiti della conoscenza; ora è lui stesso ad oltrepassarli, autolegittimando il proprio atteggiamento, e predicando la validità di assiomi ultimi, ottenuti chissà come. Il processo è compiuto: la precedente costruzione è invalidata, poiché ora hanno valore i princìpi primi - un valore primario - e ad essi, non all'assunto dei limiti della conoscenza, si deve prestar fede. Per Kant questi princìpi sono Dio, la libertà e l'anima. Altri teorici ne focalizzeranno altri. In ogni caso, però, è sempre in azione lo stesso principio: ci s'affida agli assiomi e lo schema, faticosamente elaborato, finisce per dipenderne totalmente, quanto alla propria legittimazione.
Dal canto nostro ci prospettiamo un modo diverso di considerare le cose: i tentativi di certi filosofi indicano a chiare lettere che la contraddizione si annida in ogni sistema e che, soprattutto, non può essere eliminata. L'essenza del sistema deve riflettersi nel mondo: questa la vocazione intima di ogni filosofo sistematico. Se il sistema è contraddittorio per natura, l'essenza del mondo sarà dunque contraddittoria. Siamo giunti alla stessa conclusione del paragrafo 2, in cui invece partivamo dall'evidente assurdità dei fenomeni e dalla loro tangibile contraddittorietà.
Il fatto che si giunga ogni volta all'assurdo, malgrado le premesse 'razionali', o forse proprio grazie ad esse (si ricordi il discorso sui princìpi primi), spinge ad ammettere la portata nonsensical della realtà. Col termine inglese abbiamo indicato la nudità dell'esistenza, l'opacità essenziale finalmente svelata, una volta che la contraddittorietà del mondo venga pienamente attinta.
Questa nudità soffocherebbe,
se costretta nelle maglie d'un sistema, esorcizzata e privata delle sue
caratteristiche nonsensical . Poiché, in tutt'altra prospettiva,
la poniamo al centro del nostro discorso, il prossimo passo consisterà
nell'individuare i corollari delle proposizioni finora stabilite, che qui
riassumiamo:
1. E' impossibile formulare una filosofia esente da contraddizioni.
2. La filosofia rispecchia il mondo ed il mondo è nonsense .
3. Ogni filosofia è frutto di tendenze pulsionali o istintive.
4. I paradigmi che si celano
in ogni sistema filosofico, costituendone il fulcro, sono indimostrabili
ed oltrepassano lo stesso ambito razionale che pretendono di garantire.
Con questi dati saremo,
confortevolmente, guidati nel percorso.