Riflessioni sulla natura della guerra e sui modi di lottare contro di essa

 

di Francesco Ricci

 

False e vere ragioni della guerra

La giustificazione ufficiale dell'aggressione fornita da Clinton e argomentata dagli esponenti socialdemocratici europei (Blair, Jospin, Schroeder, D'Alema) vorrebbe le forze Nato impegnate a bombardare e distruggere le forze militari e le infrastrutture civili e industriali della Repubblica federativa jugoslava (Rfj) allo scopo di bloccare la repressione serba contro gli albanesi del Kosovo. Dopo l'Irak, così, tornano le bombe "intelligenti" e "umanitarie", anche se questa volta l'imperialismo fa a meno della copertura dell'Onu.

Sono tuttavia sufficienti le notizie riportate da tutti i mass media per fare piazza pulita di queste falsità: non solo i bombardamenti sempre più colpiscono le periferie e i quartieri popolari di Belgrado, di Pristina e delle altre principali città della Rfj e del Kosovo, ma tra le vittime ci sono, ovviamente, gli stessi profughi kosovari.

Di più: lungi dal "proteggere" la popolazione albanese del Kosovo dalla repressione di Belgrado, l'aggressione della Nato ha dato il destro a Milosevic per intensificare l'offensiva contro l'Uck e gli stessi civili albanesi, costretti a una fuga disperata verso l'Albania, la Macedonia, il Montenegro.

In realtà l'aggressione della Nato contro la Federazione jugoslava mira ad eliminare, o almeno a piegare, il regime di Milosevic, ultimo elemento non pienamente controllabile da parte dell'imperialismo rimasto nella regione balcanica.

Il rifiuto di Milosevic di accettare la "pace" imperialista di Rambouillet - che prevede di fatto l'instaurazione di un protettorato Nato in Kosovo - ha costituito contemporaneamente una sfida inaccettabile e un pretesto per un rafforzamento della presenza imperialista nella zona. L'unico scopo dei bombardamenti e di ciò che potrebbe seguirne è proprio questo: consentire una presenza militare della Nato nel cuore della Rfj e dunque dei Balcani.

Tutto questo si colloca nello scenario che vede in atto già da molti anni una competizione tutt'altro che indolore fra i diversi Paesi europei e gli Usa per l'annessione alle rispettive sfere di influenza degli spezzoni della ex Jugoslavia, sullo sfondo della gara più ampia per la supremazia mondiale fra i tre poli imperialisti - Usa, Europa, Giappone - dopo la scomparsa del comune antagonista "sovietico".

La disgregazione della Jugoslavia e la restaurazione capitalistica

Non si possono comprendere le vicende di questi giorni se non si tiene conto del contesto in cui è avvenuta la disgregazione della Jugoslavia.

La disgregazione della Jugoslavia e il decennale conflitto tra le regioni che componevano lo Stato titoista è il prodotto di un combinarsi di cause interdipendenti:

• il crollo dello stalinismo "a destra", cioè in assenza di una riconquista da parte del proletariato, attraverso una rivoluzione politica, del potere usurpato dalla burocrazia;

• l'assenza di una direzione rivoluzionaria in grado di prospettare alle masse jugoslave questo sbocco; assenza che a sua volta era anche il frutto della liquidazione fisica, sin dagli anni Trenta, di interi gruppi dirigenti e di tutti i quadri della sinistra comunista antistalinista;

• il risorgere delle tensioni interetniche; tensioni che hanno radici storiche, già utilizzate dallo stalinismo negli anni Trenta per contrastare ogni lotta antiburocratica, alimentate durante la seconda guerra mondiale dagli occupanti nazifascisti come strumento di divisione e dominio del Paese, infine recuperate dagli ex generali di Tito impegnati, dopo il crollo dell'Urss, a spartirsi la Jugoslavia quali agenti della restaurazione capitalistica, in alleanza con questo o quel settore dell'imperialismo.

Anche in Jugoslavia - come negli altri Paesi del cosiddetto "socialismo reale" - è avvenuto quello che Trotsky e l'opposizione di sinistra allo stalinismo avevano preventivato sin dagli anni Trenta: "O la classe operaia schiaccerà la burocrazia e si aprirà la via verso il socialismo, o la burocrazia, divenendo sempre di più l'organo della borghesia mondiale nello Stato operaio, distruggerà le nuove forme di proprietà e respingerà il Paese nel capitalismo".

Lo Stato jugoslavo, nato dalla lotta armata di resistenza antifascista guidata dal Pcj di Tito, nasceva già deformato. Il titoismo non costituì mai, infatti, una vera alternativa comunista allo stalinismo. Anche quando ruppe con Mosca, Tito lo fece in un'ottica nazionalistica piuttosto che antiburocratica, accettando pienamente l'impostazione del "socialismo in un Paese solo".

Malgrado tutto ciò, e con gli evidenti limiti della natura burocratica dello Stato, il regime titoista - anche per consolidare il proprio dominio - si adoperò per sopire i conflitti fra le nazionalità, contrastare i nazionalismi e promuovere la formazione di un Paese interetnico. La costituzione Jugoslava del '46 garantiva ampi diritti alle minoranze (per quanto riguarda specificamente il Kosovo vedi in questo dossier l'ultimo capitolo dell'articolo "Jugoslavia: dallo stalinismo alla restaurazione del capitalismo").

Nel 1989 Milosevic cancellò questa situazione (e anche lo status di autonomia concesso al Kosovo nel 1974). Nel contesto della guerra tra i diversi spezzoni della ex Jugoslavia, i revanscismi nazionalistici e i conflitti interetnici divennero il fuoco su cui molti hanno soffiato: le diverse frazioni burocratiche impegnate a riciclarsi come classi dirigenti dei nuovi Stati nati dalla disintegrazione della federazione; i governi europei impegnati a provocare e a trar profitto da questa disintegrazione; altri avventurieri come l'ex presidente albanese Berisha, che ha incoraggiato le rivendicazioni separatiste in Kosovo in nome del progetto di una "grande Albania" contrapposto al progetto di "grande Serbia" di Milosevic.

Gli accordi di Dayton del 1995 - che hanno provvisoriamente posto fine ai massacri in Bosnia imponendo il controllo imperialista nella regione - hanno semplicemente rimosso la questione del Kosovo, cioè di un territorio incluso come provincia serba nella nuova Repubblica federativa jugoslava, pur essendo popolato per quasi il 90% da albanesi (ai quali è negato ogni più elementare diritto).

Il resto è storia di questi ultimi anni (su cui rimandiamo per un approfondimento agli altri articoli in questo dossier): con la lotta del popolo kosovaro puntualmente tradita prima dalla Lega democratica di Rugova e, più recentemente, dalla maggioranza del gruppo dirigente dell'Uck, che ha oggi scelto l'alleanza con l'imperialismo, nella vana illusione che questo presunto "amico" voglia sostenere l'autodeterminazione del Kosovo.

L'imperialismo europeo e italiano e il ruolo delle socialdemocrazie

Contrariamente al tentativo della maggioranza del gruppo dirigente del Prc di accreditare una versione che vedrebbe l'Unione europea e il governo italiano "subalterni" e "incapaci di un ruolo autonomo" dagli Usa, tutti i governi di centrosinistra e di "sinistra" europei si sono schierati decisamente a favore dell'aggressione, partecipandovi direttamente o indirettamente. I parziali distinguo dagli Usa non mostrano eventuali scrupoli pacifisti dell'Europa ma sono il prodotto visibile del conflitto sotterraneo, che contrappone i diversi poli imperialisti in lotta tra loro e al loro interno per guadagnare un ruolo primario in questa guerra e negli equilibri che ne usciranno.

Così anche il governo europeo più "avanzato" (secondo Bertinotti), cioè quello di Jospin, ha dichiarato la propria "piena adesione" al conflitto in corso. E in Italia i richiami da parte di lucidi commentatori borghesi (ad es. Lucio Caracciolo sulla "Repubblica") a un "maggior ruolo della diplomazia" non costituiscono obiezioni all'uso indiscriminato dei bombardamenti, ma sollecitazioni al governo D'Alema ad occupare senza ritardi il proscenio nel massacro, per garantire alla borghesia italiana un ulteriore rafforzamento sullo scacchiere internazionale.

La competizione interimperialista avviene dunque tra gli Usa che vogliono rafforzare la loro presenza nei Balcani, limitando quella europea; l'Italia, che vuole rafforzare il proprio ruolo che ha già visto una stagione di rinnovato protagonismo col governo Prodi e con il soffocamento della rivoluzione albanese nel 1997 e l'instaurazione di un protettorato italiano in Albania; la Germania, che dopo aver assimilato la Croazia vuole ora eliminare definitivamente l'ostacolo serbo alla propria espansione nell'area; la Francia, che per anni ha armato Milosevic ma che ora è intenzionata a partecipare alla sua distruzione per spartirsi con gli altri il bottino di guerra.

Si conferma dunque il ruolo delle socialdemocrazie nella costruzione di un polo imperialista europeo in competizione con gli Usa e il Giappone: ed appare tanto più grottesca ogni richiesta del Prc perché "l'Europa faccia sentire la sua voce". La voce dell'Europa è nel coro dei massacratori, canta solo col sibilo delle bombe!

Le stesse ali "sinistre" dei vari governi (come la pattuglia ministeriale di Cossutta o i Verdi di Manconi, che parla di "saper fare politica in tempo di guerra") si limitano a voltare la testa dall'altra parte e accampano pretesti risibili pur di salvare contemporaneamente l'anima e la poltrona ministeriale. Significativa in proposito la "doppiezza" del Pcf di Hue che mentre partecipa alle manifestazioni di piazza contro la guerra trova nuovi motivi "per un rinnovato sostegno al governo Jospin".

L'inconsistente pacifismo della maggioranza dirigente del Prc

Se va riconosciuto al Prc nel suo insieme la capacità di una immediata mobilitazione contro la guerra, è necessario sottolineare che ancora una volta ciò avviene con pesanti limiti che inficiano l'intera posizione: limiti determinati dalla posizione della maggioranza del gruppo dirigente alla disperata ricerca di un modello europeo neokeynesiano (alla Jospin) da contrapporre al liberismo temperato.

Ecco allora che negli interventi del compagno Bertinotti e nelle prese di posizione della segreteria nazionale si tenta di fare una impossibile distinzione nel campo imperialista tra "buoni" e "cattivi", addebitando ogni colpa al "gendarme Usa", mentre l'Europa sarebbe stata in qualche modo coinvolta contro la sua volontà e i suoi interessi (magari per colpa dell'ala "cattiva" della socialdemocrazia, quella di Blair). Si parla di "servilismo dell'Europa" verso la "guerra degli americani", di "Europa nelle mani del generale Clark" ecc: cercando di accreditare l'analisi di una guerra non voluta, subita dai governi europei, succubi (e quindi emendabili e come sempre passibili di una "svolta" capace di ridare "un ruolo autonomo all'Europa").

La realtà dei fatti è ben diversa. Altro che subalternità europea! Fin dal dicembre scorso, nell'incontro di St. Malò fra Blair e Jospin è stata posta l'esigenza di fare rapidi passi verso la costruzione di strutture militari europee, indipendenti dagli Usa, e si è pure parlato della necessità di arrivare a costruire "uno stato maggiore militare europeo" per contendere la supremazia agli Usa anche sul terreno militare. Non è un caso quindi che i primi a parlare di un intervento via terra in Kosovo siano stati i consiglieri di Jospin. Possiamo chiedere: perché il partito non estende al Pcf l'invito che ha rivolto a Cossutta di togliere il sostegno ai governi che fanno la guerra? Forse il governo Jospin resta ancora un modello di riferimento? E' ovvio che non si può pensare di cavarsela, come ha fatto Paolo Ferrero su "Liberazione", parlando di una "vittoria della linea Blair contro quella Jospin": l'alternatività strategica di Blair e Jospin non è mai esistita (se non nella testa di qualche compagno del gruppo dirigente del partito). La guerra è "la continuazione della politica con altri mezzi": i governi di centrosinistra o di "sinistra" che portano avanti nei rispettivi Paesi programmi anti-operai, sono oggi i curatori degli interessi delle loro borghesie anche all'estero.

Ad una analisi sbagliata si accompagna una prospettiva vaga. La soluzione indicata per la vicenda balcanica consiste nell'invocare l'intervento dell'Onu. Come sempre, manca la più elementare analisi di classe della natura e del ruolo di quel "covo di briganti imperialisti" (Lenin) che è l'Onu, degna erede della Società delle Nazioni nata nel 1919 che non impedì nessun conflitto, fallì clamorosamente davanti alla Seconda guerra mondiale e coprì invece le imprese imperialistiche di Mussolini in Africa. Un'organizzazione alla quale la Russia di Lenin non volle mai aderire (fu l'Urss ormai nelle mani di Stalin a aderirvi, in un'ottica di dialogo con l'imperialismo "democratico"). Una organizzazione che oggi porta la responsabilità primaria per quell'embargo all'Irak che ha già provocato un milione e seicentomila morti; e che ha perpetrato con i suoi caschi blu gli stupri in Bosnia e in Somalia. A differenza di quello che ha affermato Bertinotti, l'Onu non è affatto "rimasta in silenzio" di fronte all'aggressione della Nato: il segretario generale Kofi Annan ha parlato con chiarezza di "un intervento legittimo, per la pace". Della copertura dell'Onu, d'altra parte, nel contesto attuale, dopo la scomparsa dell'Urss, l'imperialismo non ha bisogno, potendosi permettere di ricorrere direttamente alla forza senza bisogno di altre coperture o di richiami a una inconsistente "legalità internazionale".

Ma la posizione della maggioranza del gruppo dirigente del partito ignora questi elementi evidenti e fa più affidamento sulla diplomazia borghese che sulla mobilitazione internazionale di classe. Fino ad indicare come prospettiva di soluzione dei conflitti balcanici una "conferenza internazionale per l'integrazione (sic) dell'area balcanica in una Europa comune e democratica". Che equivale ad invitare a pranzo i lupi capitalisti, sollecitarli a fare... quello che già sanno ben fare da soli.

Quale autodeterminazione per i popoli dei Balcani?

Paradossalmente oggi quasi nessuno (né i falsi amici imperialisti, né chi da sinistra si oppone alla guerra) riconosce il diritto del popolo kosovaro all'autodeterminazione (dunque anche all'indipendenza). Spesso anzi si preferisce parlare di "autonomia" perché "altrimenti sarebbe il caos". Eppure la posizione classica, l'abc del comunismo parte esattamente dal ragionamento opposto. Così ad esempio ragionava Lenin (in La rivoluzione socialista e il diritto delle nazioni all'autodecisione, 1916): "Ovviamente non soltanto il diritto delle nazioni all'autodecisione, ma tutte le rivendicazioni essenziali della democrazia politica sono "realizzabili" nell'epoca imperialista soltanto in modo incompleto, deformato (...). Ma da questo non deriva affatto che la socialdemocrazia dovrebbe rinunciare alla lotta immediata e decisa per tutte queste rivendicazioni (...) attirando le masse alla lotta attiva, allargando e rinfocolando la lotta per ogni rivendicazione democratica fondamentale sino all'attivazione diretta del proletariato contro la borghesia, cioè sino alla rivoluzione socialista che espropria la borghesia". Questa posizione, crediamo, resta ancora oggi quella da cui partire, Ciò significa riconoscere a tutti i popoli jugoslavi, compreso il popolo kosovaro, il diritto all'autodeterminazione. Diritto rivendicato originariamente dal movimento comunista jugoslavo che si rifiutò di avvalorare i confini artificiali costruiti dagli imperialisti dopo le guerre balcaniche del 1912-13 e dopo la prima guerra mondiale. Diritto che fu riaffermato dallo stesso movimento partigiano nel corso della guerra antifascista (conferenza partigiana del 1944) che indicava tra l'altro la prospettiva di riunificazione del Kosovo con l'Albania, ipotesi che tramontò definitivamente con la caduta del progetto di una federazione balcanica —sostenuto da Tito e osteggiato da Stalin - a causa della rottura fra la Jugoslavia e l'Urss nel 1948.

Fermo restando che il diritto all'autodeterminazione è per noi subordinato alla difesa contro l'imperialismo, non si tratta di contrapporre sterilmente le rivendicazioni nazionali a quelle di classe, ma di sviluppare dialetticamente le une nelle altre. Il che significa dire chiaramente che i diritti nazionali potranno trovare soddisfazione solo al di fuori di ogni ingerenza dell'imperialismo, in una ritrovata unità del proletariato dei diversi Stati balcanici, al di là delle differenti etnie, contro le proprie classi dominanti e contro l'imperialismo, nella lotta per l'unica soluzione possibile dei conflitti nell'intera area: una federazione socialista dei Balcani.

 

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Ultimo aggiornamento: 30 maggio 1999.

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