Jugoslavia: dallo stalinismo alla restaurazione del capitalismo: una cronologia ragionata

 

Schede a cura di Alberto Madoglio e Francesco Ricci

1 - Come Stalin e Tito eliminarono la sinistra del Pcj (anni venti-trenta)

Fin dalla sua nascita il Pcj fu attraversato da una intensa lotta di frazione nella quale, secondo Lenin, emergeva una componente del partito che aveva aderito "solo a parole" al programma dell'Internazionale Comunista. Al III congresso del partito (1926) l'Internazionale in via di stalinizzazione appoggiò appunto questa componente di destra interna, guidata dal nazionalista serbo Sima Markovic. Ma lo scontro nel partito non cessò e nel 1927 la sinistra internazionalista riuscì a prevalere e a sostituire il segretario con un proprio dirigente, Djuro Tzvjijc. L'IC non apprezzò il cambiamento e incaricò Bucharin di cercare di capovolgere la situazione, imponendo una direzione più "affidabile". Appoggiandosi a un giovane dirigente, Josip Broz (Tito), Bucharin riuscì dopo una serie di manovre a sciogliere la direzione nazionale in mano alla sinistra e a imporre al partito un nuovo gruppo dirigente forgiato appositamente a Mosca e guidato da Djakovic.

Mentre la sinistra del Pcj aveva sempre combattuto il nazionalismo granserbo di Markovic in nome dell'internazionalismo, il nuovo gruppo dirigente selezionato da Bucharin riutilizzò i diversi sciovinismi per liquidare prima la sinistra interna e, al congresso del 1928 (Dresda), la destra filoserba di Markovic, sostenendo le tendenze filo-croate.

Dal 1928, in seguito all'instaurazione di un regime bonapartista, il Pcj fu messo fuorilegge e diversi suoi dirigenti furono incarcerati o assassinati. Tra le vittime anche il buchariniano Djakovic che fu sostituito da Milan Gorkic, membro della medesima tendenza, che assunse la guida del partito in clandestinità. Negli anni successivi il Pcj seguì la svolta ultrasinistra dell'IC di Stalin, teorizzando l'imminenza della rivoluzione democratico-borghese come "prima tappa della rivoluzione socialista". Una linea avventurista che mandò allo sbaraglio decine di quadri. Intanto a Mosca, presso la scuola del Pcj, nasceva una nuova opposizione di sinistra guidata dai trotskisti e i cui dirigenti principali erano Ante Ciliga, uno dei fondatori del partito, Draghic, Dedic, Zankov, Glibovsky. Dopo una breve attività il gruppo fu sciolto dagli stalinisti con il ricorso ad arresti, confino in Siberia e pallottole alla nuca. Dei dirigenti solo Ciliga si salvò riparando all'estero.

In queste vicende si distinse per il suo zelo Tito. Questo "autentico termidoriano" (secondo l'espressione di Ciliga) appoggiò le epurazioni nel Pcj del 1937-1938, guadagnandosi così l'incarico di guidare ciò che restava del partito, ormai privato di tutto il gruppo fondatore. Fu lo stesso Tito ad ammettere che "centinaia di comunisti" erano stati "annientati fisicamente" durante le purghe staliniane (v. Questions actuelles du socialisme, 1949, in R. Mieli, Togliatti 1937, Rizzoli, '88). Ma fece queste dichiarazioni solo dopo la rottura con Mosca nel 1948, scaricando tutte le responsabilità su Stalin. Sul suo ruolo in quegli anni, Tito ha sempre glissato. Così come ha sempre preferito non ricordare che tra i militanti dell'opposizione di sinistra eliminati vi era anche sua moglie, Pelagea Denissova Begovssova, arrestata a Mosca nel '35 sotto i suoi occhi e scomparsa in qualche sotterraneo della Gpu.

Una buona ricostruzione di queste vicende si trova in A. Ciliga, Come Tito si impadronì del Pcj, Quaderni P. Tresso n. 12, febbraio 1989.

2 - La resistenza, lo strappo con Mosca e la morte di Tito

Il 6 aprile 1941 le truppe dell'Asse invasero la Jugoslavia, dando inizio all'occupazione del Paese che venne diviso tra Germania, Italia e Bulgaria. La Serbia vide ridotti i propri confini, mentre il governo collaborazionista croato di Ante Pavelic venne ricompensato delle perdite territoriali a favore degli italiani con l'annessione della Bosnia. In una prima fase il Pcj, seguendo le direttive di Mosca, adottò una posizione di non intervento nella guerra imperialista. Ma dopo l'attacco della Germania all'Urss mutò atteggiamento, iniziando la lotta antifascista. Una lotta che, secondo le direttive di Mosca, avrebbe dovuto auto-limitarsi alla liberazione nazionale, senza trasformarsi in rivoluzione socialista. In quest'ottica i comunisti cercarono degli accordi anche con i partigiani filo-monarchici di Mihailovich.

Nell'estate del 1941 i partigiani di Tito conquistarono momentaneamente gran parte del territorio serbo, ma furono ricacciati in Bosnia dalle truppe tedesche. In Bosnia i gruppi di Tito si riorganizzarono e le formazioni partigiane arrivarono a contare diverse migliaia di combattenti di tutte le nazionalità.

Nel novembre del '42 a Bihac venne fondato il Consiglio antifascista di liberazione popolare della Jugoslavia (Avnoj) che proclamava nel suo documento programmatico l'inviolabilità della proprietà privata.

Nel 1943 la disfatta italiana e l'armistizio con gli Alleati (l'8 settembre) ebbero ripercussioni in Jugoslavia: i gruppi fascisti croati si dissolsero mentre la lotta partigiana riprese vigore. Nel novembre di quell'anno l'Avnoj costituì un governo provvisorio con Tito primo ministro. Dopo la sconfitta, nel '44, di un tentativo di Mihailovich e del governo collaborazionista serbo di salvare la monarchia, le truppe dell'esercito popolare e dell'Armata rossa entrarono (in novembre) a Belgrado. Nel '45 anche la Croazia venne liberata.

La guerra si concluse dunque con i comunisti di Tito che controllando l'intero paese iniziarono le confische dei beni dei collaborazionisti, ma anche la nazionalizzazione delle principali industrie e delle banche nonché la riforma agraria.

Era la dinamica della lotta di liberazione che aveva assunto un carattere di lotta di classe contro la borghesia scavalcando nei fatti le decisioni della burocrazia moscovita e gli stessi accordi di Yalta tra Stalin e l'imperialismo "democratico" - che prevedevano una spartizione della Jugoslavia tra i due blocchi.

L'11 novembre del '45 le elezioni confermarono la vittoria del fronte popolare guidato da Tito e diedero vita alla repubblica federale. Nasceva così uno Stato operaio deformato in cui gli operai rimarranno politicamente espropriati nonostante la collettivizzazione e una pianificazione (burocratica) dell'economia. Nel 1947 venne adottato il primo piano quinquennale che prevedeva l'industrializzazione, l'ammodernamento dell'agricoltura e una sua spinta verso la socializzazione.

Ma la burocrazia stalinista russa non poteva accettare questa oggettiva infrazione al suo programma di "socialismo in un Paese solo", cioè di limitazione e contrasto della rivoluzione in altri Paesi: l'esempio Jugoslavo poteva essere contagioso: e nuove rivoluzioni socialiste in altri Paesi avrebbero fatto vacillare il dominio burocratico e i privilegi di questa casta. Per questi motivi il 28 giugno del '48 il Pcj "ribelle" venne espulso dal Cominform e i suoi dirigenti furono accusati di "tradimento". La scomunica di Tito faceva seguito a un fallito colpo di stato organizzato da Stalin in collaborazione col capo di stato maggiore jugoslavo, Yovanovich.

La "normalizzazione" stalinista si compiva anche in Albania dove Stalin sosteneva la minoranza del Pca (Enver Hoxha) contro il principale dirigente, Koci Xoxe favorevole a una Federazione socialista dei Balcani includente l'Albania. La fucilazione di Xoxe e l'epurazione avvenuta nel '49 consegnavano il partito comunista albanese nelle mani del fidato uomo di Mosca, Hoxha, che rompeva immediatamente con Tito.

L'espulsione della Jugoslavia dal "blocco sovietico", con la conseguente sospensione degli aiuti economici dall'Urss, favorirono l'apertura di relazioni economiche con i Paesi imperialisti.

Nel 1953 venne abbandonata la politica di collettivizzazione dell'agricoltura e iniziò quel processo di decentramento politico ed economico che, sotto il nome di "autogestione operaia", segnava in realtà l'abbandono della pianificazione centralizzata.

Dagli anni settanta la politica di accettazione dei meccanismi di mercato divenne esplicita, e con essa l'accentuarsi delle disparità economica tra gli Stati. La morte di Tito nel 1980 impresse una accelerazione a questo processo. Con una inflazione elevatissima e col debito estero alle stelle (20 miliardi di dollari) la situazione si aggravava e il governo decise la chiusura delle aziende in crisi e (nel 1987) il blocco per nove mesi dei salari.

La costituzione, modificata nell'87, sanciva anche sul piano giuridico l'apertura ai capitali esteri e la liberalizzazione.

3 - Gli anni novanta: la guerra "etnica" per aprire la strada al capitalismo

I programmi di "aiuto" del Fmi (con i vari "pacchetti di stabilizzazione economica") e la politica antioperaia del governo federale (ispirata dalla presidenza Bush), basata sul taglio dei trasferimenti da Belgrado ai governi degli altri Stati, su privatizzazioni massicce e licenziamenti di massa, accentuano le differenze tra le repubbliche e uno sganciamento economico di queste dalla capitale federale, creando una situazione in cui crescono i vari partiti nazionalisti, che non a caso vincono le elezioni nel '90 in tutti gli Stati. Milan Kucan è eletto presidente in Slovenia; la destra nazionalista di Tudjman (Hdz) vince le elezioni in Croazia, Milosevic consegue una vittoria schiacciante nelle elezioni del dicembre del '90 in Serbia. Il primo passo della disgregazione viene compiuto dalla Slovenia che il 2 luglio del 1990 (sotto il patrocinio della Germania) proclama la propria indipendenza, seguita a ruota dalla Bosnia e dalla Croazia (che decide la secessione con un referendum nel maggio del '91). Iniziano gli scontri tra le truppe federali e l'esercito sloveno e croato. Tra accordi di pace che durano poche settimane e nuovi scontri, con l'intervento dell'Onu e tregue tra Milosevic e Tudjman, si arriva all'esplosione del conflitto anche in Bosnia e alla crisi definitiva, alla fine del '91, delle strutture federali (con le dimissioni dei croati).

Nel 1992 la minoranza serbo-bosniaca, sollecitata da Milosevic, proclama la nascita di una propria repubblica in Bosnia. Nel marzo di quell'anno iniziano gli scontri tra musulmani e serbi, mentre Belgrado bombarda Sarajevo.

Nel 1993 proseguono gli scontri, specie nella Krajna, in cui prevale la popolazione serba, e in Bosnia. Nell'aprile di quell'anno l'imperialismo rende totale il blocco alla Serbia. La guerra continua sempre più aspra nel 1994, tra offensive serbe e controffensive croate (Tudjman, sostenuto dal Pentagono, riconquista la Krajina, espellendone centinaia di migliaia di serbi), con l'esercito bosniaco che cerca di recuperare il terreno occupato dai miliziani serbi di Mladic.

Una pesante sconfitta militare dei serbo-bosniaci di Karadzic e Mladic nel '95 apre la strada alla pace di Dayton (nel novembre di quell'anno), patrocinata dagli Usa, in cui Milosevic, Tudjman e Izetbegovic, cioè gli ex generali di Tito e gli alti burocrati ex stalinisti trasformatisi negli agenti della restaurazione capitalista, firmano gli accordi in 13 punti che prevedono la spartizione della Bosnia in due entità (croato-musulmana e serba) sotto il controllo imperialista, impersonato dall'Alto Rappresentante, nominato dagli imperialisti, e dal governatore della Banca centrale bosniaca, di nomina Fmi. L'approfondirsi del processo di restaurazione capitalistica nella ex Rfsj ha portato frutti evidenti: una disoccupazione del 50% in Bosnia, del 20% nella "prospera" Croazia, una situazione disperata nella Repubblica federativa jugoslava (Serbia e Montenegro) cavalcata strumentalmente dalla opposizione di destra del ‘96-97.

4 - Il Kosovo e l'autodeterminazione da sempre negata

Durante la Seconda guerra mondiale il Kosovo fu occupato prima dall'Italia ('41) poi, dopo l'8 settembre '43, dalla Germania. Sia il regime fascista italiano che quello tedesco basarono il loro dominio alimentando la contrapposizione tra serbi e albanesi, procedendo all'espulsione in massa dei primi.

Nel dopoguerra i kosovari, accusati di aver collaborato coi fascisti, subirono per anni processi repressivi da parte del regime di Tito che incoraggiò l'emigrazione di albanesi verso la Turchia. La costituzione jugoslava del '46 non concedeva al Kosovo lo status di provincia (concesso alla Vojvodina) e dunque non prevedeva autonome strutture amministrative. Solo negli anni Cinquanta si riconobbe l'esistenza di un'etnia albanese e si concesse l'apertura di scuole albanese (nelle quali, comunque, veniva ignorata la storia del Kosovo).

Nel novembre 1968 gli studenti dell'Università di Pristina danno vita a una serie di manifestazioni "contro la colonizzazione del Kosovo" e in sostegno al riconoscimento dello status di repubblica nella Rsfj. La risposta della burocrazia titoista è l'invio di carri armati per reprimere quella che - con l'appoggio degli operai agli studenti - è diventata una rivolta. Le lotte non sono però state vane e nel '69 viene accordata una relativa autonomia amministrativa al Kosovo e viene aperta l'Università albanese di Pristina. Nel '74 la nuova costituzione riconosce al Kosovo e alla Vojvodina lo status di soggetti federali. Nascono giornali albanesi e le scuole possono introdurre propri programmi di insegnamento. Ma il Kosovo resta nettamente dipendente dal punto di vista economico, con un livello di vita bassissimo (il reddito pro capite alla fine degli anni Settanta è pari al 30% di quello medio jugoslavo).

E' proprio dall'Università di Pristina che nel 1981 parte la rivolta contro le condizioni di vita. Belgrado invia nuovamente i carri armati e ingenti truppe. Vi sono scontri violenti con centinaia di morti. Domata la rivolta si apre una nuova stagione di repressione capillare e di espulsione di decine di operai dalla Lega dei comunisti.

Negli anni ottanta il Kosovo ha la sventura di diventare una pedina nel gioco di Milosevic per la scalata al potere. Nell'89 Milosevic fa approvare delle modifiche alla costituzione in cui, tra l'altro, viene revocato lo status di "entità costitutiva". Ciò provoca la nascita di un nuovo movimento di studenti e minatori. Nel luglio del '90 il parlamento serbo chiude l'assemblea provinciale del Kosovo, i cui deputati si riuniscono nuovamente per proclamare la repubblica kosovara come parte della Federazione jugoslava ed eleggono Rugova "presidente". La polizia serba inizia una sistematica repressione contro la popolazione albanese (che costituisce circa il 90% della popolazione), chiudendo le scuole di lingua e i giornali albanesi, licenziano insegnanti e dirigenti.

Dopo Dayton la Lega democratica di Rugova e la sua politica di semi-intesa con Milosevic e di "resistenza passiva" (incoraggiata dagli Usa) iniziano a essere screditate, mentre cresce un'ala indipendentista. Ala che porterà al rafforzamento dell'Uck, divenuto nel giro di pochi mesi un movimento di massa.

L'Uck emerge nel '96 come prodotto di una serie di scissioni e fusioni di gruppi marxisti-leninisti (enveristi) nati negli anni settanta e ottanta (il Movimento per la liberazione nazionale del Kosovo e il Gruppo m-l del Kosovo). A questo primo gruppo di poche decine di militanti si aggiungono dal '97-98 settori usciti o espulsi dalla Lega democratica.

Nel giugno del '98 il rappresentante Usa Holbroke incontra i dirigenti dell'Uck per convincerli a riconoscere la leadership del fidato Rugova. Non essendo riusciti in questo intento, gli Stati uniti "tollerano" nei fatti una cruenta offensiva serba in Kosovo durata due mesi e conclusa nel settembre scorso. L'offensiva che infligge gravi perdite all'Uck facilita l'opera di "acquisizione" dei suoi gruppi dirigenti da parte di Washington che li conduce al tavolo di Rambouillet e all'accettazione di una ipotesi di semi-autonomia sotto protettorato Nato addolcita (come ha affermato lo stesso Dini) dalla promessa di una futura indipendenza.

Il resto è storia di questi giorni. Bisogna aggiungere che non tutti i dirigenti albanesi sono oggi convinti che le bombe imperialiste spianino la strada ai diritti del popolo kosovaro. Uno dei principali leader dell'Uck, Adem Demaçi (dirigente del Ppk, Partito parlamentare del Kosovo) si è dimesso dagli incarichi dopo la firma di Rambouillet e sostiene oggi che l'attacco Nato è in realtà contro tutti i popoli jugoslavi. Così pure resta su posizioni anti-imperialiste uno spezzone dell'Uck, il Lkck (scissione del Lpk m-l) che avanza la necessità di unire la lotta per l'autodeterminazione nazionale a un programma di nazionalizzazioni delle miniere e delle industrie da realizzare nel quadro di un'unità con gli operai serbi.

Quando gli albanesi capiranno di essere stati nuovamente traditi nella loro legittima aspirazione all'indipendenza, è probabile che queste ali di sinistra potranno riguadagnare spazio. Compito dei marxisti rivoluzionari è dunque quello di interloquire e sostenere, nella piena autonomia politica, queste posizioni antimperialiste perché diano vita a una battaglia per la costruzione di una nuova direzione politica del movimento, alternativa a quella capitolarda della maggioranza dirigente dell'Uck che oggi lega i militanti albanesi al carro delle truppe imperialiste, cioè al carro del principale nemico di ogni ipotesi di autodeterminazione e di ogni prospettiva rivoluzionaria.

Per qualunque questione riguardante queste pagine web potete contattare Luciano Dondero.
Ultimo aggiornamento: 30 maggio 1999.

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