KOSOVO: LA POSTA IN GIOCO
di Andrea Ferrario
Sulle cause della crisi in Kossovo - che ha fornito alla Nato il destro per l'intervento contro la Serbia - e sulle forze che alimentano il conflitto pubblichiamo questo articolo tratto dal sito "I Balcani" [http://www.ecn.org/est/balcani]. L'articolo risale ad un anno fa, cioè al momento dell'esplosione della crisi, ma è stato largamente confermato dagli avvenimenti successivi.
Il grande scoppio di violenza nel Kosovo infine è arrivato, puntuale, come tutti, dalla Bulgaria fino ai lontani Stati uniti, prevedevano. Tanto che alcuni giornali ne avevano addirittura previsto la data, quella dell'inizio di un'azione militare americana contro l'Iraq, fissata a sua volta per la notte di luna nuova tra il 27 e il 28 febbraio. La guerra in Iraq è stata per il momento rimandata, ma in Kosovo tutto è cominciato come previsto il 28 febbraio, con una presunta imboscata nella quale sono rimasti uccisi quattro poliziotti serbi, sulle cui modalità non è possibile effettuare alcuna verifica, visto che il governo di Belgrado ha immediatamente isolato in maniera ermetica la zona. Le immagini, le testimonianze e i resoconti (anche quelli ufficiali serbi) sono tuttavia univoci: con la scusa della caccia al terrorista le forze di Belgrado stanno conducendo una vera e propria strage tra la popolazione della zona di Srbica (un'operazione metodica evidentemente preparata da tempo), senza risparmiare donne incinte e anziani e ricorrendo all'uso dell'artiglieria contro i villaggi dell'area. I media non hanno trovato di meglio che applicare i soliti cliché di un Milosevic nuovamente preda a istinti omicidi (del suo entourage di privatizzatori amici dei capitalisti occidentali ovviamente non si fa nemmeno parola), della pulizia etnica (che in Kosovo, dove il 90% della popolazione è albanese è un non senso) e del conflitto tra islamici e cristiani (anche questa una bestialità quando si parla di Kosovo), magari colorita con l'asserzione, non sostenuta da alcuna prova, della presenza di istruttori iraniani al servizio dei terroristi albanesi ("La Repubblica", 6 marzo 1998), utile a giustificare una "equilibrata presa di distanza".
In realtà in Kosovo si sono accumulati e si stanno accumulando in maniera esasperata quelli che sono problemi sociali e politici comuni a tutti i Balcani e, più in generale, all'Europa orientale, ai quali nessuno vuole guardare in faccia. Per capire quanto succede, per comprendere le cause e avere un'idea delle possibili conseguenze di quello che sta accadendo, è necessario individuare alcuni fatti fondamentali e porli in un contesto internazionale, affrontando tuttavia anche gli aspetti sociali e politici all'origine della crisi.
L'Uck, la resistenza non violenta e Belgrado
L'Esercito di liberazione del Kosovo (Uck) [ ] negli ultimi sei mesi [ ] ha moltiplicato le proprie azioni, guadagnandosi un ampio appoggio tra la popolazione e conquistando il controllo di un'importante area al centro del Kosovo [ ] I giornali hanno avanzato numerose ipotesi sui suoi legami esteri: quelli vicini al governo di Belgrado accusano l'Albania, che dicono ospiti campi di addestramento vicino a Tirana, mentre altri parlano della Germania o della Svezia - su una cosa però tutti sono concordi, e cioè con i legami, nei fatti non negati, con il governo kosovaro in esilio in Svizzera, guidato da Bujar Bukoshi, che controlla i non esigui fondi fatti confluire a Prishtina a sostegno del "governo ombra" di Rugova. Ma ci sono altri, ben più inquietanti legami indiretti dell'Uck (e del governo di Bukoshi), che portano a Washington, attraverso l'influente Albanian-American Civil League (Aacl), un'organizzazione degli albanesi emigrati in America che ha sostenuto attivamente Berisha prima, durante e dopo la rivolta albanese, offrendo sostegno a numerose iniziative dei nazionalisti albanesi della regione, come per esempio l'organizzazione dell'Università "parallela" albanese di Tetovo, in Macedonia. I legami non sono di poco conto: presidente dell'Aacl, che ha sede a New York, è Joseph Dioguardi, un deputato americano stretto collaboratore del senatore Bob Dole, che ha sfidato Clinton come candidato ufficiale del Partito repubblicano alle presidenziali del 1996. Recentemente, come ha scritto l'organo della comunità albanese americana "Illyria" l'11 febbraio scorso, alcuni sedicenti membri dell'Uck provenienti dalla Svizzera hanno organizzato a New York una serata per raccogliere fondi. L'Aacl, inoltre, ha in alcuni suoi comunicati ufficiali apertamente sostenuto l'operato dell'Uck, sostenendo che non si tratta di un'organizzazione terrorista e invitando i suoi membri a subordinarsi alla giurisdizione del Ministero della Difesa del governo in esilio. L'Esercito di liberazione del Kosovo, grazie ai suoi collegamenti internazionali e alla popolarità tra una popolazione esasperata dalle misure repressive di Belgrado e dallo sterile attendismo del "governo-ombra" di Rugova, ha ormai acquisito un'importanza di primo piano. Le sue azioni violente non possono che fare comodo a chi, a Prishtina, come a Belgrado, a Washington, e anche a Roma, vuole ignorare o soffocare ogni aspetto politico o, soprattutto, sociale della questione del Kosovo.
Un'enorme responsabilità per quello che accade è attribuibile anche alla leadership kosovara, la cui scelta di una lotta passiva non violenta e di costruzione di una società parallela (un'idea per nulla nuova nell'Europa Orientale e dimostratasi in passato, in Polonia, in Cecoslovacchia e in Russia, totalmente ineffettiva e perdente, nonché politicamente ambigua) ha portato a un "congelamento" delle lotte degli albanesi. Il popolo albanese del Kosovo è vissuto recluso e inattivo di fronte agli eventi sconvolgenti degli ultimi sette anni, consentendo al regime di Belgrado di mettere in atto, in Croazia, in Bosnia o internamente, tutte le proprie politiche senza dovere mai fare i conti con il 25% più povero ed emarginato della propria popolazione. Non vi è da meravigliarsi se, avendo adottato una tale politica, la leadership albanese di Prishtina è stata completamente incapace di dialogare con la rivolta albanese del '97, di fronte alla quale ha optato compatta per un sostegno "patriottico" al presidente Berisha. In realtà, a parte i discorsi vaghi sulla democrazia, la non violenza, la responsabilità morale, comuni a quelli di tutti gli altri leader dell'Europa Orientale che hanno portato in questi anni i propri popoli al disastro economico e alla dipendenza politica e militare dall'estero, Rugova e gli altri leader albanesi hanno saputo solo produrre un totale allineamento sulle politiche degli USA e dell'UE, accompagnato dalla richiesta di un intervento della Nato, negli ultimi anni tramutatasi in una più presentabile richiesta di protettorato internazionale (che comunque oggi come oggi non potrebbe che essere un protettorato organizzato dai paesi Nato). L'indipendenza basata su un progetto politico ed economico uguale a quello messo in atto dai vari Havel e Walesa (i due "analoghi" di Rugova nei loro rispettivi paesi) avrebbe conseguenze sociali ancora più disastrose in una regione in cui si intrecciano problemi sociali e demografici come quelli del Kosovo. Forse è proprio per garantirsi dagli eventuali esiti della loro politica che questi leader insistono tanto sul protettorato occidentale e probabilmente è proprio sulla modalità di questo "aggancio" che la leadership di Prishtina si sta spaccando.
Belgrado, infine, da dieci anni ormai non sa rispondere ai problemi del Kosovo altro che con la repressione. Ora, sistemate in buona parte le cose in Bosnia, instaurati buoni rapporti con la vicina Albania di Fatos Nano e superati brillantemente gli ostacoli interni dell'opposizione prima di Zajedno e poi di Seselj (il "nemico giurato" Draskovic, ormai è quasi sicuro, entrerà nella coalizione di governo con il Partito socialista), Milosevic può tornare a occuparsi della regione da cui aveva cominciato. Non è per un caso che il leader serbo, alla fine degli anni ottanta, ha scelto il Kosovo come proprio primo obiettivo, individuando in esso il principale ostacolo oggettivo alla politica di conquista delle ricchezze del paese da parte della sua "borghesia rossa" e comprendendone il potenziale serbatoio di rivolta sociale (nella provincia il tasso di disoccupazione è dell'85%) che andava combattuto forzandolo nel ben più innocuo discorso nazionalista (trovando in ciò una perfetta sponda in Rugova).
Ora a Belgrado è stato appena avviato un imponente programma di privatizzazione dell'economia, con il quale Milosevic e i suoi (in cointeressenza con i paesi dell'Europa occidentale e in prima fila l'Italia) vogliono acquisire finalmente un controllo diretto sulle ricchezze della Serbia. Il Kosovo è una fonte di materie prime e di energia essenziale per l'economia serba, così come è essenziale che non vi siano altri gruppi che ne rivendichino il controllo. Il controllo da parte dell'Uck di una zona centrale del Kosovo dalla quale è possibile compiere azioni verso le principali vie di comunicazione sull'asse Nord-Sud ed Est-Ovest (verso il mare) è assolutamente intollerabile per Belgrado. Se riuscirà a "liquidare" il problema in tempi brevi e poi magari aprire una trattativa, Milosevic avrà conseguito i suoi obiettivi e paradossalmente potrebbe anche accettare una separazione parziale del Kosovo (ma non delle zone essenziali per l'economia serba), come sono giunti a ipotizzare in tempi recenti alcuni accademici serbi vicini al regime. Certo, con la recente operazione "antiterroristica" si espone al rischio di un intervento, magari anche militare, dall'estero, ma per lui e il suo gruppo è questione di sopravvivenza e in passato ha già dato prova di non preoccuparsi minimamente di esporre la Serbia e i suoi abitanti a questo pericolo.
Gli Usa, l'Europa e l'Italia
Gli Usa tengono da anni rispetto alla questione del Kosovo una posizione allo stesso tempo ambigua e arrogante, che hanno ulteriormente accentuato di fronte agli ultimi avvenimenti. Per anni hanno sostenuto la causa della leadership nazionalista albanese, appoggiandola diplomaticamente in tutto, ma non nel suo obiettivo fondamentale, cioè l'indipendenza, che gli Stati uniti hanno sempre nettamente rifiutato, come hanno precisato ancora con chiarezza negli ultimi giorni.
Un'ambiguità esemplificata la settimana scorsa dalle dichiarazioni contraddittorie con cui l'inviato americano Gelbard si dichiarava contrario a ogni ipotesi di indipendenza, ma favorevole allo svolgimento il 22 marzo prossimo delle elezioni per le elezioni del nuovo governo "ombra" albanese del Kosovo (che, tra l'altro, l'anno scorso gli stessi americani avevano chiesto di rimandare). Gelbard ha anche ventilato la possibilità di una reimposizione dell'embargo contro la federazione serbo-montenegrina (con incredibile cinismo: "la situazione economica in Jugoslavia è disastrosa, ma noi possiamo renderla ancora peggiore") o addirittura di un intervento militare. La prima opzione sembrerebbe improbabile, dato che un embargo avrebbe, come quello precedente applicato tra il 1992 e il 1995, effetti disastrosi sull'intera regione, dove governi recentemente insediatisi e ancora deboli (Romania, Bulgaria, Albania e, all'interno della stessa federazione, Montenegro) stanno cercando a fatica di portare avanti politiche economiche e militari totalmente conformi agli interessi occidentali. L'adozione di un embargo avrebbe quindi il significato di una definitiva rinuncia a una politica di stabilizzazione (anche se, ovviamente, colonialista), che starebbe a sua volta a indicare una disponibilità a intervenire militarmente.
Ma un intervento militare in questo momento potrebbe purtroppo in realtà essere nei piani di certi ambienti: alcuni giornali della regione ("Nasa Borba") hanno sostenuto a febbraio che gli Usa intendevano vendicarsi del rifiuto da parte degli europei di dare carta bianca a un intervento americano contro l'Iraq, favorendo l'aprirsi di una grave crisi in questa area dei Balcani, nella quale alcuni paesi europei hanno grandi interessi. Stabilizzata la situazione in Bosnia, con l'arrivo del filoccidentale Dodik al potere nella Repubblica serba, gli Stati uniti potrebbero desiderare un rimescolamento delle carte in quest'area che è di importanza centrale sia rispetto alla stessa Europa e alla Russia, che rispetto al Medio Oriente e all'Asia centrale, dalla quale dovrebbero partire in un prossimo futuro importantissimi oleodotti, che arriverebbero all'Europa e al Mediterraneo proprio attraverso questa regione.
L'Europa, e l'Italia in particolare, sono particolarmente interessati a questa area, sia a livello "geopolitico" (oleodotti, vie di comunicazione stradali, telecomunicazioni e relative commesse), sia a livello più puramente economico (privatizzazioni, trasferimento di produzioni, manodopera a basso costo). L'Italia, per essere più precisi, è coinvolta come primo attore in tutti i paesi dell'area: in Serbia, per esempio, ha partecipato alla privatizzazione della Telecom, versando 800 miliardi nelle casse del governo socialista, mentre l'Enel punta all'acquisto delle risorse energetiche del Kosovo, che le consentirebbero un controllo anche sulla Macedonia, uno dei principali utenti, dopo la Serbia stessa, di tali fonti.
Anche in Bulgaria gli italiani puntano a ottenere il controllo della Telecom locale e a conquistare quote della importante industria militare del paese (nonché commesse dalla Nato, alla quale Sofia intende aderire). L'Albania, a sua volta, è ormai dipendente sia economicamente, che istituzionalmente e militarmente dall'Italia. Se a tutto questo si aggiunge l'obiettivo, da parte dell'Italia, di diventare il punto di sbocco in Europa delle principali vie di comunicazione e di afflusso energetico dall'Asia verso l'Europa, si avrà un quadro di interessi di potenza imperialista non di secondo piano. Lo stesso vale anche per altri paesi europei, soprattutto Francia e Germania. Un conflitto militare andrebbe chiaramente contro questi interessi europei.
Vi sono poi gli aspetti direttamente militari legati all'allargamento della Nato, un processo di cui gli Stati uniti vogliono continuare ad avere il controllo, come è stato fino a ora, e che l'Europa, particolarmente in questa zona, intende ancora influenzare a proprio favore, come hanno dimostrato le insistenze per ammettere Romania e Slovenia fin dalla prima ondata e l'attuale corsa della Bulgaria a un'adesione accelerata sotto il patrocinio di Germania e Italia. L'adesione al Patto atlantico, che i governi dell'area cercano di svendere ai propri popoli come una garanzia di sicurezza, potrebbe invece significare per questi paesi il coinvolgimento in un pericoloso conflitto indiretto tra America ed Europa.
Gli aspetti politici e sociali, la sinistra
Tutto questo non deve fare però dimenticare che i conflitti non vengono partoriti dal nulla nelle alte sfere delle élite politiche, ma trovano sempre la loro origine a livello sociale, anche se, per precisi interessi in gioco, vengono mascherati sotto vesti "etniche", "religiose" o "geopolitiche". E' solo a livello sociale, invece, che tali conflitti possono trovare una soluzione positiva e durevole. La storia del Kosovo è a questo proposito esemplare. Il mito della battaglia di Kosovo Polje, citato sempre come uno dei motivi principali della "sacralità" del Kosovo per i serbi, è stato riesumato già a fine 800 dall'ambito letterario (nel quale da secoli era stato, giustamente, relegato) dalla giovane e aggressiva borghesia serba, che aveva bisogno di un motivo unificatore nazionale per coinvolgere ampi strati della popolazione nell'espansione delle proprie politiche di rapina, politiche che si sono concretizzate nel 1912 con le guerre balcaniche e l'occupazione militare del Kosovo dopo la sconfitta delle truppe ottomane (con le quali è fuggita in Turchia per intero anche la classe possidente albanese, in realtà molto più legata materialmente e culturalmente alla élite ottomana che alla propria nazione). Questa operazione militare era solo il primo capitolo di una corsa verso il mare fermata unicamente dalla creazione di uno stato albanese, con il patrocinio di Austria e Italia, che ha separato in maniera netta gli albanesi del Kosovo e della Macedonia dai loro connazionali in Albania.
Questo espansionismo e questa politica aggressiva non sono un "destino" serbo (come certa propaganda antiserba, nei fatti razzista, oggi vuole fare credere), ma sono comuni a tutte le giovani borghesie in cerca di spazi di espansione per costruire un proprio capitalismo nazionale. Ne sono una dimostrazione le politiche identiche condotte da Bulgaria e Grecia negli stessi anni, all'insegna della violenza e del più reazionario sciovinismo, in particolare in Macedonia (e oggi non a caso riesumate anch'esse).
In questo contesto, per gli albanesi del Kosovo c'è sempre stata una contemporanea identificazione come nazione e come sottoclasse, una condizione in atto già sotto l'impero ottomano, nella quale i possidenti albanesi (spesso anche alti funzionari imperiali) erano in realtà albanesi solo di nascita, ma turchi di fatto (nella lingua, per esempio). Questo ha fatto sì che gli albanesi, nel momento della formazione definitiva, nei Balcani, delle borghesie e degli stati nazionali, non abbiano mai goduto, a differenza di serbi, bulgari e greci, della protezione dei propri connazionali in nuclei statali già in formazione o abbozzati, oppure, a causa della propria multireligiosità (secondo molti, ai limiti dell'ateismo), di istituzioni religiose. L'abbandono da parte della propria élite ha così lasciato le masse misere degli albanesi del Kosovo completamente esposte alla colonizzazione allo sfruttamento da parte della borghesia di Belgrado, che è stato durissimo per tutto il periodo tra le due guerre. Tutto questo mentre la Serbia cercava a ogni costo uno sbocco sul mare attraverso l'Albania, che non è stata smembrata tra Serbia e Grecia solo a causa degli opposti disegni imperialisti dell'Italia (realizzatisi poi sotto Mussolini).
E' dopo un periodo di trent'anni di durissimo sfruttamento e di spietate repressioni di ogni ribellione che il Kosovo è arrivato al 1941, anno in cui italiani e tedeschi si spartiscono i territori jugoslavi e il Kosovo verrà annesso all'Albania controllata dagli italiani, sotto gli occhi compiacenti dei quali molti albanesi della regione si sono vendicati crudelmente dei torti subiti rifacendosi sui propri vicini serbi, i quali nella maggior parte dei casi non avevano altro torto che quello di essere della stessa nazionalità degli oppressori di Belgrado. Ma anche sotto gli italiani (che, non va dimenticato, sono stati complici del genocidio tedesco nei confronti dei serbi) gli albanesi del Kosovo non hanno goduto di alcuna autonomia, rimanendo sottoposti al controllo di burocrati di Tirana, controllati da Roma. La politica stalinista di collettivizzazione violenta e di industrializzazione accelerata imposta da Belgrado dopo la vittoria della resistenza antifascista non ha fatto che esasperare i problemi politici e sociali accumulatisi fino ad allora (sui quali peserà dopo il 1948 la mancata realizzazione di una federazione balcanica e il successivo timore che gli albanesi del Kosovo "tradissero" la Jugoslavia alleandosi con l'Albania filo-sovietica).
Sarà solo nel 1965, con la destituzione di Rankovic, particolarmente sistematico nella sua opera di repressione nelle zone a maggioranza albanese, che per il Kosovo si apriranno i primi spiragli di autonomia, e l'avvio dell'autogestione costituirà per gli albanesi della regione una delle prime occasioni di partecipazione politica attiva della loro storia. Ma l'autogestione rimarrà una promessa non mantenuta (nonostante gli innegabili passi avanti che ha consentito nella regione), a causa degli interessi della burocrazia comunista, che si dimostreranno insuperabili e ostili a ogni effettiva democrazia. La burocrazia jugoslava degli anni settanta, impegnata in un progressivo rafforzamento delle strutture di potere locali che ne consentisse il perpetuarsi, ha coinvolto il Kosovo in questi suoi piani, dando vita a una soluzione ambigua, che da un lato ha dato alla provincia praticamente gli stessi poteri di una repubblica (nella speranza di creare così una élite solidale con gli altri centri di potere delle repubbliche), mentre dall'altra le ha negato lo status di repubblica costitutiva, creando giustificate frustrazioni sia tra gli albanesi, che si sono sentiti discriminati, che tra i serbi, che si sono sentiti (a ragione) defraudati di importanti poteri decisionali, sottoposti al veto delle autorità della provincia.
A livello economico e sociale, il Kosovo ha continuato a fruire di enormi finanziamenti, che sono tuttavia andati a sostenere un'industria estrattiva e pesante la quale ha negato alla provincia ogni autonomia effettiva, e che è andata a tutto vantaggio delle altre repubbliche, relegando il Kosovo a un ruolo di fonte di materie prime per le repubbliche più ricche. Allo stesso tempo, il netto miglioramento del livello di istruzione e di quello sanitario in condizioni di sottosviluppo economico ha portato a un vertiginoso aumento della natalità, un fenomeno comune ai paesi del Terzo Mondo. A più riprese, nel 1968, nel 1981, nel 1989 e, infine, nel 1991, questa condizione esplosiva ha portato a vere e proprie rivolte, studentesche e operaie, alle quali la Jugoslavia di Tito ha sempre risposto con la tattica del bastone e della carota e quella di Milosevic con il solo bastone, mentre le richieste degli albanesi hanno man mano sempre più perso le loro connotazioni politiche e sociali, per diventare puramente nazionali.
La carriera politica del dirigente d'azienda (e in seguito leader della Lega dei comunisti) Slobodan Milosevic comincia proprio dal Kosovo, con una nuova riesumazione del mito della battaglia di Kosovo Polje analoga a quella già operata dalla borghesia reazionaria di inizio secolo, e non c'è da meravigliarsene, visto che gli obiettivi di rapina politica della "borghesia rossa" che si raccoglie attorno al leader serbo sono esattamente gli stessi. Solo che ora non si tratta più di fare i conti non più con una popolazione analfabeta e priva di esperienze politiche, come era avvenuto a inizio secolo, bensì con un gruppo nazionale istruito e in rapidissima crescita demografica, con un alta percentuale di giovani: una vera e propria "bomba" politica. Nella sua opera repressiva otterrà un insperato aiuto da parte di un'élite albanese, formata in buona parte da uomini provenienti dall'intelligencija comunista (come Rugova), che cercherà un'affermazione attraverso le rivendicazioni nazionali (e non sociali, che la minaccerebbero direttamente) e la collaborazione con le politiche imperialiste occidentali.
A un quadro del genere, la sinistra non ha saputo mai rispondere che a emergenza già scoppiata e il più delle volte in modo sbagliato. Il fascino che le politiche "gandhiane" di Rugova hanno esercitato in questi anni sugli ambienti pacifisti sono indice di una estrema povertà politica, per la quale le soluzioni istituzionali possono diventare il sostitutivo di ben più impegnative soluzioni politiche. Quali soluzioni propongono Rugova e i suoi per un Kosovo eventualmente indipendente? Le privatizzazioni e i licenziamenti in massa? L'adesione alle alleanze militari occidentali? Di questo, nessuno ha mai parlato, con la scusa di un'emergenza che dura ormai da sette lunghi anni. Eppure si tratta proprio di quello che lasciano intendere le frequentazioni politiche dei leader albanesi del Kosovo (la Lega democratica del Kosovo di Rugova, che controlla il 75% del parlamento "ombra" del Kosovo - mai riunitosi - è membro dell'Internazionale democristiana, come il Partito democratico di Berisha). Queste posizioni, inoltre, rischiano in alcuni casi di sconfinare direttamente nel campo opposto: per fare un esempio, Vincenzo Paglia, mediatore della Comunità di Sant'Egidio che ha portato a un accordo tra albanesi e serbi, mai rispettato, fa parte del Consiglio scientifico della rivista "Limes", una testata altamente politicizzata che da anni propugna una politica di difesa degli "interessi nazionali" italiani nei Balcani, se necessario anche per via militare (dello stesso Consiglio fanno parte, senza barriere "ideologiche", Romano Prodi e il generale Carlo Jean, Gianfranco Miglio e Giulio Tremonti e altri ancora). "Limes", nell'ultimo numero, uscito proprio in questi giorni [si fa riferimento al numero uscito nel marzo '98, ndr], parla della necessità per l'Italia di "aiutare la Serbia e di impedirne la frammentazione"...
Anche di fronte alla politica di Belgrado, sono comodi i soliti cliché generici, come le accuse di nazionalismo, dietro al quale vi è invece un gruppo di neocapitalisti agguerrito, pronto a cambiare alleanza a seconda dei propri interessi contingenti e a passare da paladino della nazione a più volgare alleato delle potenze imperialiste a livello sia militare (in Bosnia) che economico (a casa propria), mandando tranquillamente in rovina il proprio popolo e aggredendo o minacciando quelli vicini se necessario.
E ci sono altre posizioni disastrose assunte negli ultimi anni, che nascono dal rifiuto di guardare più a fondo alle ragione politiche e sociali dei conflitti. L'appoggio o il silenzio nei confronti dell'intervento della Nato in Bosnia e della successiva, prevedibile, trasformazione delle sue operazioni in una vera e propria occupazione militare, che probabilmente richiederà altri "interventi". L'appoggio o il silenzio nei confronti dell'embargo contro Serbia e Montenegro, che nel giro di pochi mesi ha fatto arretrare di mesi le condizioni dei lavoratori del paese e dell'intera area, permettendo alle nuove élite di accumulare un utile capitale di partenza in vista della "liberalizzazione" dell'economia. L'appoggio o il silenzio nei confronti dell'intervento militare italiano in Albania e della parallela colonizzazione delle istituzioni e dell'economia del paese, visti come paternalista "aiuto" i cui presunti effetti positivi, chissà perché, tardano sempre più a venire.
La stabilizzazione economica conseguita dal governo Prodi grazie ai tagli allo stato sociale e alle politiche monetarie hanno messo le aziende e lo stato italiani nelle condizioni di potere mettere a punto una politica colonialista di ampio respiro, che trova nei Balcani il maggiore punto di interesse. E' così che la politica italiana è passata da una prospettiva limitata al sostegno a un corrotto e violento governatore per procura come Sali Berisha, in Albania, a una politica di ampio raggio, di corsa alle privatizzazioni e alle commesse in campo economico e di presenza diretta o indiretta in campo militare, che copre tutta l'area Balcanica, vista a sua volta come ponte verso il Medio Oriente e l'Asia centrale. Questa politica consentirà al governo italiano di rafforzare, con la sua opera "promozionale", le grandi aziende nazionali, le quali a loro volta potranno esercitare sempre più sui lavoratori italiani il ricatto dei trasferimenti all'estero delle produzioni o della manodopera estera a basso costo.
La battaglia pacifista e internazionalista va combattuta quindi in maniera metodica anche sul fronte interno e messa in diretto collegamento con le lotte dei lavoratori e dei movimenti sociali nel nostro paese. Per quanto riguarda il Kosovo, è necessario sostenere la popolazione albanese contro le repressioni (che in questi giorni, non va dimenticato, sono stragi) e le politiche antisociali in atto ovunque esse risiedano (in Albania, in Jugoslavia e in Macedonia), sostenendo allo stesso tempo le lotte e i diritti degli altri lavoratori, disoccupati e pensionati dei Balcani (nelle ultime settimane ci sono stati importanti scioperi e manifestazioni di lavoratori o pensionati in Serbia, in Croazia, in Romania, in Bulgaria) e dell'Europa orientale in genere.
Solo se non si ignorano questi aspetti è possibile avviare trattative di pacificazione effettive, avendo ben chiaro che gli embarghi (già chiesti ufficialmente da varie ong che operano nel Kosovo), gli interventi militari o i protettorati, da un lato, o il terrorismo dall'altro, non fanno che aggravare o perpetrare i problemi di cui sono vittime le stesse popolazioni e non i loro oppressori.
(9 marzo 1998)
[Questo articolo è reperibile sul sito web "I Balcani" [http://www.ecn.org/est/balcani]. Il sito è curato dallo stesso Andrea Ferrario in collaborazione con la rivista "Guerre&pace". Questo sito si segnala per la grande abbondanza di materiali molto interessanti, di fonte diversa, sui Balcani in genere e sul conflitto in Kossovo e sulla guerra oggi in corso in particolare.
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